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genere in Europa

Nel documento CHE HANNO CAMBIATO L’ITALIA (pagine 78-85)

l’imprenditoria, la protezione socia-le, la povertà, la sanità e la discrimi-nazione multipla e l’immigrazione, con azioni chiave che riguardano prevalentemente l’integrazione del-la dimensione di genere nelle redel-lati- relati-ve politiche. L’obiettivo relativo al-l’equilibrio tra attività professionale e vita familiare è composto dalla flessibilità degli orari, dall’aumento dei servizi e dalla redistribuzione dei ruoli. La promozione della par-tecipazione al processo decisionale riguarda la politica, l’economia e la scienza. L’azione relativa alla elimi-nazione della violenza basata sul genere e la tratta delle persone è for-se quella in cui è chiesto un maggio-re impegno dimaggio-retto degli Stati mem-bri. L’eliminazione degli stereotipi riguarda l’istruzione, la formazione, la cultura, il mercato del lavoro e i mezzi di comunicazione. La dimen-sione esterna della promozione del-la parità riguarda del-la legisdel-lazione dei Paesi in via di adesione o candidati e tutte le politiche esterne e di svi-luppo. La Tabella di marcia contie-ne una seconda parte dedicata alla Governance della parità ed è desti-nata al profilo interno delle istitu-zioni, compreso l’Istituto di genere, che sta per diventare finalmente operativo dopo il via libera alla de-signazione della sua direttrice. La prima Tabella di marcia, giunta a scadenza nel 2010, è stata oggetto di verifica alla fine del 2008. Le con-clusioni sono sconfortanti: segnala-no progressi, ma anche le difficoltà incontrate, prima fra tutte “quella di far comprendere bene le sfide. Oc-corre rafforzare la sensibilizzazione e l’adesione agli obiettivi sociali ed economici di parità e ciò richiede una forte volontà politica”.

La nuova Strategia per la parità 2010-2015 è una continuazione del-la prima Tabeldel-la di marcia. Anche del-la nuova strategia si basa su alcuni punti nodali: la pari indipendenza economica, la pari retribuzione, la parità nel processo decisionale, la lotta alla violenza sulle donne, la pa-rità nelle azioni esterne all’Unione europea. Questo documento si ricol-lega strettamente alla Carta per le donne, che è la Dichiarazione della Commissione europea in occasione della giornata internazionale della donna del 2010 e che riproduce in sintesi gli impegni sopra richiamati. La sensazione di una continua

ripro-duzione delle questioni, senza signi-ficativi passi avanti è deprimente. Consola però la continuità nel presi-dio su questi temi, che dà la misura delle difficoltà ma insieme la deci-sione nel proseguire nel cammino iniziato ormai parecchi decenni fa. Importanti sono le Relazioni sulla parità tra donne e uomini, che si ag-giungono all’ormai lunga serie di verifiche annuali e rappresentano interessanti documenti di sintesi delle principali problematiche an-cora aperte.

In apertura della Relazioni 2008, viene effettuato un richiamo ai prin-cipi comuni di Flexicurity, come mezzo per raggiungere quei ‘nuovi e migliori posti di lavoro’ come ri-chiesto dalla Strategia di Lisbona per la crescita e l’occupazione. Su questo è da ricordare come il Parla-mento europeo, nella Risoluzione dedicata ai principi comuni abbia chiesto e prospettato la necessità di declinare la Flexicurity al femmini-le, in considerazione del fatto che sono le donne le principali destina-tarie dei lavori più precari e instabi-li; che la flessibilità – intesa non come precarizzazione dei rapporti di lavoro – è una delle richieste pro-venienti dalle donne, da sempre in-teressate alla organizzazione flesbile del lavoro e dei tempi; che la si-curezza non va limitata a indennità e formazione, ma estesa all’accompa-gnamento nelle diverse attività e scelte durante la vita delle persone; che sarebbe arrivato il tempo per un ripensamento complessivo del siste-ma di Welfare, meno incardinato sul lavoro subordinato. La Risoluzione del Parlamento, in altri termini, at-tua un vero e proprio esempio di mainstreaming di genere, con alcu-ne indicazioni concrete per tealcu-ner conto della “forte alternanza fra atti-vità di lavoro e assistenza familiare” e, quindi, della necessità di adottare politiche di protezione per i periodi di transizione diversi da quello li-neare da un posto di lavoro a un al-tro; della “situazione specifica delle famiglie monoparentali”; della fles-sibilità richiesta dalla persona che lavora come strumento di concilia-zione tra vita professionale, familia-re e privata; della flessibilità nella formazione e nella riqualificazione professionale, oltre che durante i percorsi di reinserimento nel merca-to del lavoro.

