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Giovani generazioni e mercato occupazionale

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Ciascuna persona ha “il diritto di perseguire il cammino che ritiene più consono al suo disegno, […] coltivandosi e coltivando le proprie competenze in un virtuoso equilibrio di sapere, saper fare, saper essere”27. In questo senso l’attività lavorativa permette all’uomo di inserirsi nella società e di manifestare il proprio approccio culturale e valoriale. In altri termini “il lavoro diviene appieno creazione quando tende a realizzare valori culturali applicandoli alla vita; qualificandosi come momento di formazione della personalità e di inclusione di questa all’interno della tradizione culturale, esaltandone la capacità di lettura dei ‘beni culturali’”28. L’attività lavorativa “diventa pertanto educante se si riverbera sui processi formativi di personalizzazione, socializzazione e culturalizzazione”29 e non già nella sola competenza del produrre secondo schemi dati. Il recupero del valore culturale ed educativo del lavoro passa, pertanto, dalla necessità di rispettare l’esperienza umana nei suoi limiti e nella sua natura, di promuovere la libertà e l’autonomia della persona, di dare risalto ad una visione non strumentale, ma assiologica, delle finalità educative: questi sono i valori guida per una rilettura pedagogica dei contesti lavorativi. L’individuo “è fulcro dell’esistenza storica in quanto ‘educabile’ e, come tale, in grado di essere-divenire personalità, soggetto attivo e responsabile del proprio processo di crescita insieme alla comunità di cui è parte”30.

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produttivo, da misurato in termini di tempo quantitativo a valutabile in modo qualitativo31. L’accesso al lavoro mediante una forte adesione all’organizzazione lascia il posto a “percorsi dentro i quali i soggetti sono chiamati a lavorare senza un posto di lavoro”32, in una condizione di costante ricerca di nuove forme di intendere la professione che può talvolta “rivelarsi foriera di dispersione di talenti, di potenzialità, persino di diritti, ma al contempo, per paradosso, origine di nuovi progetti, di nuove competenze, di nuove organizzazioni”33. Lo sviluppo di professionalità in contesti lavorativi caratterizzati da accentuata complessità pone pertanto domande relative ai mutamenti delle appartenenze lavorative e delle identità professionali. Soprattutto per i giovani diventa complesso costruire una fruttuosa biografia personale pensando l’organizzazione in termini di stabilità e fedeltà34.

In Italia, un segmento rilevante di giovani si colloca al di fuori del mercato occupazionale andando a costituire le cosiddette “forze lavoro potenziali”. Si tratta dei giovani inattivi, coloro i quali si dichiarano disponibili a lavorare pur non avendo svolto una ricerca attiva di lavoro (oppure, pur essendosi attivati, si dichiarano non disponibili nell’immediato) e dei giovani disoccupati che risultano esclusi dalla possibilità di trovare un’occupazione. Il tasso di disoccupazione nel nostro Paese registra percentuali significative: una tra le costanti caratterizzanti gli anni della crisi è stata la forte riduzione dei livelli occupazionali dei giovani.

Nel periodo 2008-2014, il numero di occupati con meno di 35 anni è sceso di quasi 2 milioni. Secondo un’indagine Istat, nel 2015, la media percentuale degli occupati su un campione di giovani tra i 15 e i 34 anni, si attestava su una percentuale pari a circa il 39,2% di soggetti attivi contro una percentuale del 23,2% di giovani disoccupati e un tasso di mancata partecipazione che arrivava sino al 36,1%35. Anche dati più recenti mettono in luce come il generale calo del tasso di disoccupazione registrato nei paesi dell’Unione Europea si esprima in Italia con minore intensità soprattutto in riferimento alle fasce d’età giovanili

(15-31 Cfr. A. CHIONNA, Il lavoro, luogo di relazione fra le persone, in L. FABBRI - B. ROSSI (a cura di), Pratiche lavorative, pp. 91-93.

32 L. FABBRI - B. ROSSI (a cura di), Introduzione, in ID, Pratiche lavorative, pp. 11-12.

33 D. DATO, Pedagogia critica per il futuro del lavoro, in G. ALESSANDRINI (a cura di), Atlante di pedagogia del lavoro, pp. 255-256.

34 Cfr. L. FABBRI - B. ROSSI, Introduzione, in ID (a cura di), Pratiche lavorative, pp. 12.

35<http://www4.istat.it/it/giovani/lavoro>, ultima consultazione 22 Settembre 2019.

