alla metà del Seicento
4. Giambattista Magnante e gli oratoriani: reti di relazioni tra centro e periferia
4.1 Francesco Barberini
L’analisi dei rapporti tra Oratorio aquilano e «Corte romana» nel secondo Seicento appare un nodo importante per comprendere le dinamiche che intervennero al suo interno e le reti di relazioni e attività che si svilupparono al di fuori. Un campo di osservazione privilegiato può essere considerato in tal senso quello del filippino Giambattista Magnante che, oltre a essere a lungo preposito dell’Oratorio, ebbe un ruolo di primo piano in Congregazione fino alla fine degli anni sessanta del XVII secolo.
Durante le missioni svolte fuori dell’Abruzzo, il Magnante ebbe modo di stringere una discreta familiarità con i cardinali Conti, Gabrielli, Bichi e Facchinetti, che lo sollecitarono a predicare e svolgere mansioni nelle diocesi di cui erano titolari (Ancona, Rieti, Osimo e Spoleto)1. Oltre all’amicizia con Cibo, Petrucci e Ricci – di cui si è trattato nei capitoli precedenti – il Magnante era poi legato a esponenti di curia, tra cui i cardinali Harrach, Vecchiarelli, Mancini e Rospigliosi; quest’ultimo, prima di divenire pontefice con il nome di Clemente IX, scriveva al vescovo dell’Aquila una lettera, auspicando che l’oratoriano facesse ritorno ad Ascoli:
Con particolare instanza vengo richiesto, a pregar Vostra Signoria d’interporre l’autorità sua, perché il Padre Gio: Battista Magnanti dell’Oratorio di S. Filippo si trasferisca in Ascoli, dove sento, che venga sommamente desiderato da quella città per il fervore, e carità grande, con che è solito impiegarsi in benefitio dell’Anime. Con la notitia, che tengo della pietà di Vostra Signoria, mi persuado superfluo qualunque motivo, che se le porga, di promuovere il culto, e servitio del Signor Iddio; ad ogni modo non lascio di assicurarla del singolare riconoscimento, che sarò per conservare l’innata gentilezza sua per tutto ciò, che si compiacerà di operare, in ordine dell’intento sudetto. Rinovo a Vostra Signoria giuntamente un’affettuosa espressione della mia prontezza a servirla sempre, e le auguro dal Signor Iddio felicità continue2.
1 G. Marciano, Memorie historiche della Congregatione dell’Oratorio, cit., vol. 3, pp. 413-415, 421, 434-441.
2
T. Baldassini, Vita del Servo di Dio Gio: Battista Magnanti della Congregatione dell’Oratorio dell’Aquila, cit., pp. 47, 53, 211, 310, 343, 349.
140
Giulio Rospigliosi – un po’ come Cesare Facchinetti – aveva avuto modo da giovane di frequentare l’erudito circolo dei Barberini3 che, con il loro mecenatismo familiare e i rapporti di clientela, protezione e amicizia, avevano segnato l’ambiente romano della prima metà del Seicento4. In seguito all’elevazione di Maffeo Barberini al soglio di Pietro con il nome di Urbano VIII, ma anche alla nomina cardinalizia del fratello Antonio e dei nipoti Francesco e Antonio juniore, intorno alla famiglia pontificia si era venuto a determinare un vivace milieu culturale, che fece di Roma un vero e proprio «laboratorio politico»5.
Protagonista di una carriera diplomatica volta a proteggere e consolidare gli interessi familiari, secondo un orientamento politico filo-francese, il «cardinal nepote» Francesco Barberini era un personaggio di elevata cultura, educato agli studi letterari e filosofici, e, oltre a ricoprire nel 1627 l’incarico di bibliotecario della Vaticana, fu autore di diverse elegie, odi ed epigrammi6. Intorno alla metà del secolo, egli si ritrovava a fronteggiare il mutamento delle fortune della famiglia, in seguito alla morte di Urbano VIII, agli esiti della disastrosa Guerra di Castro, e alle inchieste
3
L. Von Pastor, Storia dei papi dalla fine del Medio Evo, cit., vol. XIV, 1, p. 545; E. Bellini, Stili di pensiero
nel Seicento italiano. Galileo, i Lincei, i Barberini, Pisa, Edizioni ETS, 2009, p. VIII.
