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pp. 49, € 32,

37 carte di tavole in bianco e nero, Abscondita, Milano 2016

D

a Jean Genet a René Char, da Yves Bonnefoy a John Berger, quasi non si contano co- loro che hanno scritto su Alberto Giacometti. Altrettanto lungo e prestigioso è l’elenco dei fotografi cha hanno ritratto l’artista, le sue opere, gli atelier: Henry

Cartier-Bresson, Ugo Mulas, Robert Doi- sneau, Irving Penn… Nessuno tra i nomi ci- tati ha usato il mezzo della parola “e” quello fotografico per parlare di Giacometti: neppu- re John Berger, il più visuale tra gli scrittori o il più letterario tra gli artisti, che in My

beautiful quasi supplica il lettore di guardare le fotografie di Marc Trivier “prima” di leggere le sue parole a commento delle sculture di Giacometti: “La prima cosa da fare è osservare le foto. Smettete di leggere. Per favore, guardatele di nuovo”. Fa eccezione in que- sto Giorgio Soavi, che per oltre quarant’anni ha scritto sull’artista grigionese e a più riprese lo ha fotografato nell’atelier di Parigi e in quello della casa di famiglia di Stampa. L’editore Abscondita pubblica ora un album con una selezione di quei testi, seguita dalle immagini colte in cinque di- stinti set durante gli ultimi anni di vita dello scultore e pittore.

C

on le parole e con gli scatti,

Soavi, scrittore sedotto dal visuale, si interroga sulla rela- zione tra fotografia e immagini non tecniche, scultura e pittu- ra; dell’essenza di queste ultime Giacometti appare come la più radicale incarnazione, nell’indis- solubile intreccio di creazione e distruzione, vita e morte che so- stanzia il suo fare: “Se vivesse solo in un’isola, avrebbe un quadro e una scultura. Cioè una testa di- pinta e una testa scolpita. Il resto sarebbe stato graffiato cancellato e rifatto su quei due esemplari”. Il Giacometti di Soavi è ossessiona- to, come Mallarmé, dal sogno no- vecentesco dell’Opera, all’interno del quale la fotografia, mezzo di conservazione delle apparenze, entra come potenza antagonisti- ca, ma intaccata in fondo da un vizio d’irrealtà. Abbiamo le paro- le stesse di Giacometti di fronte alle stampe degli scatti di Soavi: “Ho visto delle cose incredibi- li – ride – delle cose incredibili nelle tue fotografie. Me le regali? Tutte quelle espressioni delle te- ste, mentre sto lavorando, anche quelle: non ci sono più. Distrutte (…). Adesso chiamo Annette e le dico che tu hai fatto delle fotogra- fie a delle cose che non esistono. Non scherzo, sai. Sono disperato.

Un mese di lavoro. Tutto distrut- to. Ma come è possibile? Guarda qui, e qui e quest’altra. Stavo la- vorando, siamo andati a dormire, poi ho ricominciato. Non c’è più niente. Non c’è mai stato niente”.

L’arte di Giacometti è per Soavi ascesi filosofica, se philosopher c’est apprendre à mourir. Il segno che la contraddistingue è quello del silenzio: silenzio dell’opera dopo la sua distruzione; silenzio dell’ar- tefice e del suo modello durante

la realizzazione. Come tanti fotografi prima e dopo di lui, Soavi si arrampica sul soppal- co del minuscolo stu- dio di rue Maindron per riprendere l’artista all’opera (per l’occa- sione, forse non a caso, il modello è un foto- grafo, Éli Lotar, com- pagno di Germaine Krull divenuto celebre per la serie dell’Abattoir apparsa sui Documents di Georges Batail- le). Nel silenzio in cui l’atelier è sprofondato, il clic della macchi- na equivale a “una scarica di mis- sili crepitanti del deserto”; l’unica soluzione è assimilarsi alle altre due presenze, metamorfosarsi anch’egli in “automa”. Soluzione beckettiana (“alludiamo alla mi- mica di un dialogo beckettiano tra persone quasi sepolte”, commenta lo scrittore-fotografo, evocando le collaborazioni di Giacometti per le scene di Godot e dell’Ultimo nastro di Krapp): quel Beckett nel quale Soavi scorge lo stesso “tipo di povertà e di libertà” lungamen- te ammirato in Giacometti; ma è anche la soluzione individuata da Henry Cartier-Bresson, un foto- grafo nelle cui immagini il conflit- to tra creazione e distruzione, vita e morte, rumore e silenzio, appare a Soavi conciliato.