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24 anni). La conferma di tale trend giunge dal Rapporto annuale Istat 201836 secondo cui, sebbene il tasso di inoccupati sia diminuito in tutta Europa (mediamente di 1,0 punto percentuale con un aumento di occupati dello 0,9 % nella fascia 15-34 anni), la disoccupazione, dopo la lunga crisi, è ben lungi dall’essere riassorbita in alcuni Paesi dell’Ue. Tra questi: la Grecia (21,5%, +13,7 punti percentuali rispetto al 2008), la Spagna (17,2%, +5,9 punti rispetto al 2008), l’Italia e la Croazia (11,2%, con rispettivamente 4,5 e 2,6 punti in più rispetto al 2008). Il Rapporto segnala altresì che, nonostante in tempi recenti i Paesi sopracitati siano stati interessati da una significativa ripresa, l’Italia continua a rappresentare un’eccezione. Nel nostro Paese, infatti, la diminuzione del numero di disoccupati è in parte attribuibile ad una significativa diffusione dei lavori di natura atipica, che interessa soprattutto i residenti nelle regioni centro-settentrionali e i giovani fino a 34 anni. Nel complesso, circa sei lavoratori atipici su dieci hanno un contratto con una durata inferiore a 12 mesi e circa il 17% ha un contratto al massimo di un anno. Rispetto al tasso di mancata partecipazione, i risultati dell’indagine mettono in luce una rilevante riduzione dei giovani inattivi (20,5% nel 2017 contro il 21,6% nel 2016), tuttavia il divario tra l’Italia e la media dei Paesi Europei (12,4%) rimane considerevole. A tale proposito, l’indicatore di mancata partecipazione al lavoro riveste un ruolo centrale al fine di inquadrare correttamente le variabili che incidono sulla ricerca di un’occupazione da parte dei giovani. Se, infatti, i tassi relativi alla disoccupazione tengono conto di coloro i quali hanno svolto azioni di ricerca del lavoro nelle settimane antecedenti all’intervista, il tasso di mancata partecipazione include anche i soggetti che si dichiarano disponibili a lavorare, pur non avendo attivato di recente canali per la ricerca di un’occupazione. Al riguardo, una serie di fattori necessitano di essere tenuti in debita considerazione. Tra gli altri, si pensi agli effetti risultanti dallo

“scoraggiamento” che hanno portato ad avere in Italia, nel 2014, un numero di

“scoraggiati” che sfiorava l’1,6 milioni37.

A metà strada tra disoccupazione e inattività si collocano i Neet (Not in Education, Employment or Training), giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano

36 Cfr. ISTITUTO NAZIONALE DI STATISTICA, Rapporto annuale 2018. La situazione del Paese, Roma 2018, in <https://www.istat.it/storage/rapporto-annuale/2018/Rapportoannuale2018.pdf>, ultima consultazione 22 Settembre 2019.

37 Ibidem.

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e che non sono più inseriti in un percorso di studio. Il fenomeno dei Neet, che nel nostro Paese si attesta su percentuali significativamente più elevate rispetto alla media europea, mette in luce una serie di difficoltà strutturali e sistemiche a carico sia del sistema di istruzione e formazione, sia dei contesti lavorativi. Esso rappresenta un inaccettabile spreco di potenziale umano con rilevanti ripercussioni sia sul piano sociale che su quello economico: minori entrate fiscali, costi maggiori per prestazioni sociali, malessere sociale38. Secondo un'indagine Eurostat, nel 2017 i Neet in Italia erano circa il 25,7%, contro una media europea pari al 14,3%. Permangono marcate le differenze territoriali: il 16,7% al Nord, il 19,7% al Centro e il 34,4% nel Mezzogiorno. Nonostante il calo dell’ultimo triennio, questa condizione continua a essere più diffusa tra le donne e nelle regioni meridionali (55,4%). Una percentuale simile a quella italiana si registra a Cipro, dove i Neet sono il 22,7%, seguono poi Grecia (21,4%), Croazia (20,2%), Romania (19,3%) e Bulgaria (18,6%). Un tasso di Neet superiore al 15% è stato registrato anche in Spagna (17,1%), Francia (15,6%) e Slovacchia (15,3%). Al contrario, la percentuale di Neet si abbassa significativamente nei Paesi Bassi (5,3%), davanti a Slovenia (8%), Austria (8,1%), Lussemburgo e Svezia (entrambi a 8,2%), Repubblica Ceca (8,3 %), Malta (8,5%), Germania (8,6%) e Danimarca (9,2%)39. Le rilevazioni effettuate tramite l’ultimo Rapporto annuale Istat 201940 confermano, in linea generale, il quadro summenzionato, fatto salvo per un leggero incremento del numero di occupati nella fascia dei giovani tra i 15 e i 34 anni e un andamento meno sfavorevole per i Neet, le cui percentuali rimangono tuttavia ben lontane dall’aver recuperato i livelli pre-crisi.A fronte di tali dati risulta evidente come il fenomeno in oggetto necessiti di politiche attivanti e di dispositivi che incoraggino l’intraprendenza dei giovani rendendoli più preparati in vista dell’inserimento nel mercato del lavoro. I Neet rappresentano la categoria più a rischio di scivolare in una spirale negativa, ovvero di precipitare

38 Cfr. A. ROSINA, NEET. Giovani che non studiano e non lavorano, Vita e Pensiero, Milano 2015, p. 7.

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<https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php/Statistics_on_young_people_neither_in_employment_nor_in_education_or _training>, ultima consultazione 22 Settembre 2019.