Le relazioni segnalano la persisten-za di divari qualitativi e quantitativi tra donne e uomini, con divari: nel tasso di occupazione, permanenza della segregazione settoriale e pro-fessionale, limitata presenza nei luoghi decisionali e nella dirigenza di imprese, divari nella valutazione delle competenze, nell’impiego a tempo parziale (per tre quarti ap-pannaggio delle lavoratrici), nella salute e sicurezza nei luoghi di lavo-ro, nel tasso di disoccupazione, nel-le “carriere professionali più brevi, più lente e meno remunerative delle donne”, che “incidono inoltre sul loro rischio di povertà”.

Ovviamente questa è la dimensione complessiva, che andrebbe poi par-titamente integrata dalla verifica condotta Paese per Paese. Si può qui solo osservare come il nostro Paese si collochi, in ogni indicatore, nella fascia più lontana rispetto al rag-giungimento degli obiettivi. In con-trotendenza sembra esservi solo il divario retributivo. Come vedremo di seguito, proprio questo risultato apparentemente ottimale del nostro Paese ha contribuito ad apportare importanti elementi di riflessione nel momento in cui si è sollecitata l’emanazione di una apposita diret-tiva in materia.

I differenziali retributivi

Nel lavoro per il mercato, molte analisi anche recenti confermano quanto forte sia il divario di retribu-zione tra lavoratori e lavoratrici. Come è noto, le cause dei differen-ziali retributivi sono molteplici e molto spesso sono insite nei sistemi di classificazione e inquadramento del personale. Occorrono, quindi, politiche e strategie per superare la diffusa segregazione orizzontale e verticale nelle mansioni e nei setto-ri tipicamente femminili, così come nelle progressioni di carriera. Sul tema dei differenziali retributivi si è registrato il più intenso – e ina-scoltato – investimento da parte del Parlamento europeo, con la scelta di chiedere alla Commissione, pren-dendo spunto dalla sua Comunica-zione del 18 luglio 2007, una appo-sita direttiva.

La Risoluzione del Parlamento eu-ropeo é stata adottata il 18 novem-bre 2008 e reca raccomandazioni alla Commissione sull'applicazione

del principio della parità retributiva tra donne e uomini. Innanzitutto la definizione di differenziali retributi-vi dovrà superare le insufficienti maglie della retribuzione oraria lor-da, per estendersi a quella netta e a quanto connesso. Anche per questo sarà decisiva la possibilità di avva-lersi di dati, che dovranno essere “coerenti, comparabili e completi, al fine di abolire gli elementi discri-minatori nelle retribuzioni, connes-si all'organizzazione e alla clasconnes-sifi- classifi-cazione del lavoro”. Questo é tanto più importante, come ricordato in precedenza, se si considera che le attuali rilevazioni a livello europeo collocano il nostro Paese al vertice dei virtuosi, mentre le indagini svol-te a livello nazionale indicano la presenza di differenziali ben mag-giori e la stessa inattendibilità delle fonti. Sono ipotizzati anche control-li regolari, rivolti non solo alla retri-buzione ma altresì alle indennità ad-dizionali, nonché la pubblicazione dei risultati, nelle imprese a partire dai venti dipendenti.

La raccomandazione relativa alla classificazione e all'inquadramento professionale é centrale: “una valu-tazione professionale non discrimi-natoria deve basarsi su nuovi siste-mi di classificazione, inquadramen-to del personale e organizzazione del lavoro, sull'esperienza profes-sionale e la produttività, valutate so-prattutto in termini qualitativi, da cui ricavare dati e griglie di valuta-zione in base ai quali determinare le retribuzioni, tenendo debitamente conto del concetto di comparabili-tà”.

