• Non ci sono risultati.

Nel 1883 Giovanni Verga sta sulla scena letteraria italiana come una specie di enigma: è emigrato a Milano da oltre dieci anni, ha avuto la sua stagione scapigliata ma alquanto idiosincratica, ha pubblicato le

sue due cruciali raccolte di novelle, Vita dei campi e Novelle rusticane,

e soprattutto ha già dato alla luce il capolavoro, quei Malavoglia che le

istituzioni culturali hanno accolto in modo non unanime, ma in ogni caso riconoscendone i caratteri (almeno sul piano morfologico) di sicura originalità. Singolarmente, nonostante cioè quella capacità di smuovere l’orizzonte delle forme e gli statuti fondamentali del raccon- tare, l’itinerario dello scrittore catanese procede però in modo tutt’al- tro che lineare: tanto che quel romanzo, che ha costituito il culmine di un esemplare apprendistato, somiglia piuttosto a una ferita aperta nella sua carriera di poligrafo, di “testimone scisso”, di fabulatore irre- quieto, sempre in bilico tra ricerca e documento, tra la sperimentazio- ne più ardita e il “mestiere” di scrivere, quasi un impulso sottopelle a restituire senza accomodamenti, perfino in modo irriflesso, la prosa del mondo.

È proprio dentro questo guado che Verga mette a segno una narrazione sconcertante e di icastica brevità, che sarà negletta dalla critica e pressapoco dimenticata dal pubblico. Eppure, se lo scrutia- mo in profondità, quel testo – racconto di uno scherzo degenerato prima in stupro e poi in omicidio – ci appare come lo scandaloso “negativo” di un’altra precedente, e al contrario immediatamente canonica, prova novellistica dello stesso autore. Se cioè nella celeber- rimaLa Lupa, prodotta giusto all’inizio di quel decennio di fuoco della

fulminea fase verista, veniva raccontata la “leggenda” al nero di una donna-mantide, una sorta di demone incube che brutalizza i perso-

naggi senza qualità di una comunità ancora totemica, ricattata da una

religio ctonia1,Tentazione! si presentava nella forma di referto di un “guaio” commesso da una brigata pervertitasi in branco. Da un lato, quindi, un tempo ciclico, quasi assoluto (già Capuana, che pure vede- va nel racconto del bando e dell’impossibile redenzione della Lupa soprattutto il resoconto di un episodio di cronaca vera, non poteva fare a meno di scorgerne la radice ancestrale e la trasfigurazione mito-

grafica2), dall’altro lato l’accadimento puntuale, fatale, irripetibile di

un “fatto diverso”; da un lato una carnefice fattasi ostia della comu-

nità, dall’altro una vittima tout court; da un lato una scrittura stratifi-

cata e ossessiva, alla quale Verga era e sarebbe tornato, senza requie,

in chiave di riscrittura e di transcodificazione3, dall’altro una scarica

isolata di energia e di desiderio narrativo, sin troppo rappreso in quel- le pagine presto tralasciate dallo stesso autore. Ciò che si vorrebbe provare in questa trattazione, nella quale si offrirà poco più di un

esperimento di explication du texte della seconda novella (e soprattut-

to delle sue sintomatiche disfunzioni), è che sotto ogni pagina di quest’ultima si agita ancora il fantasma della Lupa. Di più, si vorrebbe azzardare come dietro l’apparente nemesi della Lupa e del suo omoni- mo archetipo francese – la Louve del romanzo popolare per eccellen- za,Les mystères de Paris di Eugène Sue – ci sia qualcosa di fatalmente

irrisolto: perché il cortocircuito, fin qui sfuggito, fra i due “palinsesti” verghiani ci parla di una segreta tensione ideologica, fatta di forma- zioni di compromesso e di riscatti simbolici imperfetti e, a un diverso livello, di debiti scoperti (ma non per questo meno angosciosi) con tradizioni e modelli del romanzo europeo.