40 Cfr. ISTITUTO NAZIONALE DI STATISTICA, Rapporto Annuale 2019. La situazione del Paese, Roma 2019, in <https://www.istat.it/storage/rapporto-annuale/2019/Rapportoannuale2019.pdf>, ultima consultazione 22 Settembre 2019. Si veda inoltre ISTITUTO NAZIONALE DI STATISTICA, Rapporto SDGs 2019. Informazioni statistiche per l’Agenda 2030 in Italia, Roma 2019, in

<https://www.istat.it/it/files/2019/04/SDGs_2019.pdf>, ultima consultazione 22 Settembre 2019.

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in una condizione di deprivazione non solo economica e occupazionale, ma anche esistenziale. La frustrazione personale determina diffidenza verso le istituzioni, insicurezza, disaffezione e perdita di fiducia in se stessi. A tale proposito, A. Rosina segnala alcune linee guida per contrastare il fenomeno: fare in modo che tutti concludano il percorso formativo; consentire l’acquisizione di competenze utili nella vita professionale; favorire una presenza attiva nel mercato del lavoro; sostenere e incoraggiare l’imprenditorialità giovanile41.

All’elevato numero di Neet e di giovani disoccupati si aggiungono fenomeni legati al “paradosso dei lavori orfani” (circa 250.000 richieste di lavoro che non trovano candidature soddisfacenti), alla precarietà di molte occupazioni, allo stato di overeducation (titoli di studio spesso poco coerenti con le richieste provieniti dal mercato del lavoro)42. Su questa scia, nell’ambito della rilevazione sulle forze di lavoro 2016, l’Istat ha effettuato un approfondimento tematico in merito al fenomeno del sottoutilizzo del capitale umano disponibile (sovraistruzione).

L’indagine è stata condotta prendendo in esame la corrispondenza tra livello di istruzione e gruppo di professioni e avvalendosi di autovalutazioni svolte dai soggetti rispondenti. Dai risultati emerge che il 38,5% dei diplomati e laureati di età compresa tra i 15 e i 34 anni (circa 1,5 milioni) dichiara che per svolgere adeguatamente il proprio lavoro sarebbe sufficiente un livello di istruzione inferiore rispetto a quello posseduto43. La quota di diplomati che si dichiara molto soddisfatta del lavoro svolto (punteggi da 8 a 10, in una scala 0-10) è del 59,2%

tra coloro che dichiarano di svolgere un lavoro in linea con il titolo di studio posseduto, mentre scende di 17 punti, al 42,2 %, tra chi si dichiara “sovraistruito”.

Nello specifico, i giovani diplomati degli istituti tecnici e professionali si percepiscono meno frequentemente sovraistruiti mentre la percezione della sovraistruzione è massima (50,1%) tra i diplomati con maturità liceale. Nei laureati le differenze nel grado di soddisfazione, a seconda che ci si trovi o meno in una condizione di sovraistruzione, raggiungono livelli elevati. Allo stesso modo l’incidenza di sovraistruiti è minima tra i giovani con lauree a indirizzo tecnico-scientifico (22,5%) e più elevata (38,2 e 40,2% rispettivamente) per le aree

41 Cfr. A. ROSINA, NEET, pp. 98-99.

42 Cfr. D. NICOLI, Il lavoro buono. Un manuale di educazione al lavoro per i giovani, Rubbettino, Soveria Mannelli 2018, p. 5.

43˂https://www.istat.it/storage/rapporto-annuale/2018/Rapportoannuale2018.pdf˃, ultima consultazione 22 Settembre 2019.