4 M. Voelkel, Facchinetti, Cesare, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Società Grafica Romana, 1994, vol. 44, pp. 31-33, I. Fosi, Fabio Chigi e la corte dei Barberini: appunti per una biografia, in M. G. Del Fuoco (a cura di), Ubi neque aerugo neque tinea demolitur. Studi in onore di Luigi Pellegrini per i suoi
settant’anni, Napoli, 2006, p. 301. 5
I. Fosi, Fabio Chigi e la corte dei Barberini: appunti per una biografia, cit., p. 301; G. Lutz, Urbano VIII, in
Enciclopedia dei Papi, cit., vol. 3, pp. 298-321; I. Fosi, All’ombra dei Barberini. Fedeltà e servizio nella Roma Barocca, Roma, Bulzoni, 1997, pp. 9-16.
6 A. Merola, Barberini, Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1964, vol. 6, pp. 172-176; M. Costanzo, Critica e poetica del primo Seicento. Maffeo e Francesco
Barberini, Cesarini, Pallavicino, Roma, Bulzoni, 1970, pp. 101-124; F. Rurale, «Modo suggerito al signor cardinale Barberino per aver huomini dotti da valersene per rispondere alle scritture et alle stampe che ogni giorno si divulgano contro i dogmi della fede e contro l’autorità del pontefice». Note a margine, in
«Cheiron», 1997, XIV, pp. 235-254; B. Emich, Kardinal Francesco Barberini. Ein Papstneffe zwischen
Kunst und Politik, in L. M. Onori, S. Schütze, F. Solinas, I Barberini e la cultura europea del Seicento: atti del Convegno internazionale. Palazzo Barberini alle Quattro Fontane, 7-11 dicembre 2004, Roma, De
Luca, 2007, pp. 111-116; F. Solinas, Lo stile Barberini, in L. M. Onori, S. Schütze, F. Solinas, I Barberini e la
cultura europea del Seicento, cit., pp. 205-212. Un’interessante lettura del ruolo e delle molteplici
iniziative di Francesco Barberini quale «very model of a ‘modern’ cardinal-padrone», nella duplice veste di «cardinal and papal nephew», è in P. Rietbergen, Power and religion in Baroque Rome. Barberini
cultural policies, Leiden-Boston, Brill, 2006, pp. 143-180. Sui rapporti tra Barberini e Francia, cfr. S.
Bruno, I Barberini e il loro entourage in Francia, in L. M. Onori, S. Schütze, F. Solinas, I Barberini e la
cultura europea del Seicento, cit., pp. 317-330; C. Pieyre, La legation du cardinal Francesco Barberini en France en 1625, insuccès de la diplomatie du pape Urbain VIII, in L. M. Onori, S. Schütze, F. Solinas, I Barberini e la cultura europea del Seicento, cit., pp. 87-91. Si vedano infine le seguenti voci: A. Merola, Barberini, Taddeo, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 6, cit., pp. 180-182; A. Merola, Barberini, Antonio, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 6, cit., pp. 165-166.
141
sull’accresciuto patrimonio dei Barberini, che comportarono nel 1646 la fuga insieme ai fratelli in Francia sotto la protezione del cardinale Mazzarino7.
Giambattista Magnante aveva avuto modo di avvicinare gli ambienti di corte legati ai Barberini, con ogni probabilità a Roma tra la fine degli anni quaranta e l’inizio degli anni cinquanta del XVII secolo, con risvolti duraturi. In questo clima e contesto, il Magnante si inseriva nella cerchia dei religiosi di fiducia di Francesco Barberini, il quale sceglieva di avvalersi in questioni di vario genere della collaborazione dell’oratoriano, che iniziava a gravitare nell’orbita dell’ancora potente corte barberiniana.
