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Geografia del silenzio

Nel documento Dentro la maschera (pagine 56-58)

Nel surreale epilogo del Lupo della steppa, sullo sfondo del mirabile ultimo atto del

Don Giovanni, mentre Leporello è già in

ginocchio nell’atmosfera bella e terribile tesa a preannunciare la comparsa del convitato di pietra, Hermann Hesse, con un inaspettato colpo di teatro, fa apparire una beffarda figura di Mozart che, ac- ceso un apparecchio radio da lui stesso costruito, si rivolge provocatoriamente ad Harry e lo incalza: “Ascolti la forma lontana della musica divina che passa dietro il velo disperatamente idiota di questo ridicolo apparecchio…” e ancora, ascolti “come la radio priva questa musica della sua bellez-

za sensibile, la sciupa, la graffia, la scatarra e tuttavia non può sopprimerne lo spirito”. E Harry, “Oltre quello scatarrare e grac- chiare riconosce veramente, come si riconosce dietro una crosta di sudiciume un antico quadro prezioso, la nobile strut- tura di quella musica divina” intravedendo l’inarrestabile conflitto fra “tempo ed eterni- tà”, quale inevitabile destino dell’umanità. Un inarrestabile conflitto nel vortice del quale, all’impietoso scorrere del tempo, gli uomini cercano di contrapporre una epifania di gesti e di segni che, impressa nell’immagine delle cose, si fa testimo- nianza di una sacralità terrena prossima

ad un ordine superiore, del quale ambi- sce ad essere il più limpido riflesso. Ma questa epifania dell’infinito, così mirabilmente lasciata intravedere dai frammenti letterari di Rainer Maria Rilke ed Hermann Hesse, da sempre distesa a rischiarare il cammino dell’uomo, pare oggi travolta dalle lacerazioni, sempre più stridenti, di un paesaggio contemporaneo che a stento contiene le sue avvelenate contraddizioni e al contempo occulta le tracce del passato dal quale procede. In un panorama incerto che bordeggia sul liminare di una dissoluzione senza ritorno, la sequenza di disegni e fotografie propo- 1

sta nell’occasione dell’esposizione presso la Galleria dell’architettura italiana, Chiara- monte e Zermani sembrano ripercorrere una sorta di taccuino di viaggio del corpo e dell’anima, attraverso quelle stesse lacera- zioni che solcano le distanze del paesaggio occidentale, alla ricerca di “ciò che del

paesaggio è pronto a salvarsi”.1

Talvolta percorrono “strade romane che sono avvenimenti della ragione, nascono dalla ragione, nascono dall’astrazione, dal possesso dell’idea di linea retta… pensate come linee rette lunghe una regione intera, come l’Emilia”, talvolta si avventurano in “luoghi intensamente silenziosi, favolosi, ignari delle dure con-

solazioni della geometria”.2

Il Mediterraneo, vissuto come “un im-

menso archivio e un profondo sepolcro”3

nell’ambito del quale ciò che domina in ogni alterazione sembra essere la persistenza della materia antica, fa da sfondo a questo “andare e venire in un

movimento senza posa e senza fine”4

durante il quale i viaggiatori rinviengono una processione di tracce e di misure provenienti da luoghi e da tempi lontani tra di loro e la fa emergere dal tumultuoso fondale della contemporaneità, utilizzato quale efficace mezzo di contrasto. Chiaramonte e Zermani pazientemente indugiano nel rileggere in trasparenza, secondo una sequenza sempre diversa, i materiali rinvenuti nel corso del loro itinerario e imbastiscono con lentezza un nuovo sistema di misurazione, ancora una volta provvisorio, inevitabilmente suscettibile di continue modificazioni, ma sufficientemente solido e stabile nella sua coriacea essenza.

In questo incessante lavorio, se per Chia- ramonte la luce è mezzo privilegiato per incidere la consistenza scabrosa della materia sulla superficie levigata di una lastra fotografica e per fissare la mutevo- lezza del reale e l’insondabilità dell’essere

nella staticità del fotogramma, per Zerma- ni la gravità di quella stessa materia si fa presenza diafana nel tratteggio monocro- mo dei disegni e cattura con precisione l’immaterialità della luce medesima, che tutto avvolge in una straniante sospensio- ne volta a relegare l’assordante svolgersi del presente “al rango di rumore di fondo, ma che nello stesso tempo di questo ru-

more di fondo non può fare a meno”.5

Ad ogni sosta che i due protagonisti ci propongono, con ostinazione si speri- menta il rapporto fra la complessità infi- nita del reale e il bisogno insopprimibile dell’uomo di definire, determinare o rac- chiudere lo spazio illimitato, costituendo un insieme, un tutto armonico, un quadro conchiuso, che rappresenti e al contem- po contenga la vertigine dell’illimitato. Di volta in volta, nella dimensione finita della scena inquadrata, disegno o fotogramma, i due viaggiatori incidono una possibilità del reale avvolto nell’attesa della speranza.

Nella incalzante dissoluzione del paesag- gio contemporaneo, riflesso di uno smar- rimento interiore che sembra preludere ad un oramai prossimo inverno dello spi- rito, entrambi sono concentrati nel “cer- care quel particolare luogo e tempo in cui tutte le cose si toccano, sono in contatto,

sanno l’una dell’altra”6 per farci scoprire,

in fondo, che quel luogo è ovunque, e che in ogni istante è contenuto l’infinito. Sospesa in un silenzio che è promessa di redenzione, la misura sacra cercata da Chiaramonte e Zermani ci indica una nuova condizione possibile, nella quale la distensione lineare del tempo si annulla e annuncia un ordine ancora praticabile, per tentare di dare un senso compiuto al paesaggio occidentale.

Una nuova dimensione del classico si annuncia.

Una dimensione vocata a ricomporre i frammenti di una sorta di geografia del silenzio, che contiene la medesima fre-

mente attesa avvertita da Heidegger a Olimpia di fronte alla visione del combat- timento fra Pelope ed Eanomao raffigu- rato nello spazio limitato del frontone del tempio di Zeus dove, secondo l’autore, più che in ogni altra opera, “il silenzio, con tanta semplicità, è rappresentato come

spazialità dello spazio dell’esserci.”7

Fabio Capanni

1 Paolo Zermani, Identità dell’architettura parte

seconda, Officina, Roma, 2002.

2 Giorgio Manganelli, La cattedrale parla in La favo-

la pitagorica, Adelphi, Milano 2005.

3 Predrag Matvejevi, Mediterraneo, un nuovo bre-

viario, Garzanti, 1991.

4 Giovanni Chiaramonte, Il paesaggio consola l’esi-

lio in Identità dell’architettura italiana 6 (Catalogo

del 6° Convegno “Identità dell’architettura italiana” svoltosi presso l’Università di Firenze il 13-14-15 Novembre 2008).

5 Italo Calvino, Perché leggere i classici, Monda-

dori, Milano, 1995.

6 Orhan Pamuk, Autore implicito (Discorso tenu-

to alla University of Oklahoma il 21 aprile 2006 nell’ambito della Puterbaugh Conference) in La

valigia di mio padre, Einaudi, Torino, 2007.

7 Martin Heidegger, Soggiorni, Guanda, Parma 1997.

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Giovanni Chiaramonte - Paolo Zermani Misura sacra

Galleria dell’architettura italiana Firenze 8-28 maggio 2009

foto dell’allestimento mostra Duccio Ardovini 3

Nel documento Dentro la maschera (pagine 56-58)