In relazione agli organismi di parità, si é scelto non solo di riconoscere loro uno specifico 'ruolo', ma di affi-dare un vero e proprio 'mandato', anche al fine di offrire “una forma-zione specifica destinata alle parti sociali, oltre che ad avvocati, magi-strati e difensori civici, basata su un insieme di strumenti analitici e azio-ni mirate, utile sia al momento della contrattazione che al momento del-la verifica dell'attuazione delle nor-mative e delle politiche pertinenti al divario retributivo”.

Il dialogo sociale include la contrat-tazione collettiva e adotta la pro-spettiva non del tutto usuale di pre-vedere non tanto il suo sostegno e promozione quanto il suo controllo, affinché non diventi strumento di

differenziali retributivi, in riferi-mento non solo alle condizioni di la-voro primarie, ma anche (al)le con-dizioni secondarie e (a)i regimi oc-cupazionali di sicurezza sociale (re-gimi di congedo e pensionistici, vei-coli di servizio, custodia dei bambi-ni, orari di lavoro flessibili, etc.). Seguono due raccomandazioni che si preoccupano del versante della pre-venzione e della promozione. È que-sto un modo per superare gli attuali limiti alle azioni positive che, nel Trattato, sono ancora considerate come ammesse e a discrezione degli Stati membri. Sono invece qui indi-cate una serie di aree di intervento tra cui: formazione, conciliazione tra vita professionale, familiare e perso-nale con l’intero pacchetto dei con-gedi, clausole sociali nei contratti pubblici, linee guida, banca dati, dif-fusione delle informazioni.

Speculare al versante promozione si colloca quello repressivo, con san-zioni amministrative, indennizzi, esclusione da benefici e pubblica-zione dell’elenco dei trasgressori, tutte sanzioni per il momento affida-te a valutazione in uno studio di fat-tibilità.

Chiude l’elenco delle raccomanda-zioni la richiesta di valutazione ed eventuale revisione della direttiva 98/81/CE sul lavoro a tempo parzia-le per gli aspetti di penalizzazione retributiva incompatibili con il prin-cipio della parità di trattamento e di inserimento negli orientamenti in materia di occupazione dell’obietti-vo del contratto dei differenziali re-tributivi.

La nuova direttiva sui congedi parentali

L’accordo quadro è stato raggiunto il 18 giugno 2009, dopo una apertu-ra formale della tapertu-rattativa comuni-cata alla Commissione l’11 settem-bre 2008, ed è ora recepito all’inter-no della direttiva 2010/18/UE del Consiglio dell’8 marzo 2010, che abroga – e non solo modifica – la precedente direttiva 96/34/CE, a sua volta di recepimento dell’accordo quadro europeo del 14 dicembre 1995.

Questo risultato è stato raggiunto dalle parti sociali europee all’esito di una lunga e articolata procedura di consultazione, suddivisa in ben due fasi, nel 2006 e nel 2007, e che

ha visto la produzione di una ric-chissima documentazione e di nu-merose suggestioni. Anche da que-sto deriva il giudizio critico, decli-nato nel titolo, sull’esito limitato della riforma, che, come vedremo, tocca marginalmente il nostro ordi-namento giuridico e forse anche quello di molti degli altri Stati mem-bri.

La direttiva incorpora, come allega-to, il testo dell’accordo quadro, che contiene prescrizioni minime fina-lizzate all’obiettivo “di migliorare la conciliazione tra vita professio-nale, vita privata e vita familiare dei genitori che lavorano e la parità tra uomini e donne per quanto riguarda le opportunità sul mercato del lavo-ro ed il trattamento sul lavolavo-ro l’Unione”. Come è precisato nel-l’accordo quadro, occorre un ap-proccio sistematico, che non può li-mitarsi all’istituto dei congedi e, quindi, delle assenze legittime dal lavoro. “Per continuare a compiere progressi nell’ambito della conci-liazione occorre mettere in atto una formula politica equilibrata, inte-grata e coerente, nella quale rientri-no disposizioni sul congedo, dispo-sizioni sulle modalità di lavoro e strutture di custodia”. Così come dovrebbe arrivare alla ripartizione delle responsabilità familiari e au-mentarne la condivisione tra genito-ri, mediante “misure più efficaci” di quelle messe in atto finora, tra cui l’incremento dell’ammontare del-l’indennità.