Un esempio di negozio, in cui si verificò il coinvolgimento del Magnante, fu quello relativo al governo dell’abbazia di S. Salvatore Maggiore a Concerviano8, non lontana da Rieti, dipendente giuridicamente da quella di Farfa, di cui il Barberini era dal 1627 commendatario9. Il 21 ottobre 1659 Giovan Carlo Valentini, vescovo di Cittaducale, dopo avere effettuato una visita in territorio farfense, denunciava in una lettera al Barberini la cattiva gestione di S. Salvatore da parte del padre Angelo 10. La «negligenza e poca provisione» del superiore dell’abbazia erano divenute tali, che il vescovo e il cardinale, di comune accordo, ritennero opportuno rivolgersi a un sacerdote di comprovata esperienza quale Giambattista Magnante, affinché individuasse una persona idonea da inviare a S. Salvatore per l’amministrazione
7 J. M. Mej a, C. M. Grafinger, B. Jatta, I cardinali bibliotecari di Santa Romana Chiesa: la quadreria nella
Biblioteca apostolica Vaticana, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 2006, p. 168. 8
Sull’abbazia di S. Salvatore Maggiore, cfr. G. Chisari, C. De Paolis, L’abbazia di S. Salvatore Maggiore, in «Lunario Romano», 1988, XVII, pp. 111-126; M. D’Agostino, M. G. Fiore, Il monastero imperiale di S.
Salvatore Maggiore: nuove problematiche e prospettive di ricerca, in «Il Territorio», 1987, III, pp. 3-30; D.
Fiorani, G. Palmerio, A. Riccini, San Salvatore Maggiore sul monte Letenano a Concerviano. Restauro
dell’abbazia imperiale, Roma, Gangemi, 2011; T. Leggio, Le origini dell’abbazia di Farfa: ulteriori riflessioni, in R. Dondarini (a cura di), Farfa: abbazia imperiale: atti del Convegno internazionale, Farfa - S. Vittoria in Matenano, 25-29 agosto 2003, Negarine di S. Pietro in Cariano, Il Segno dei Gabrielli, 2006,
pp. 59-60.
9 Francesco Barberini era divenuto commendatario dell’abbazia di Farfa per volontà di suo zio, il pontefice Urbano VIII; nel 1666 gli successe il fratello Carlo, che cominciò a godere del beneficio nel 1682, e rinunciò a sua volta all’abbazia in favore del nipote Francesco juniore nel 1704. Cfr. G. Moroni,
Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, cit., p. 188; Costituzioni, e tasse da osservarsi da gl'offiziali, e ministri del Tribunale ecclesiastico dell'insigni abbazie di S. Maria di Farfa, e di S. Salvatore maggiore, stabilite, e publicate dall'Eminentissimo, e Reverendissimo Signore Cardinale Carlo Barberini abbate perpetuo commendatario, et ordinario. In Roma. Nella stamperia Barberina. per Domenico Antonio
Ercole, 1688. 10
Gli scambi epistolari tra il vescovo di Cittaducale, il cardinale Barberini e Giambattista Magnante, relativi alla problematica di S. Salvatore Maggiore, sono custoditi in BAV, Barb. Lat. 7580, cc. 141r-159v; cfr. Ivi, Lettera di Giovan Carlo Valentini a Francesco Barberini, Rieti 21 ottobre 1659, cc. 145r-147v; si vedano anche le lettere del suo predecessore Sallustio Cherubini al Barberini, scritte da Cittaducale, e datate rispettivamente 31 marzo 1656 e 24 Giugno 1657.
142
dell’abbazia, insieme a un sacerdote «habile a poter insegnare»11. Il 7 novembre, così, il Magnante poteva informare il vescovo della sua risoluzione di inviare un sacerdote a S. Salvatore, che intervenisse negli affari di carattere temporale relativi al governo badiale, insieme ad altri due ecclesiastici che lo coadiuvassero sul piano spirituale, auspicando che i monaci, con l’aiuto inviato, «staranno più quieti, e che saranno provisti del necessario a tempo»12. Il 25 novembre, così, il Valentini poteva rallegrarsi con il Barberini dell’arrivo a S. Salvatore del «soggetto buono di governo e di talenti» designato dal Magnante, e di avere trovato una soluzione al problema che si era determinato nel monastero, «in poco buon stato» e nell’assenza di «persone habili»13.