Di Cartier-Bresson è evocata l’arte della dissimulazione messa in atto durante una cena in un ristorante romano, mentre appro- fitta dei rumori del locale (scoppi di risa, ordini di cucina, posate sbattute contro i piatti) per ma- scherare il clic che avrebbe potuto tradire la presenza della sua Leica (peraltro integralmente foderata di nastro adesivo nero opaco, per scongiurare il rischio di riflessi tra- ditori): “Come se non fosse mai esistito, neutro fino alla paralisi del proprio mestiere”, anch’egli un “automa”. Così, dal soppalco, Soavi stesso sperimenta – come farà il Palomar di Calvino – quan- to sia difficile “imparare ad essere morto” (più filologicamente per- tinente sarebbe il riferimento ad Acéphale di Bataille): “Credevo di avere mal di testa per la paura di sbagliare. La verità è che non ave- vo più la testa perché ero diventato come loro. Non esistevo più. Mi ero staccato da me. Guardando le mani di Giacometti lavorare fre- neticamente a quel busto di Lotar capivo di poter muovere anch’io le dita e scattai due fotografie che

esplosero come due spari nella notte. Nessuno si sorprese perché i due combattenti non si senti- vano più e continuavano la lotta senza vedermi. Avevano troppo da fare a esser morti”.

L’accostamento a Cartier-Bres- son ritorna, ma con segno con- trario, negli scritti su Giacometti di Yves Bonnefoy. Il poeta e sag- gista francese interpreta l’amicizia tra i due come una “comunità di sguardi” (Giacometti et Cartier- Bresson, in Henri Cartier-Bresson, Alberto Giacometti - . Une com- munauté de regards, édité par To- bia Bezzola, Scalo, 2005), dove lo sguardo è identificato come il luogo (l’unico possibile, in effetti, nel nostro tempo) in cui una pre- senza può affiorare al di sotto delle apparenze: Giacometti è per Bon- nefoy (come Cartier-Bresson, del resto, sebbene secondo modalità differenti) l’“icona” di una “ricerca spirituale”. Per Soavi, al contrario, le teste di Giacometti costitui- scono un radicale esperimento di cancellazione dello sguardo: la sua vicenda è la storia dell’uomo “che ogni giorno perde tutto il necessa- rio per stare al mondo”.

Prima di Bonnefoy, Soavi aveva commentato una celebre foto- grafia di Cartier-Bresson, quella in cui si vede Giacometti men- tre attraversa rue d’Alésia battuta dalla pioggia e, in mancanza di un ombrello, si ripara tirandosi l’impermeabile fin sopra la testa. Bonnefoy coglie in quest’homme qui marche, e in quella testa che sbuca dall’oscurità, un omag- gio alla poetica di Giacometti (e fors’anche un’allusione alla posa del fotografo col capo velato die- tro al treppiede); in mezzo a tutta quell’acqua “lo sguardo di Gia- cometti si è tuffato per riportare in superficie la presenza che stava affogando; respira ancora, ma non si sa se sarà possibile salvarla”. Per Soavi, al contrario, nel paesaggio subacqueo di rue d’Alésia, Giaco- metti “si bagna ricordando di esse- re affogato più volte per fatalità”.

marco.maggi@usi.ch

M. Maggi insegna letteratura e arti all’Università della Svizzera italiana

Fotografia

N. 4 27

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