A differenza della direttiva abroga-ta, la nuova inserisce un riferimento all’apparato sanzionatorio, rinvian-do agli Stati membri la definizione di sanzioni, che devono essere “ef-fettive, proporzionate e dissuasive”. La trasposizione nell’ordinamento interno deve avvenire entro l’8 mar-zo 2012, per via legislativa, regola-mentare e amministrativa o per via negoziale.

Quanto ai contenuti, la modifica principale riguarda l’incremento di un mese della durata del congedo parentale. In precedenza, i mesi era-no tre e ora soera-no diventati quattro, fermo restando che il congedo è in-dividuale, riguarda i figli naturali e adottivi, può essere fruito entro gli otto anni del figlio, ed è in linea di principio non trasferibile tra i due genitori.

comprensione, riguardando, appun-to, solo un incremento del numero di mesi di congedo. A complicare il quadro interviene l’aggiunta di una nuova disposizione, che si salda a quella sulla non trasferibilità ‘in li-nea di principio’ del congedo tra i due genitori lavoratori, precisando che “almeno uno dei quattro mesi è attribuito in forma non trasferibile”. Sembra un rafforzamento della non trasferibilità, con l’obiettivo di spin-gere il padre a fruire di almeno un mese. La tecnica utilizzata è però blanda, dato che non collega mini-mamente, come avviene in alcuni Stati membri, promozione con pe-nalizzazione, mediante, ad esem-pio, la scelta di collegare la parte del congedo a fruizione da parte del pa-dre lavoratore a quella della mapa-dre lavoratrice. In altri termini, con la disposizione in commento, ciascu-no dei due genitori può fruire, alme-no, di quattro mesi di congedo, tre dei quali trasferibili dall’uno all’al-tro, uno solo intrasferibile e quindi o goduto (dal padre lavoratore, perché di questo si tratta) o perso.

Se questa interpretazione è corretta, si tratta di comprendere le ricadute sul nostro ordinamento. Come è noto, il testo unico maternità – pa-ternità, costruito sulla base della de-lega contenuta nella legge n. 53 dell’8 marzo 2000 (come si vede la ricorrenza dell’8 marzo è nella men-te sia del legislatore nazionale sia di quello dell’Unione europea), legge che, sia pure non esplicitamente, co-stituisce attuazione della precedente direttiva sui congedi parentali, co-struisce una complessa articolazio-ne, da cui si evince che la madre può godere fino a 6 mesi, il padre fino a 7 mesi, la coppia, nel suo insieme, fino a 11 mesi di congedo parentale. La nuova direttiva consentirebbe, invece, anche alla madre di arrivare a 7 mesi. Nel complesso, però il trat-tamento è sicuramente più favore-vole, dato che i mesi sono 11 e non 8 come da direttiva. Non solo. È an-che rispettato l’obiettivo di favorire la ripartizione dei ruoli famigliari e di spingere il padre lavoratore al congedo parentale.

Posso pertanto concludere sul punto ritenendo che il nostro ordinamento potrebbe essere ritenuto, seguendo una interpretazione sistematica, an-cora idoneo a regolare questi conge-di, senza necessità di nuovi

inter-venti. Se si ritenesse doveroso ap-portarli, questi sarebbero limitati alla previsione, anche per la madre lavoratrice, dell’innalzamento di un mese (da 6 a 7), fermo restando il computo complessivo per la coppia. Altre modifiche, introdotte dall’ac-cordo quadro rispetto al precedente, riguardano la previsione di termini di preavviso, la considerazione spe-cifica dei casi in cui i figli siano di-sabili o ammalati gravi, la possibile introduzione di ulteriori misure in caso di adozione, il rafforzamento della parte relativa ai divieti di non discriminazione e alla protezione dei genitori lavoratori al rientro al lavoro. Si tratta di temi riconosciuti e disciplinati nel nostro ordinamen-to. La direttiva potrebbe avere un ef-fetto di rafforzamento nella parte in cui si indicano percorsi di attenzio-ne attenzio-nella fase della ‘ripresa dell’atti-vità professionale’, con “la possibi-lità di richiedere modifiche del-l’orario lavorativo e/o dell’organiz-zazione della vita professionale per un periodo determinato”, da combi-nare con l’invito a rimanere in con-tatto anche durante il congedo. La direttiva potrebbe, inoltre, contri-buire a riportare l’attenzione su un aspetto già presente in quella abro-gata e che riguarda la possibilità di fruire del congedo parentale in modo parziale, il che significhereb-be, per il nostro ordinamento, rico-noscere la possibilità che il congedo possa essere fruito avendo come unità minima non più solo il giorno ma anche l’ora.

