di ROBERTO BARZANTI
E se ce l’avesse fatta Pandolfo Petrucci a far costruire torno torno il Campo un bel porticato? L’idea – secondo quanto attesta una deliberazione di Balia del 1508 – non fu di quelle che vengono lanciate e cadono poi nel vuoto, se tutta una serie di docu-menti, appunti, abbozzi dimostra a dovizia che sull’audace ipotesi in molti si affaccen-darono e a lungo. E non solo a proposito del porticato, ma per rimettere a nuovo in chiave anticheggiante una piazza che nei primi decenni del Cinquecento appariva troppo irregolare e inadeguata ai canoni di una solenne e equilibrata simmetria. Senza dubbio tra le carte che registrano questo cantiere, per fortuna potenziale, lo schizzo più sconvolgente è quello di Baldassarre Peruzzi, forse del 1532: data celebre, ad esempio nella storia della letteratura italia-na. Tanto per rinfrescare la memoria è la data dell’edizione definitiva dell’ “Orlando furioso” di Ludovico Ariosto. Non erano tempi da star tranquilli: la situazione politi-ca si faceva di giorno in giorno più dram-matica. I Noveschi nel 1531 erano stati riammessi al governo dopo il fallito tentati-vo di rovesciare le istituzioni repubblicane. A Firenze si metteva a punto una riforma istituzionale per trasformare la signoria in principato, ma con scarsa fortuna. I nodi venivano al pettine. I fragili Stati italiani non reggevano all’urto delle grandi poten-ze. Meglio rifugiarsi in sogni di grandezza non meno bizzarri dei Castelli tratteggiati
nei poemi cavallereschi, la fiction di allora. Ed ecco che Peruzzi – il suo schizzo si con-serva all’École des beaux-arts di Parigi – immagina un portico che s’apre ai due lati di un Palazzo Pubblico troneggiante isolato al centro. La Torre del Mangia è trasforma-ta in una colonna, alla sommità della quale collocare un’enorme statua, e sia questo svettante cilindro che la cappella ai suoi piedi vengono duplicati sul fianco verso Malborghetto: in modo da avere, si direb-be, perfettamente bilanciate, due imponen-ti torri gemelle in forma di colonne. Il piano centrale del Palazzo sarebbe culmina-to in una fronte di tempio. Un’operazione del genere avrebbe fatto assumere alla piaz-za una geometria non solo classicheggiante, ma sacra e romana. Infatti Peruzzi mirava a trapiantare nella sua città natale esperienze raccolte nel cantiere di San Pietro a Roma e a Bologna, a San Petronio. Neppure il Duomo sarebbe stato immune da questo ardimentoso revisionismo, quando revisio-nismo era. A volte si trattava di pura e sem-plice distruzione e sostituzione. Una serie di disegni fanno intravedere una robusta trasformazione dell’edificio. “Vien pensata una mole – fa notare Matthias Quast – che avrebbe marcato la ‘silhouette’ di Siena con un imponente segno all’antica”. Addio sogno gotico! Il saggio di Quast su “Baldassarre Peruzzi e la visione di una Siena all’antica” è compreso, insieme a con-tributi di Elisa Bruttini, Mauro Mussolin,
Le annotazioni di Roberto Barzanti a margine della fortunata mostra: ARCHITETTI A SIENA
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Emanuela Ferretti, Bernardina Sani, Ilaria Bichi Ruspoli, Alina Payne, Giovanni Maria Fara, Daniela Arrigucci, Bruno Mussari, Milena Pagni e Annalisa Pezzo nel volume “Architetti a Siena. Testimonianze della Biblioteca comunale tra XV e XVIII secolo” (Silvana editoriale, Milano 2009), edito in occasione della mostra che s’è tenuta a cele-brazione dei duecentocinquant’anni della Biblioteca di via della Sapienza. L’attenzione per l’architettura è uno dei filo-ni più riconoscibili tra i molti coltivati da coloro che – da Giuseppe Ciaccheri a Sallustio Bandini – hanno raccolto con diu-turna passione l’insieme dei testi che rende la Biblioteca un deposito tanto ricco e pre-zioso: così i fondatori non sono stati ricor-dati a chiacchiere – sottolinea il direttore Daniele Danesi – ma “attraverso l’esibizio-ne dei risultati tangibili della loro aziol’esibizio-ne, le acquisizioni e il talvolta lento, talvolta tumultuoso, accrescimento delle collezio-ni”. La presidente Bernardina Sani aggiun-ge, a giustificazione del tema prescelto, ch’è sembrato molto istruttivo favorire una migliore conoscenza, anche ad un pubblico non specialistico, di un libero dinamismo progettuale, magari non sempre andato a buon fine, ma in grado di stimolare inter-pretazioni e riflessioni: “Apparentemente ferma nel tempo, Siena ha tentato incessan-temente di trasformarsi, sia quando ha pen-sato di dotare di portici la piazza del Campo – seguendo i dettami dell’antichità – progetto più volte affrontato e più volte
fallito, sia quando per incoraggiare la devo-zione alla Madonna miracolosa di Provenzano, i Medici, coadiuvati dal loro fedele collaboratore, il Balia Ippolito Agostini, si fanno garanti della costruzione della imponente collegiata di Santa Maria di Provenzano”. E tanti altri momenti si potrebbero citare.
La mostra, e ora il libro che ne resta a memoria, hanno fatto ben intendere la fecondità di itinerari che immettano le forme architettoniche nel flusso delle pro-poste fallite, cadute per artificiosità interna o per smisurate ambizioni. Ripercorrere la storia urbanistica di una città – è una lezio-ne di metodo – significa anche riflettere su quello che non è stato fatto e sulle ragioni che probabilmente ne hanno minato o sconsigliato la realizzabilità. Insomma, ogni discorso su come Siena poteva essere e non è stata, chiama in causa un inquadramento culturale e storico senza il quale il rischio è di fare elenchi che inducano a curiosità eru-dita o a divertita nostalgia. Anche in tempi recenti la questione portici è stata riformu-lata, in termini meno fragorosi. Agli inizi degli Anni Settanta era stato ideato un por-ticato che da Fontebranda conducesse a San Domenico, forse con l’occhio a quello del santuario bolognese della Madonna di San Luca. L’arcivescovo ne era un sostenitore entusiasta. Il Comune come poteva dir no con ferma cortesia e buone argomentazio-ni? Si trovò uno stratagemma semplice. Si invitò Cesare Brandi ad esprimere un suo
Il progetto di Baldassarre Peruzzi per il Palazzo Pubblico di Siena (1530 circa). Parigi, École des beaux-arts.
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parere subito dopo l’esposizione del proget-tista. E Brandi con la stizzita e oracolare laconicità che lo distingueva rispose con un quesito che gelò gli astanti: “Perchè si dovrebbe fare proprio a Siena un porticato? I portici non sono nel nostro stile, non sono nel nostro linguaggio: l’assurdo porti-co dei Comuni a elle basta e avanza!”. Pensai al porticato che si piccava di realiz-zare il volitivo Pandolfo. Se fosse stato fatto
la deduzione sfumava del tutto. E poi si sa: un progettaccio tira l’altro.
Sia come sia, il Peruzzi e i suoi seguaci non riuscirono a tramutare gli effimeri por-ticati che di tanto in tanto si improvvisava-no attorimprovvisava-no alla conchiglia in qualcosa di stabile. Lo spazio del Campo riuscì a imporre la sua legge e ad evitare un simile ingombrante e bislacco stravolgimento.
Progetto di anonimo per un porticato intorno a Piazza del Campo (XVII° secolo). Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.