• Non ci sono risultati.

G IANNETTI : 512-513 96 Cfr S CHWEIZER

Nel documento Per non segnate vie (pagine 114-147)

UN LABIRINTO DI ALLEGORIE : IL CORBACCIO E L’AMORE

95 G IANNETTI : 512-513 96 Cfr S CHWEIZER

vero punto di riferimento per la composizione del Sermone, come le numerose riprese e rimodulazioni del Monti, ben illustrate dalla Schweizer, attestano senza ombra di dubbio. È tuttavia interessan- te l’osservazione della stessa curatrice che rileva come, rispetto “al più sobrio stile descrittivo schilleriano”, Monti arricchisca le immagini poetiche “di connotazioni ‘sentimentali’” e proceda a una “intensificazione delle immagini” attraverso il confronto po- lemico con la poetica romantica. Una polemica, mi permetterei di aggiungere, che non riesce mai banale e settaria, anzi, è proprio l’aver lasciato “a cheto il furor delle sette” (come scriverà al Te- daldi Fores) che induce il Monti a indirizzare la critica alla diffu- sione della poetica romantica in Italia su due punti sostanziali e non di effimera polemica letteraria: l’opposizione alla ispirazione patetico-sentimentale come espressione di una natura, ma soprat- tutto di una soggettività malata, non più in armonia con la vita dell’universo, “l’alma […] del mondo” che, virgilianamente, è “spi- rito”, “mente”, “divina fiamma” che scorre vivificando “la celeste materia e la terrestre”; e l’opposizione alla poetica del “vero”, la cui aridità è estranea all’autentica poesia che è verisimile finzione. L’aspetto più importante dell’opera è costituito dalla contrapposi- zione, ribadita con molta chiarezza nella lettera già più volte cita- ta, tra poesia e filosofia come due diversi e specifici approcci del pensiero umano alla conoscenza: “Possibile che non si sappia di- stinguere l’officio del poeta da quel del filosofo? che il parlar ai sensi è diverso dal parlar all’intelletto? che la nuda e rigida verità è morte della poesia? che poesia … vale finzione, e che la favola non è altro che la verità travestita? che questa verità ha bisogno di essere ornata di rose onde avere liete accoglienze?”97. La filosofia (o la scienza, diremmo noi) indaga la verità servendosi della logi- ca, del ragionamento sillogistico; la poesia servendosi delle imma- gini e dei processi intuitivi e di suggestione che quelle producono. Le favole mitologiche dunque non sono in essa un accessorio utile soltanto ad applicarvi ornamenti più o meno privi di sostanza, ma l’espressione piena della concezione della poesia come ‘fantasia del mondo’, cioè l’espressione della concezione dell’universo come 97 La lettera del 30 novembre 1825 a Carlo Tedaldi Fores si legge

Per non segnate vie 115

di un tutto animato da un unico afflato vitale, che nelle immagini della poesia trova la propria manifestazione. La polemica contro la poetica del vero si sviluppa perciò nella contrapposizione tra “l’irte dottrine” filosofico-scientifiche “della Stoa” e il “senno” o- merico, cioè una diversa forma di conoscenza espressa dal lin- guaggio favoloso della poesia. Quel che più conta, e che tanto di- stanzia il Monti dalla fanciullesca protesta leopardiana contro l’“atra face del ver”, è l’insistenza sul termine “senno” a intendere che si tratta di due forme diverse di sapere, di pari dignità nel pro- cesso della conoscenza umana, e quindi con piena ragione la Gian- netti istituisce un nesso tra “animazione del mondo naturale” e poe- tica classicistica del Sermone: “L’immaginazione poetica, o ‘fantasia del mondo’, è l’espressione della tensione vitale dell’universo, della contiguità e compenetrazione degli elementi”98.

La riflessione sul classicismo montiano pare, per una sua forza intrinseca, indurre all’uso dell’aggettivo “vitale” e così anche Fabio Finotti, in un bell’intervento sul “sublime patetico”, riconducendo il “neoclassicismo” del Monti nell’alveo della “concezione ciclica del tempo umanistico-rinascimentale”, ricorda come in tale pro- spettiva “l’antico cessa di essere repertorio archeologico, e diviene risveglio e trionfo di un principio vitale e spirituale”99. E poco ol- tre, citando le pagine dedicate da Ennio Quirino Visconti al Laoco- onte100, riformula, con uno scarto apparentemente fuor di misura (dalla vita alla morte!), il proprio giudizio sul neoclassicismo ro- mano: “La rinascita dell’antico è percepita dunque come trionfo non sulla morte, ma nella morte”. La contraddizione è soltanto ap- parente: che un “principio vitale” trionfi “nella morte” è il para- dosso tragico su cui si regge l’edificio spirituale del paganesimo antico; la bellezza è la scintilla che sempre alimenta la fiamma vi- tale: essa brilla dal passato e reca nella propria luce la negazione della rovina di quello. Non si tratta, come scrive invece Fabio Finot- ti, della sostituzione “al dominio filosofico o religioso dell’abisso” di 98 GIANNETTI: 514.