Un ultimo cenno va dedicato a un inciso inserito in apertura delle di-sposizioni e che riguarda l’indica-zione che si deve tener conto “della crescente diversità delle strutture fa-miliari”. Si tratta di una apertura alle differenze sempre più ampie nella nozione di famiglia, sia pure ricon-dotta all’interno “delle leggi, dei contratti collettivi e/o delle prassi nazionali”, e che è forse il derivato più evidente di quell’opera di con-sultazione delle parti sociali condot-ta dalla Commissione europea e ri-cordata in apertura di queste note.

La conciliazione tra vita professionale, familiare e privata

Parlare di tempo di lavoro e di tem-po di vita è imtem-portante, perché

di-mostra quanto sia decisivo superare la dicotomia più tradizionale, quella tra tempo di lavoro e tempo di non lavoro, dato che questa seconda for-mula copre in larga parte – e soprat-tutto per le donne – il tempo dedica-to al lavoro di cura e al lavoro dome-stico. E non è un caso, mi pare, che nella maggior parte dei Paesi euro-pei fatichi a diventare conosciuta ai più la stessa nozione di ‘lavoro di cura’. Sottostante resta una dinami-ca sociale fortissima, che non può trascurare di confrontarsi con una società che conta molto sul lavoro non pagato e non retribuito, sul la-voro volontario e che conosce anche i pericoli del suo riconoscimento, soprattutto laddove questo possa fi-nire per ri-sospingere le donne al-l’interno delle mura domestiche. Il tema della conciliazione andrebbe sempre inquadrato all’interno del-l’ampia prospettiva legata al tempo. Solo l’approccio trasversale e glo-bale, infatti, consente di affrontare l’aspetto della riduzione dell’orario di lavoro – ad esempio, mediante il part time – così come quello del suo prolungamento – ad esempio, me-diante il lavoro straordinario -; in al-tri termini, di affrontare il tema del-la flessibilità organizzativa richiesta dal datore di lavoro assieme a quel-la richiesta dalle quel-lavoratrici e dai quel- la-voratori.

Le statistiche mettono in evidenza: che in ogni Stato membro del-l’Unione, sono le donne ad essere maggiormente occupate a tempo parziale e che le lavoratrici riducono il tempo quando hanno vincoli fa-miliari, mentre i lavoratori, nella stessa condizione, lo aumentano, se non altro per incrementare il reddi-to; che i lavoratori lavorano meno quando sono single, tutto il contra-rio delle lavoratrici, che lavorano di più proprio quando lo sono; che al-l’aumentare del numero di figli, gli uomini lavorano di più nel mercato del lavoro, mentre le donne rischia-no di uscirne. Sorischia-no queste differen-ze a segnare icasticamente la condi-zione delle donne e degli uomini nei confronti del lavoro. E sono le stes-se che rischiano di incrementarsi sulla base degli stereotipi che pro-ducono e autoalimentano.

La Fondazione di Dublino, nella quarta indagine europea sulle con-dizioni di lavoro, ci ricorda un para-dosso solo apparente: i lavoratori a

tempo parziale dedicano ancora meno tempo al lavoro di cura e casa-lingo di quanto non facciano i lavo-ratori a tempo pieno; ancora una volta il contrario di quanto avviene per le lavoratrici. Quindi, conside-rando sia le ore di lavoro retribuite, sia quelle non retribuite, emerge con evidenza che le donne occupate a tempo parziale lavorano più ore ri-spetto agli uomini occupati a tempo pieno. Se le donne in genere scelgo-no il tempo parziale per dedicare più tempo alla famiglia e al lavoro di cura, gli uomini che optano per que-sta tipologia lavorativa dedicano persino meno tempo al lavoro non retribuito di quanto non facciano gli uomini occupati a tempo pieno. Si può anche dire così: il tempo dedi-cato al lavoro di cura e alla famiglia è invariato tra i lavoratori, siano essi a tempo pieno o a tempo parziale, a riprova che la loro scelta di

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