In quegli stessi anni, i Barberini, principi di Palestrina, manifestavano crescenti interessi nel Regno di Napoli, che li avrebbero indotti ad acquistare i beni feudali situati in Abruzzo appartenenti ai principi di Gallicano e duchi di Zagarolo, la cui discendenza si era estinta con la morte di Pompeo Colonna (†1661)14. I beni dei Colonna di Zagarolo, devoluti in un primo momento alla Regia Corte, vennero rilevati dai Barberini al prezzo di 600.000 ducati, con il consenso del sovrano Filippo IV15; oltre al sontuoso palazzo aquilano – da cui potevano controllare i propri possedimenti, noto
11 Il vescovo di Cittaducale scriveva al Barberini: «Onde sarei di parere scrivere al Padre Magnante che, quando havesse Persone unite da continuare nel servitio e che uno di loro fusse bono al Governo, sarebbe gran favore farli capitare; quando di no, che al meno vogli mandare il Sacerdote che Vostra Eminenza gl’incaricò, e vi desidera habile a poter insegnare». Cfr. Ivi, Lettera di Giovan Carlo Valentini a
Francesco Barberini, Rieti 21 ottobre 1659, cc. 145r-147v. Considerata l’importanza della questione, il
Valentini avrebbe fatto recapitare la lettera al Magnante personalmente dal suo vicario; cfr. Ivi, Lettera
di Giovan Carlo Valentini a Francesco Barberini, Rieti 11 novembre1659, c. 151r-v. 12
Ivi, Lettera di Giambattista Magnante a Giovan Carlo Valentini, L’Aquila, 7 novembre 1659, c. 149r-v. Il vescovo di Cittaducale avrebbe trasmesso al Barberini la risposta del Magnante subito dopo averla ricevuta. «Invio a Vostra Eminenza la risposta del Padre Magnante, e dalla data di essa vedrà che lui ha risposto subito, ma la tardanza è venuta da chi l’ha ricapitata. Domani vedrò sapere se sia arrivato a S. Salvatore il Sacerdote che lui avvisa mentre, stando intanto attendendo dall’Eminenza Vostra l’honore de’ continuati comandi, resto facendole humilissima riverenza». Ivi, Lettera di Giovan Carlo Valentini a
Francesco Barberini, Rieti 19 novembre 1659, c. 153r. 13
Ivi, Lettera di Giovan Carlo Valentini a Francesco Barberini, Rieti 25 novembre 1659, c. 155r; quattro giorni più tardi, il vescovo di Cittaducale scriveva al Barberini: «Ho anco ringratiato il Padre Magnante […] Invio a Vostra Eminenza l’aggiornata nota mandatami l’altro giorno dalla quale vedrà anco il nome del sacerdote ultimamente inviatomi dal sudetto Padre Magnante». Ivi, Lettera di Giovan Carlo
Valentini a Francesco Barberini, Rieti 25 novembre 1659, c. 157r. Per la nota indicata dal Valentini, cfr.
Ivi, Nota di quelli che al presente si ritrovano al servitio del Monastero di S. Salvator Maggiore, c. 159r. 14
Intorno alla metà del XVII secolo, il ramo dei Colonna di Zagarolo, principi di Gallicano, era proprietario di numerosi feudi nell’Abruzzo montano, oltre che della contea di Sarno; esso era collegato in linea di parentela con l’altro ramo colonnese, quello dei principi di Paliano, che nel Regno di Napoli detenevano invece il ducato di Tagliacozzo, la contea di Manoppello e il principato di Stigliano. Cfr. F. Calabrese, I Colonna nel Regno: politica e cultura nel Rinascimento meridionale, Milano, Nuovi Autori, 1995; V. Celletti, I Colonna: principi di Paliano, Milano, Ceschina, 1960; F. Petrucci, Pompeo Colonna, in
Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 27, Roma, Società Grafica Romana, 1982, pp. 414-417 15
P. Giannone, Opere postume di Pietro Giannone, Milano, Società Tipografica de’ Classici Italiani, 1824, vol. 3, p. 266.
143
come Palazzo Pica-Alfieri – essi comprendevano numerosi feudi nel versante amiternino e forconese del contado, nel Cicolano, nell’altopiano delle Rocche e nella Valle Subequana16.