99FINOTTI: 530.

100Le pagine viscontiane, tratte da E. Q. Visconti, Museo Pio-Clementino.

Laocoonte, si leggono ora in P. Treves, Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento, Torino, Einaudi, 1976.

un “dominio estetico”: il “senno” omerico non si contrappone negli esiti a quello “della Stoa”, ma radicalmente contrasta la deriva ni- chilista in cui incappa Finotti101 nel cedere alle mode (peraltro ormai stantie) dello spiritualismo e dell’ermeneusi d’oltralpe (iro- nia della sorte: i preti e i francesi!). Del “carattere sublime e pate- tico della bellezza”, fascinosamente da Finotti definito “classici- smo abbagliante e notturno”, infiniti sono gli esempi nella poesia montiana, e lo sono lungo tutto l’arco della sua esistenza, trascor- sa con dedizione e assoluta fedeltà alle ragioni della poesia, al suo intimo dissentire dagli angosciosi turbamenti che costituiscono l’essenza dello spirito moderno e cristiano. Così la poesia montia- na, che pure sa con somma maestria rivisitare il topos del locus amoenus, riesce con altrettanta efficacia a cantare persuasivamen- te momenti che non hanno nella tradizione italiana altrettanti ri- ferimenti da cui trarre ispirazione e modello. Mirabile è, ad esem- pio, nel principio della cantica La bellezza dell’universo l’afflato co- smico che vibra nei versi che preludono, vinti dalla presenza della bellezza ordinatrice i discordi elementi del caos, al formarsi del cielo stellato e via via di tutti gli esseri viventi102:

Stavasi ancora la terrestre mole Del càos sepolta nell’abisso informe, E sepolti con lei la luna e il sole; E tu, del sommo facitor su l’orme

Spazïando, con esso preparavi Di questo mondo l’ordine e le forme.

101Cfr. FINOTTI, 552: “al dominio filosofico o religioso dell’abisso, il Monti

sostituisce insomma un dominio estetico: questa è la radice inquieta, sempre sospesa su una drammatica prospettiva esistenziale e cosmica, della nuova primavera classicistica, e della moderna ripresa delle temati- che umanistiche. […] La bellezza che sola si salva dalla catastrofe, salva con sé lo sguardo dello scrittore e istituisce uno spazio estetico e morale al di là delle cose, dal quale è possibile contemplarne e dominarne la ro- vina”.

102Cito sia La bellezza dell’universo sia, più oltre, La Feroniade, dalla rac-

colta di Poesie scelte. Sulla Feroniade si rammenti l’importante contributo di CIANI.

Per non segnate vie 117 V’era l’eterna Sapïenza, e i gravi

Suoi pensier ti venìa manifestando Stretta in santi d’amor nodi soavi. Teco scorrea per l’infinito; e, quando Dalle cupe del nulla ombre ritrose L’onnipossente creator comando Uscir fe’ tutte le mondane cose,

E al guerreggiar degli elementi infesti Silenzio e calma inaspettata impose, Tu con essa alla grande opra scendesti,

E con possente man del furibondo Càos le tenebre indietro respingesti, Che con muggito orribile e profondo

Là del creato su le rive estreme S’odon le mura flagellar del mondo; Simili a un mar che per burrasca freme,

E sdegnando il confine, le bollenti Onde solleva, e il lido assorbe e preme. (La bellezza dell’universo, vv. 16-39)

Soltanto il Tasso del Mondo creato poteva qui soccorrere l’ispirazione del giovane Monti e soltanto può con lui e con Dante porsi a campione di un modello ‘sublime’ di poesia che nella no- stra lingua competa con gli archetipi esiodeo e lucreziano. A con- traddire poi il giudizio desanctisiano che voleva tratto distintivo del Monti “l’ondeggiare perpetuo”, o l’ancor più drastica riduzione del Binni che definì la sua una “poesia mancante di una profonda coerenza di principi nell’uomo” (profondità che soltanto l’uso di lenti deformanti potevano fargli intravedere tutta del Foscolo!), la sublimità tragica e la possanza descrittiva dei versi giovanili della Bellezza dell’universo trascorrono fino agli ultimi anni, alle perora- zioni del Sermone e agli splendidi squarci della Feroniade, quando Vulcano, istigato dalla gelosa Giunone, scatena l’eruzione che di- struggerà definitivamente “il bel regno” della ninfa Feronia, già converso in “atra palude” dall’inondazione provocata dalla dea:

Già morìa su le cose ogni colore, E terra e ciel tacea, fuor che del mare L’incessante muggito; allor che pronto

Il fatal vase scoperchiò Vulcano, E all’aura scintillar la rubiconda Bragia ne fece. Ne sentiro il puzzo I sotterranei zolfi e le piriti E gli asfalti oleosi, e dal segreto Amor sospinti, che tra loro i corpi Lega e l’un l’altro a desïar costrigne, Ne concepîr meraviglioso affetto, E di salso umidor pasciuti e pingui Si fermentaro, ed esalâr di sopra Improvvisa mefite. E pria le nari Ne fur de’ bruti e de’ volanti offese, Che tosto piene le contrade e i campi Fêr di lunghi stridori e di lamenti. N’ulularono i boschi e le caverne, E tutti intorno paurosi i fonti N’ebber senso di orror.

(Feroniade, II 379-398)

O ancora si veda la potenza immaginativa e la precisione de- scrittiva, cui per nulla guasta il riferimento mitologico a Vulcano, con cui è raffigurato il momento dell’eruzione: l’esplorazione del dio che si dirige “ove più vivo Con lo spesso odorar sentia l’effluvio De’ commossi bitumi”, il suo calarsi “entro un immane Fendimento di rupi”:

Buio baratro immenso, a cui di zolfi Ferve in mezzo e d’asfalti un bulicame Che in cento rivi si dirama, e tutte Per segreti cunicoli e sentieri Pasce le membra degl’imposti monti.

(Feroniade, II 431-435)

E infine il suo attizzare il fuoco, il “baleno” in cui “fiammeggiò la vorago”, la corsa “per le sulfuree vie” della “fiamma licenziosa”, il suo abbracciare “le immense Ossa de’ monti, e delle valli i fianchi, E d’Anfitrite i gorghi”. La descrizione si sviluppa ricca di pathos, ma con mirabile realismo, degna davvero di essere posta a para- gone con talune terzine dantesche; né in essa si avvertono forza-

Per non segnate vie 119

ture, anzi le stesse figurazioni artificiose riescono del tutto natura- li: “addolorata Geme la terra, che snodar si sente Le viscere, e di- strar le sue gran braccia”.

Nella Feroniade peraltro la sublimità tragica non è attinta sol- tanto nei brani pertinenti la sfera naturale: gli episodi di Timbro e Larina nella conclusione del primo canto e quello di Alcone nella conclusione del secondo raggiungono vertici di assoluta eccellenza nella figurazione degli affetti, tanto da competere senza alcun di- sdoro con i più celebri brani virgiliani di intenerita commozione. E come in Virgilio la pietas montiana si esprime con eguale intensità di affetto nella rappresentazione dell’umana afflizione e in quella del dolore animale. Terribile è la sorte dei due giovani ormai pros- simi alle nozze e perdutisi nella spaventosa inondazione; la dispe- rata inchiesta di lui,

Dopo molti in cercar la sua fedele Scorsi perigli, l’ultimo su l’erta Spinto in sicuro; e fra i dolenti amici Di Larina inchiedea; Larina intorno, Larina iva chiamando, e forsennato Con le man tese e co’ stillanti crini Per la balza scorrea; quando spumosa L’onda, che n’ebbe una pietà crudele, La morta salma gliene spinse al piede.

(Feroniade, I 788-796)

E infine è efficacissimo lo struggente finale in cui il genio poeti- co produce una perfetta unione di forza immaginativa e sentimen- tale che rende al vivo il tragico attimo della definitiva risoluzione:

... ma stette

Sovr’essa immoto con le luci alquanto; Poi sull’estinta abbandonossi, e i volti E le labbra confuse, e così stretto Si versò disperato entro dell’onda, Che li ravvolse, e sovra lor si chiuse.