Mala Italia

Proprio a causa della velata autocensura d’autore, o comunque dell’o-

blio senza appello, che toccò aTentazione!4, è opportuno fornire una

preventiva e dettagliata descrizione della genesi e della struttura del testo, per poi volgersi a indagare la stratigrafia dei modelli e delle sollecitazioni estetiche a cui sembra reagire. Alla sua prima apparizio- ne sulla “Gazzetta del popolo della domenica”, nel settembre 1883, la novella suscita polemiche a causa dell’argomento scabroso e di alcuni

passaggi ritenuti poco ortodossi, in specie quelli blasfemi: polemiche che inducono il direttore della rivista Augusto Berta a scrivere a

Verga5, con toni e parole riecheggianti un articolo di Zola anteceden-

te di un lustro e già famoso (sarebbe stato poi ripreso nel Roman expé-

rimental). In quell’articolo, apparso a margine del grande successo del

giornale “Le Gil Blas” e dell’ondata di requisitorie da parte degli intel- lettuali (quasi un nuovo, invasivo “protestantesimo”), in questione era infatti la «letteratura oscena»; lo scrittore francese aveva avuto a scagliarsi contro l’ipocrisia diffusa e la «ridicola pudicizia» che «crea

rifugi blindati per gli amori mostruosi»6.

Dopo la pubblicazione in rivista, il testo ricompare, nel febbraio successivo, nella raccolta – prodotto unico del disgraziato sodalizio tra

Verga e Sommaruga – Drammi intimi: titolo ricalcato dalla formula

dellaAvant-propos balzachiana, e richiamante inoltre i drames indivi-

duels della Préface zoliana. Rileviamo subito quest’idea, presentata

proprio nei “luoghi deputati” alla poetica e all’“automodello” dei due massimi cicli della letteratura ottocentesca, di racconto come “dram- ma”, come azione priva di intrusione d’autore. Questa diegesi che pare piegarsi sempre di più verso la mimesi è il fulcro di una modifi- cazione epocale dei dispositivi della rappresentazione. «Processo verbale» – scriverà De Roberto – «significa una relazione semplice, rapida e fedele di un avvenimento, svolgentesi sotto gli occhi di uno

spettatore disinteressato. Processi verbali, io intitolo delle novelle, che

sono la nuda e impersonale trascrizione di piccole commedie e di

piccoli drammi colti sul vivo»7. Anche il “dramma” di Verga pare

respingere, più ancora delle “opere che si fanno da sé” della Marea,

ogni intervento esterno, quasi giungendo a quella narrazione fatta di dialoghi e didascalie additata da De Roberto come modello dell’au- tentica impersonalità. Cosicché in questa novella, come in altre della stessa stagione, il campo di tensione dell’affabulazione si situa nell’in- tersezione fra il dramma e il processo, ovvero tra ciò che sta accaden- do, e viene visualizzato in modo vivido davanti all’occhio dei lettori, e

ciò che va ricostruito ex post e appunto “processato”, eziologicamen-

te o anche criminologicamente, con procedura indiziaria8.

Pur facendo storia a sé, grazie alla sua struttura ellittica e alla sua

inesorabile tragicità “a precipizio”, Tentazione! s’inseriva a pieno

ra nella fine secolo italiana, e con pochi riscontri in altri contesti. Scrittori, giornalisti, sociologi, criminologi, funzionari di polizia avevano preso a riferire, con intenti e stili diversi, delle loro indagini su vasti strati proletari e sottoproletari che vivevano ai margini, o non vivevano affatto, la fresca unità nazionale; e che, con un volto ora dichiaratamente cupo ora semplicemente indecifrabile, avevano alimentato fosche leggende di banditismo, camorra, mafia, delin- quenza urbana e no. Un sottogenere che naturalmente discendeva per vie dirette dai “misteri” parigini, e che si può agevolmente suddi- videre in tre filoni: da quello delle scritture del riformismo umanita- rista e populista a quello del Grand Guignol all’italiana, inzeppato di sociologia e psichiatria, fino ai referti quasi documentaristici allestiti ad arte dai fiancheggiatori (in realtà vere e proprie “quarte colonne”)

del trionfale dettato lombrosiano9. Alcuni esponenti del secondo

filone – Sighele, Ferrero e Bianchi – composero tra l’altro un paio di

racconti a più mani che richiamano il testo verghiano in questione: Il

dramma di Mezzojuso e Gennaro Volpe, entrambi compresi nella

raccoltaMondo criminale italiano (Milano 1894). Anche qui, storie di

sessualità repressa e improvvisamente esplosa, delitti passionali, perfi- no il motivo della mutilazione del cadavere. Non v’è spazio per compiere un’analisi comparativa di questi testi (né tanto meno per volgersi ad alcuni assolutamente consonanti esiti novecenteschi, come il Delitto al circolo del tennis di Alberto Moravia), ma è il caso di