Il cardinale Francesco Barberini si trovava così a intervenire in prima persona nelle questioni di carattere religioso che interessavano i feudi abruzzesi della propria famiglia e, in questo senso, si può rileggere la ricognizione da lui effettuata circa lo stato del convento di S. Chiara a Gagliano Aterno17. Nel feudo barberiniano di Gagliano, divenuto dominio del nipote Maffeo, principe di Palestrina, si trovava un convento di religiose francescane sotto la regola urbaniana intitolato a S. Chiara, le quali avevano manifestato «novij bisogni d’accomodar il Choro, riuscendo loro humido, et altre cose». Il 28 luglio del 1663, così, il Barberini informava il vescovo di Sulmona-Valva, Gregorio Carducci, del suo proposito di ricorrere al Magnante «acciò, nell’udir le monache, prenda esatta informatione dello stato del Monistero et delle loro occorrenze, per poter procurar quello, che si possa per aiuto delle medesime»18. A quel punto, il vescovo sulmontino informava il 25 settembre il cardinale di avere eseguito il comando, concedendo al Magnante, «soggetto senza eccettione», ogni facoltà per adempiere agli incarichi stabiliti, avendo a cuore il bene del monastero e desiderando «ridurlo in miglior stato»19.
Una volta giunto a Gagliano Aterno, il Magnante si adoperò a praticare gli esercizi spirituali e insegnare l’orazione mentale alle monache – ritenute «per nascita le migliori del luogo medesimo e de’ circonvicini» –avvalendosi di alcuni libretti appositamente portati con sé, e iniziò a stilare una descrizione dettagliata sullo stato in cui si trovava il convento, da fare recapitare al Barberini20. Nella relazione, il Magnante descriveva come l’edificio, situato «fur dell’habitato di detta Terra ma quasi contiguo alla medesma», e dotato di antichissimi privilegi da parte dei pontefici, versasse in uno
16
ASAq., Notarile, Marco Antonio Petruccio Celio, b. 930, vol. 1, scheda 310, 14 febbraio-6 maggio 1664, cc. 1r-90v. Nell’arco di quelle date, si registrano le assecuratio vaxallorum pro Illustrissimi Principe
Prenestinorum da parte delle università – recentemente rilevate da Maffeo Barberini – di Rocca di
Mezzo, Rocca di Cambio, Fontavignone, Gagliano Aterno, Castelvecchio Subequo, Castel di Ieri, Goriano Sicoli, Secinaro, Pacentro, S. Eusanio, Casentino, Fossa, Monticchio, Bazzano, Villa S. Angelo, Tussillo, Stiffe e Sassa. Cfr. R. Colapietra, Antinoriana. L’Aquila dell’Antinori. Strutture sociali ed urbane della città
nel Sei e Settecento. Il Seicento, vol. 2, L’Aquila, Edizioni Libreria Colacchi, 2002, p. 135. 17
Cf, pp. 21-22, 115-116; L. Bartolini Salimbeni, Gli insediamenti delle Clarisse in Italia nel XIII secolo:
qualche osservazione sulla ricerca in atto, Città di Castello, Petruzzi, 1995, pp. 109-117; B. Roest, Order and Disorder: the Poor Clares between Foundation and Reform, Boston, Brill, 2013, p. 82.
18
BAV, Barb. Lat. 9896, Lettera di Francesco Barberini a Gregorio Carducci, Roma, 28 luglio 1663, c. 112. 19 BAV, Barb. Lat. 7599, Lettera di Gregorio Carducci a Francesco Barberini, Sulmona 25 Settembre 1663, c. 80r.
20
Ivi, Lettera di Gregorio Carducci a Francesco Barberini, Sulmona 30 novembre 1663, c. 81r-v; Lettera di
144
stato di degrado per effetto dell’umidità, dovuta alla caduta di acqua dai monti vicini. Il convento era inoltre sprovvisto di un refettorio e, infine, aveva un granaio di accesso scomodo21, per cui il Magnante si proponeva di individuare una serie di possibili rimedi:
I bisogni spettanti alla fabrica sarebbero principalmente il rimediare all’humidità della Chiesa e del Choro, il che con Maggior spesa sarebbe di fare una nova Chiesa, e di ridur la vecchia in granaro, di cui tien il Monastero Necessità, oppure alzare nell’istessa vecchia una volta, per cavar di sotto il terreno; fabricare un refettorio vicino alla cucina, del qual servitio mancano le Monache in tutto e, restando in piedi la Chiesa primiera, fabricar una scala al di fuori per poter entrare in una stanza sopra della portaria, dove hora si ripone il grano, senza che s’habbia sempre a tal effetto aprir la clausura22.