Tuttavia, ancor maggiore passione muove l’animo alla lettura della miseranda fine dell’ “innocente famiglia” di Alcone, cui i “pie- tosi Ululati” del fedele Melampo preannunciano lo spaventoso sommovimento tellurico, ma senza che tale avvertimento li possa salvare: il pio affidarsi del vecchio agli dei in posizione orante, con “a canto in quel medesmo atto composti” i due figli, non lo scam- perà dalla sciagura:

... Unico volle La ria Parca lasciar Melampo in vita, Raro di fede e d’amistade esempio. Ei rimasto a plorar su la rovina, Fra le macerie ricercando a lungo Andò col fiuto il suo signor sepolto, Immemore del cibo, e le notturne Ombre rompendo d’ululati e pianti; Finché quarto egli cadde, e non gl’increbbe, Più dal dolor che dal digiuno ucciso.

(Feroniade, II 516-525)

È una pietas tutta pagana, che si risolve interamente nella sfera dell’immanenza, senza dare adito a illusioni ultraterrene, a ciance consolatorie. Questo aspetto ha soprattutto segnato la sfortuna del Monti: lo scontro, talvolta acerrimo, di giudizi su di lui ha la pro- pria ragione in un conflitto più ampio e profondo e mosso non sol- tanto da motivazioni di gusto: si può anzi affermare che proprio il riconoscimento dell’identità nazionale è messo in discussione schierandosi pro o contro la sua opera. Da un lato si propone la nazione romantica, cattolica e manzoniana, che il De Sanctis, fiero avversatore del Monti, volle presentare come compimento di un’attesa di secoli, nazione che diventa stato nel processo risorgi- mentale superando i limiti dello “spirito italiano” affermatosi nel Rinascimento e gravemente colpevole, a suo dire, di starsi inope- roso e inerme in quanto votato al sogno ozioso della “forma per- fetta” d’arte e di pensiero, sogno sorretto dalla corrotta fede mate-

Per non segnate vie 121

rialistica103. Dall’altra parte invece sta il Monti, il cui magistero in- tellettuale preparò l’animo dei giovani all’amor patrio che diede linfa al Risorgimento nazionale, ma dal quale non sarebbe mai sta- to tollerato che il processo di conseguimento dell’unità e indipen- denza politica, la formazione dello stato, andassero di pari passo con la cancellazione e la mistificazione della grandezza passata della nazione, priva nei secoli trascorsi dell’unità statale ma ben riconoscibile nella forma di Repubblica delle Lettere, “nei segreti congressi della ragione repubblica liberissima”. Il ritratto dell’Italia che Monti traccia nelle prolusioni e nelle lezioni pavesi, nonché in tutta la sua opera, è quello della patria del libero pen- siero, che ha i propri nemici nel “despotismo” e nella “superstizio- ne”, raffigurati non certo genericamente: “Nessuna gente d’Europa ha trovato impedimenti tanti alle scienze come l’Italia, dappoi che le scienze cominciarono a insospettire la politica religiosa”104. Gli eroi fondatori della patria sono dunque le “teste vulcaniche del Telesio, del Campanella, del Vanini, del Pomponazzo” e l’eredità che essi trasmettono è il “ricco patrimonio di gloria” derivato dall’aver tratto “dall’abisso infinito della menzogna” la verità e dall’aver consegnate “all’Europa tutta le scienze non già bambine né barcollanti né povere, ma vigorose ed adulte, ma fornite d’esperimenti e di forze, onde agevolmente istradarsi alla perfe- zione”105. Così, mentre il destino di molte nazioni, tanto antiche quanto moderne, è stato di riconoscersi e di proliferare nel fanati- smo e nell’intolleranza delle altrui ragioni e delle altrui opinioni, Monti ammaestrava invece i giovani all’illuminato scetticismo e a sentirsi italiani, non perché abitanti la terra “ch’Appennin parte, e ’l mar circonda e l’Alpe”, ma in quanto eredi della classicità, ovve- ro di un sapere che non soggiace al dogmatismo, ma che ha il pro- prio centro portante nella disciplina retorica e che pone perciò la verità non come rivelazione, ma come frutto di indagini da discu- 103Scrive il De Sanctis a proposito del Cinquecento italiano: “Materiali-

smo era in tutto, nella vita, nelle lettere, nelle sue applicazioni alla mora- le, alla politica, all’uomo e alla natura. Ma non si chiamava materialismo. Si chiamava coltura, arte, erudizione, civiltà, bellezza, eleganza: ipocrisia in alcuni, in altri corta intelligenza”; cfr. DE SANCTIS: I 512.