accennare almeno a un nuovo elemento religioso che in essi contri- buisce a intorbidire l’ideologia soggiacente (nell’un caso superstizio- ne, guerra di religione, incesto; nell’altro, culto postumo, isterico e virulento, di una donna uccisa dal fidanzato perché recalcitrante), quasi il genere fosse saturo, e avesse bisogno di inediti, stupefacenti “filtri” culturali. Certo, v’è una differenza formale profonda tra questi racconti della “mala Italia” e Verga: così in quelle scritture si

tende all’enfasi del diverso, all’energia della mimesis, alla sovrab-

bondanza dei segni del deviante, come in Verga si lavora invece sugli oggetti in modo obliquo e reticente. E si badi che non è un parago-

ne peregrino: con quella sorta di koinè che si creò nell’ultimo quar-

to di secolo a Milano lo scrittore siciliano faceva i conti in modo cospicuo, se è vero che nella “capitale editoriale” italiana vedevano

di Corio (Scene contemporanee della Milano sotterra, dello stesso

anno), raccolte come Milano 1881 – a cui Verga partecipò proprio

con uno scritto sui dintorni della metropoli – o anche lo stesso, cele-

bratissimo,Il Ventre di Milano (1888). Tutta questa costellazione di

testi, che solo in parte può dirsi una gemmazione dell’appendicistica d’oltralpe, è l’espressione morfologicamente ma non ideologica- mente omogenea di un diffuso «documentarismo» caratterizzato da

uno spiccato «gusto per la fisiologicità e per l’anatomia degli ogget-

ti», mentre la storia veniva «giocata sulla corda sentimentale e pate- tica, cioè dal punto di vista dei casi umani anziché dei sistemi econo- mici»10.

Lupercalia moderni

Tuttavia, alle radici di Tentazione! c’erano soprattutto alcuni modelli

forti e ben riconoscibili, tra i quali, come si è detto, La Lupa. Nelle

pagine già citate, Capuana ebbe a sottolineare la “realtà” delle «fosche

figure di quel dramma fosco»11: un dramma incentrato sulla passione

di una madre snaturata e ispirato a un fatto di cronaca, l’omicidio di una contadina da parte del genero in seguito a un’incestuosa passione amorosa. Già la descrizione del personaggio, dal tratteggio scarno ma memorabile, si offriva come un fascio di sintomi:

Era alta, magra; aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna – e pure non era più giovane – era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due occhi grandi così, e delle labbra fresche e rosse che vi mangiavano. Al villaggio la chiamavano la Lupa perché non era sazia

giammai – di nulla12.

Erano poche righe, ma stipate di segnali, di cui spettava al lettore

operare il primo déchiffrement: se la macilenza poteva indicare non

fragilità e delicatezza, ma avidità famelica, il seno «fermo e vigoroso da bruna» alludeva a una sensualità forte, a contrappunto proprio di quella magrezza; e se l’aura mitica sembrava corroborata dalla segna- lazione dell’età avanzata, il pallore rimandava invece alla sfera della malattia, sintesi leggibile (soprattutto in un contesto culturale assai incline a letture fisiologiche ed eziologiche del corpo sociale) del deca-

dimento fisico e della degradazione morale del personaggio. A suggel- lo di questa fisiognomica dei pesi e dei contrappesi, gli «occhi grandi così» e le «labbra fresche e rosse che vi mangiavano», elementi iterati e particolarmente erotici del ritratto, mentre rincaravano il coinvolgi- mento patico del lettore introducendo surrettiziamente una particella pronominale di seconda persona plurale, conferivano alla figura, al contempo, una parvenza stregonica: erano occhi da spiritata, con l’at- titudine pietrificante della Gorgone, scuri come il carbone e come la dannazione. Infine, le «labbra fresche e rosse che vi mangiavano» erano contraddistinte da una specie di costante arsura, che spingeva la Lupa ad accostare le labbra al fiasco senza però soddisfare la sua sete – un bisogno primario (e metaforico), che la prosciugava e la debilita- va come l’erotismo che la consumava.

Ma chi è la Lupa? Il soprannome, come spesso in Verga, è un marchio a fuoco, nel quale il punto di vista di una comunità ancora totemica sembra reificarsi, incarnirsi. Simbolo diabolico e violento, il personaggio trasgredisce alle regole morali che la società tende a

rispettare: ciò ne determina la bestemmia – nel senso para-etimologico

di «bestia aestimare»13– e il bando. Questa larvata figura-tabù appare

sospesa tra la dimensione ferina e quella stregonico-leggendaria: e si badi che espressioni come «andare randagio e sospettoso della lupa

affamata» o «sola come una cagnaccia» (LL, p. 124) in questo caso non

le sono attribuite dagli uomini del villaggio, bensì dalla voce narrante.