Il vescovo di Sulmona inviava quindi al Barberini una pianta della chiesa e del convento appositamente redatta e, riallacciandosi alle conclusioni del Magnante, prospettava un piano di interventi da effettuare nell’abbazia23. In tale ottica, suggeriva la prosecuzione della causa intrapresa contro un debitore delle monache, tale Giannetti, ricorrendo presso il «men dispendioso» tribunale del vescovo dei Marsi Antonio De Gasperis tramite il «Sig. Dr. Pica dell’Aquila, di molta authorità appresso il Vassallaggio del Sig. Principe», esperto nelle cause contro i secolari24. Il 2 agosto del 1664 il Barberini rispondeva al vescovo, ringraziandolo per l’invio di un canonico della cattedrale di Sulmona in qualità di direttore delle monache, impegnandosi a seguire la causa, e specificando di non desiderare altro, «se non che quelle Religiose mettessero esecutione hora i buoni ricordi lasciateli dal Padre Magnante e ne approfittassero»25. In quello stesso anno potevano avere inizio i lavori di restauro e rifacimento della chiesa e del convento, secondo un insieme di interventi che ne hanno contrassegnato l’aspetto fino ai nostri giorni e, tra le varie cose, portarono alla costruzione del parlatorio (1664), del refettorio (1666), dell’altare maggiore (1685) e all’apertura della finestra nella facciata della chiesa (1665)26.
21
Ivi, Relatione dello Stato del Monastero di S. Chiara di Gagliano, cc. 83r-84v; Lettera di Giambattista
Magnante a Francesco Barberini, L’Aquila, 27 novembre 1663, cc. 85r-87r. 22
Relatione dello Stato del Monastero di S. Chiara di Gagliano, cit., c. 85r. 23
Lettera di Gregorio Carducci a Francesco Barberini, Sulmona 8 luglio 1664, cit., cc. 87r-88r. 24 Lettera di Gregorio Carducci a Francesco Barberini, Sulmona 30 novembre 1663, cit., c. 81r-v. 25
BAV, Barb. Lat. 7599, Lettera di Francesco Barberini a Gregorio Carducci, Roma, 2 agosto 1664, c. 88v. 26
M. Bentivoglio, Il monastero di S. Chiara in Gagliano Aterno: l'analisi delle vicende costruttive per una
145
La missione del Magnante a Gagliano Aterno sembrerebbe suggerire l’impressione di come i legami tra religiosi abruzzesi e «Corte di Roma» potessero avere risvolti in ambito locale, nel Regno di Napoli, nei territori sottoposti a giurisdizione feudale di casate straniere – in particolare romane – legate agli ambienti di curia. Il tutto appare rilevante, considerando come l’acquisizione di nuovi feudi nel Regno avvenisse in un clima segnato da una crescente adesione dei Barberini agli interessi della corona madrilena, che trovava sbocco nella concessione della Grandeza di Spagna a Maffeo, da parte di Filippo IV, nell’aprile del 1663, e l’aggregazione del casato al seggio del Nido di Napoli, in quello stesso anno, con il patrocinio del viceré Peñaranda27.
Secondo quanto si evince nella biografia del Magnante, Francesco Barberini aveva «molta stima de’ suoi consigli, per la segnalata prudenza, che in lui scorgeva», tanto che, nel periodo in cui l’oratoriano era a Roma, gli conferì l’incarico di confessore straordinario presso un monastero caro alla sua famiglia, quale quello delle carmelitane dell’Incarnazione28. Situato nella zona di Monte Cavallo, presso il palazzo del Quirinale, il monastero dell’Incarnazione del Verbo Divino era stato fatto edificare da Urbano VIII per le nipoti suor Innocenza e suor Maria Grazia, figlie del fratello Carlo e Costanza Magalotti, sorelle dei cardinali Francesco e Antonio Barberini29. Il monastero nasceva come una filiazione del convento fiorentino di S. Maria degli Angeli, e assunse cadenze di tipo aristocratico, tenendo presente come, intorno al 1670, le monache – secondo quanto si evince dagli annali – fossero «tutte nobilissime signore romane, napoletane, genovesi, fiorentine e d’altre principali città d’Italia»30.
Francesco Barberini aveva comprato il sito per costruire il monastero e fatto realizzare il progetto della chiesa, edificata a sue spese, cui fu dato in seguito il titolo di S. Maria Maddalena de’ Pazzi31. Il coinvolgimento del Magnante nella confessione delle «Barberine», oltre che in un’ottica familiare, appare significativo in connessione ad