104Lezioni: 251. 105 Lezioni: 258-259.

tere e comunicare attraverso persuasive argomentazioni. Per que- sto il Rinascimento sta a fondamento della nazione e nulla rileva che quel periodo storico coincida con l’invasione straniera del ter- ritorio nazionale, dal momento che la nazione non si riconosce nell’indipendenza politica, ma in quella intellettuale, in quella “or- gogliosa persuasione”, per cui, come ricordava Dionisotti, “gli Ita- liani soffrono sì la violenza degli eventi storici, ma sono essi soli capaci, per elezione e per educazione, di opporre a quella effimera e cieca violenza la perenne, lucida validità del discorso, della scrit- tura”106. Questi sono gli Italiani a cui parla Vincenzo Monti, mentre gli eroi sabaudi tanto apprezzati da De Sanctis scoprirono, com- piuta l’unificazione politica, di avere perduto il carattere di nazio- ne e di ‘dover fare gli Italiani’ di bel nuovo.

Alla prospettiva romantica di un’eccellenza raggiunta dalla cul- tura italiana nel Trecento e quindi della successiva corruzione del- lo spirito nazionale nei secoli seguenti fino al suo risorgere nel compimento del processo politico dell’unificazione, si contrappo- ne la più illuminata prospettiva montiana che individua nel Cin- quecento l’età aurea della nazione e che mostra, ad esempio nella valutazione dei fatti linguistici, a ogni passo la propria incontra- stabile ragione. Ed è peraltro proprio De Sanctis a denunciare sen- za infingimenti i motivi per cui ritiene che il Cinquecento italiano vada condannato: in quanto in esso “un nuovo contenuto si va ela- borando dall’intelletto italiano, e penetra nella coscienza e vi rico- struisce un mondo interiore, ricrea una fede non più religiosa, ma scientifica, cercando la base non in un mondo sopra naturale e so- pra umano, ma al di dentro stesso dell’uomo e della natura. Pom- ponazzo negando l’esistenza degli universali, rigettando i miracoli, proclamando mortale l’anima, e spezzando ogni legame tra il cielo e la terra pose obbiettivo della scienza l’uomo e la natura”107. L’ostracismo decretato nei confronti di Vincenzo Monti, e la con- seguente cancellazione dal repertorio delle letture scolastiche del- le migliaia di splendidi versi da lui composti, è opera di un’Italia che ha respinto da sé la propria migliore eredità e, formalmente indipendente, non soltanto è diventata la nazione concordataria, 106DIONISOTTI: 27.

Per non segnate vie 123

di fatto succube della “Romana Meretrice”, ma ha anche rinunciato a quella “orgogliosa persuasione” che rendeva libero lo spirito dei suoi cittadini anche in presenza di straniere dominazioni. Monti fu insomma l’esatto opposto di quanto la scuola colpevolmente si è prefissa di insegnare: poeta non soltanto colto ed elegante, non sol- tanto (come voleva Leopardi) “della fantasia e dell’immaginazione”, ma anche e soprattutto del “cuore”; spesso incapace di frenare i propri impulsi e i propri entusiasmi, sempre però coerente difenso- re di un ideale di poesia che contemperasse eleganza del dettato, passione civile, suggestione della fantasia. Giovane nella Roma frugoniana e arcadica esaltò contro l’indirizzo corrente la magnifi- cenza del poema dantesco e rivendicò l’eccellenza di Omero con- tro la diffusa moda anacreontica; vecchio nella Milano romantica fu ancora controcorrente combattendo strenuamente la luminosa battaglia a favore del classicismo, non per esprimere attardate il- lusioni pedantesche e cortigiane, ma in nome in primo luogo dell’amore per la patria, sovranazionale, della ragione e della li- bertà.

DANTE,PASCOLI,ENEA:

NUOVOSEMPREANTICO

Gli scritti danteschi di Pascoli sono un tabù dell’italianistica108. Anche chi non annette gran valore alle rilevazioni statistiche non può non rimanere sconcertato da una pur semplice osservazione: l’opera omnia mondadoriana degli scritti pascoliani è composta di cinque tomi, uno di poesie, uno di carmina, uno di scritti vari in prosa, e ben due di scritti danteschi; due quinti dunque della sua produzione (ma in realtà assai di più dal momento che i tomi dei saggi danteschi sono assai più voluminosi che non, ad esempio, quello dei carmina) a fronte di (ma credo sia un calcolo largamen- te per difetto) meno di un ventesimo della bibliografia critica. Non soltanto: noi sappiamo dalle dichiarazioni del poeta che egli si at- tendeva la fama presso la posterità da due opere sopra tutte, i Po- emi conviviali e gli scritti danteschi, le più neglette insieme ai Car- mina dalla critica pascoliana.

Non pare dunque inutile interrogarsi sulle cause di tale negli- genza. La prima e più immediata spiegazione che si dà della man-

Nel documento Per non segnate vie (pagine 114-147)

Documenti correlati