A tale imagerie zoomorfo-misogina, che grazie soprattutto a Balzac

s’era cristallizzata in un sistema di topoi non privo di incrinature14, si

aggiunge un’ulteriore connotazione, legata alle superstizioni e alle paure popolari: «Le donne si facevano la croce quando la vedevano passare», i mariti e i figli ammaliati anche se «fossero stati davanti all’altare di Santa Agrippina», fino all’ironia blasfema e accumulativa di una frase come «Padre Angiolino di Santa Maria di Gesù, un vero

servo di Dio, aveva persa l’anima per lei» (LL, p. 124). Verga indugia,

cioè, su forme di esorcismo collettivo e quasi ritualizzato, che non riescono però a garantire quell’ordine sacro che la Lupa, non allinea- ta al conformismo pagano-religioso, sovverte, anche chiudendosi in una volontaristica auto-emarginazione dal sistema sociale, e rifiutan- dosi di andare in chiesa. Perché solo nella natura riarsa dei luoghi selvaggi riesce a integrarsi, estrema manifestazione d’una sensualità

panica e demoniaca: non divinità che incanta, ma essere maledetto il cui potere terribile ha i caratteri del maleficio. Alla luce di ciò, non sorprende che la stigmatizzazione interessi anche il destino della figlia, docile e succube, materna e umile, ma vittima a sua volta di un’aspra emarginazione sociale.

La trama della novella è troppo nota per essere ripercorsa nei dettagli: la passione per il soldato, l’eros devastante che conduce all’incesto, la calma eroica e fatale della protagonista, il sacrificio della figlia pur di soddisfare la propria bramosia carnale, l’atteggiamento esitante dell’amato, fatto di attrazione e di rimorso; e poi la denuncia al brigadiere, il ricorso al parroco, e infine la sfida della Lupa alla stret- ta estrema di amore e morte, resa con un cromatismo a tinte piatte, di straordinaria efficacia: «Lo vide venire […] e non si arretrò di un sol passo, non chinò gli occhi, seguitò ad andargli incontro, con le mani piene di manipoli di papaveri rossi, e mangiandoselo con gli occhi

neri» (LL, p. 70). «La vittima è già tanto conscia della fine (appunto,

come un animale intrappolato e senza più scampo) che il suo cammi- no verso la carneficina appare una volontaria eutanasia, una scelta

liberatoria, un suicidio»15: la morte da un lato come elemento catarti-

co per porre fine alle tentazioni dell’inferno, dall’altro approdo inevi- tabile, connaturato al maledetto destino.

Se dietro la contadina violata in Tentazione! c’è la gnà Pina, cioè la

Lupa (con il suo rapporto contrastivo con la figlia), alle spalle della gnà Pina c’è Cecily, cioè la Louve (con il suo rapporto contrastivo con

Fleur-de-Marie). La prosopografia che ne offrono Les mystères de

Paris è notevolmente più articolata e sfrangiata di quella che sarebbe

toccata alla Lupa verghiana:

La Louve était une grande fille de vingt ans, leste, virilement découplée, et d’une figure assez régulière; ses rudes cheveux noirs se nuançaient de reflets roux; l’ardeur du sang couperosait son teint; un duvet brun ombrageait ses lèvres charnues; ses sourcils châtains, épais et drus, se rejoignaient entre eux, au-dessus de ses grands yeux fauves; quelque chose de violent, de farouche, de bestial, dans l’expression de la physionomie de cette femme; une sorte de rictus habituel, qui, retroussant surtout sa lèvre supérieure lors de ses accès de colère, laissait voir ses dents blanches et écartées, expliquait son surnom de la Louve16.

L’immagine trovata da Sue permetteva «di riconoscere facilmente una

parte integrante del patrimonio iconografico della donna fatale»17, un

serpente che insidia a poco a poco la sua vittima soffocandola in un abbraccio letale e che, prolungando l’ardente e inesaudito desiderio, la conduce a una delirante morte. La figurazione era calata nel mondo dei Mystères in modo non sconcertante, anzi del tutto organico: la

Louve era cioè acclimatata perfettamente in quell’imponente romanzo popolare (forse il più stampato e letto del secolo), pullulante di perso- naggi sanguigni e vitali, di delitti e di peccati, quasi una mappa topo- grafica della devianza sociale e di quelle “classi pericolose” – come si cominciarono a chiamare proprio in quegli anni – tanto marginali nella realtà, quanto centrali nell’economia narrativa e nella caratteriz- zazione dei singoli personaggi. La discesa di Sue nel ventre di Parigi può essere vista come una ricognizione nel mondo degli abissi della società, che finisce per apparire l’ultimo rifugio del racconto: come ha rilevato Peter Brooks, tale genere di racconto pesca il materiale narra-

bile proprio in ciò che più si allontana dalla norma e dalla moralità18.

In questo “mondo di invenzione” segnato dal crimine e dall’illegalità, dove il corpo femminile è oggetto di emanazioni e di misteriose forze che suscitano morbose curiosità nel bigottismo borghese, il corpo di Cecily è interamente immerso. La sua bellezza e la sua perfidia di mulatta appartengono a un armamentario esotico/erotico di estrazio-

ne romantica, costruito su un luogo comune ormai accreditato19; la sua

cupidigia esploderà quando dimenticherà tutto quello che David aveva sofferto per lei e vergognandosi, in quel nuovo mondo, di esse- re sposa di un negro «si lasciò sedurre da un uomo spaventosamente

depravato» (MP,VII, p. 776), abbandonandosi all’innata perversità

che con impressionante furore si era destata in lei. Così il vizio incalli- to e l’audacia del suo comportamento, con «quegli occhiacci neri

assassini» (MP,VII, p. 776), la rendono una creatura affascinante, il cui

segreto spinge gli uomini di ogni specie e rango ad abbandonarsi ad appetiti brutali repressi dalle convenzioni morali: una Circe che

trasforma gli uomini in maiali, provocando mutazioni (o meglio meta-

morfosi) e facendo leva su quella “libido” che fa soccombere nella più

squallida voluttà.

Il fatto è che la Louve porta nel suo sguardo, nel suo essere esoti- co e per ciò stesso sensuale, una sorta di suggestione naturalistica

capace di rievocare figure paniche che vivono nell’oscurità della foresta, sotto l’aspetto di bestie feroci pronte a uccidere: il suo sangue, ibrido di razze e tradizioni, contiene un veleno che consuma i cuori dei suoi spasimanti, ne prosciuga ogni energia vitale. Sarà proprio questo “temperamento” a indurre il principe Rodolphe a rinchiuderla per il resto dei suoi giorni in una fortezza, sottraendola alla cieca rabbia del marito pronto a lavare le sue infamie con l’uxo- ricidio. La punizione risulta vana e inefficace perché – liberata – la belva ritorna alle sue antiche abitudini e conoscenze carnali: l’adul- tera si trasforma in una lussuriosa cortigiana, creatura sublime e fiammeggiante, pronta a prostituirsi al culto idolatrico del proprio corpo e a trascinare le sue prede in un tormento spaventoso ma nello stesso tempo eccitante.

La descrizione del soma di Cecily evidenzia le componenti essen- ziali dell’attrazione e anche del “carisma” che l’avvolge. «I fianchi opulenti» rimandano all’idea di fertilità da intendere non come mera procreazione ma come inesauribile voracità sessuale che attrae e seduce; il «seno fiorente» è indice di una giovinezza vigorosa e prepo- tente, specchio dell’energico erotismo della donna; «una folta e magnifica chioma nera» è ribelle e indomabile, nella sua naturalezza, come il carattere della giovane creola; «gli occhi eccezionalmente grandi e avvolti in lunghe ciglia» sono indice di intelligenza scaltra e ardita, di cui si serve per attuare perversi propositi; «la carnagione ha la bianchezza opaca, la freschezza vellutata di un petalo di camelia», simbolo di una floridezza giovanile e casta a cui si contrappone «la

bocca, insolente e sensuale, di un rosso acceso», senhal di energia

primitiva e passione violenta (MP,V, p. 428). Forse l’unico sentimen-

to in qualche modo “positivo” che abita il paradigma femminile della devianza elaborato da Sue è quello di una solidarietà di genere, che non ammette la sopraffazione dell’uomo: ecco perché Cecily accetta di vendicare l’abuso subito da Louise provocando la caduta dell’in- fame notaio che, per contrappasso, muore di lussuria non soddisfat- ta, quella stessa lussuria che lo aveva spinto a commettere odiosi attentati. Tutti questi elementi sono suggellati da quello che è poi il

Documenti correlati