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disciplinari umanistiche e per quelle socio-economiche e giuridiche. L’indagine segnala, altresì, come un ruolo non secondario nella determinazione della corrispondenza tra professione svolta e titolo di studio posseduto, sia svolto dalla natura dei canali di ricerca di lavoro che vengono attivati. La ricerca di un’occupazione prevede che l’equilibrio tra domanda e offerta si realizzi attraverso un processo (matching function) composto da un’iniziale fase di ricerca (search) e da una successiva di collocamento (match). Questo processo si concretizza attraverso intermediazioni che possono essere di natura informale (passaparola, segnalazioni) o formale (annunci, concorsi, servizi per il lavoro). La possibilità per i giovani di trovare un lavoro ottimale e soddisfacente passa per l’attivazione di canali di tipo formale. Un inserimento lavorativo che avviene attraverso le segnalazioni di familiari o amici porta a ottenere un impiego caratterizzato, in assoluto, da retribuzioni più basse e minore coerenza con il percorso di studi condotto. Nel caso dei laureati i meccanismi di selezione concorsuale e/o l’intermediazione attuata dall’università risultano più adatti a far incontrare le necessità della domanda e dell’offerta qualificata. La percezione di overeducation tra i giovani, che spesso si lega ad una marcata insoddisfazione lavorativa, testimonia sia una certa insoddisfazione per la valorizzazione del proprio capitale umano, sia un mercato del lavoro ancora poco qualificato. Tale trend non contraddice il ruolo di protezione che un titolo di studio è in grado di offrire. I dati Istat relativi al 2017 confermano l’istruzione quale imprescindibile fattore protettivo. Il tasso di occupazione cresce a ritmi più elevati per i laureati e anche il generale aumento del numero di disoccupati registrato nell’ultimo decennio è più contenuta per chi in possesso di titoli di istruzione terziaria44.

Tuttavia, in Italia, è ancora ben rilevabile la difficoltà a conseguire standard apprezzabili di istruzione. Il miglioramento della formazione delle giovani generazioni riveste un ruolo rilevante all’interno delle politiche economiche e sociali europee e costituisce parte integrante di Europa 202045, strategia varata nel 2010 con l’obiettivo di creare le condizioni per uno sviluppo intelligente, sostenibile e solidale. Il piano europeo ha, a tale proposito, fissato alcuni obiettivi sui livelli di istruzione della popolazione che, nel nostro Paese, non sono stati

44 Ibidem.

45 Cfr. EUROPEAN COMMISSION Europe 2020. A strategy for smart, sustainable and inclusive growth, Brussels 2010.

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ancora tutti raggiunti. Secondo recenti indagini Istat46 i 30-34enni con istruzione terziaria sono il 23,9% (contro una media europea del 37,9%), nella fascia 25-34 anni ad essere in possesso di almeno un titolo di istruzione/formazione di livello secondario superiore è il 73,8% (contro una media europea dell’ 83,1%) mentre i giovani di 18-24 anni che abbandonano prematuramente gli studi sono circa il 15%, un andamento in controtendenza rispetto ai principali partner europei dove la quota è in diminuzione. La dispersione scolastica si configura come un grave fenomeno nazionale che necessita di attenzione. A livello territoriale, nel Centro-Nord si registrano più alti tassi di partecipazione al sistema formativo dei 15-24enni rispetto al Mezzogiorno (in Sicilia e in Sardegna circa un giovane su quattro non prosegue gli studi dopo la licenza media) benché, in linea generale, si sia ancora lontani dall’aver ideato misure programmatiche in grado di contrastare la dispersione giovanile. Un dato interessante messo in luce da diverse ricerche47 sottolinea come, nel nostro Paese, il fenomeno dell’abbandono scolastico non sia esclusivamente correlato ai cosiddetti “fattori tradizionali”

(disagio, marginalità, scelta sbagliata del percorso di studi etc.) ma altresì ad un’eccessiva frammentazione e astrattezza delle proposte formative che si traducono in un fragile ancoramento alle richieste provenienti dall’esterno, rendendo scarsamente attraente l’impegno allo studio, anche per i giovani che provengono da condizioni non svantaggiate. Ogni anno il problema della dispersione richiama pertanto gli operatori scolastici a interrogarsi sugli abbandoni, le bocciature, la demotivazione dei giovani rispetto ai percorsi di studio intrapresi. Certamente, una scuola rigidamente organizzata e improntata sui tradizionali modelli di didattica trasmissiva difficilmente è in grado di coinvolgere i giovani e toglierli dall’inerzia per richiamarli invece al piacere della scoperta e alla sfida del sapere48. La scuola, se vuole formare cittadini che abbiano i mezzi, le conoscenze e le competenze per vivere da protagonisti il mondo del lavoro, deve promuovere un riallineamento tra la domanda di competenze che il mondo esterno richiede e ciò che le istituzioni scolastiche sono

46<http://www4.istat.it/it/giovani/istruzione-e-formazione>, ultima consultazione 22 Settembre 2019.

47 Cfr. M. COLOMBO, Dispersione scolastica e politiche per il successo formativo. Dalla ricerca sugli early school leaver alle proposte di innovazione, Erickson, Trento 2010.

48 Cfr. P. CUPPINI, L’alleanza scuola-lavoro, in D. NICOLI - A. SALATIN (a cura di), L’Alternanza scuola-lavoro. Esempi di progetti tra classe, scuola e territorio, Erickson, Trento 2018, pp. 19-32.

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effettivamente in grado di erogare. Chi è dotato delle giuste competenze può aspirare a occupazioni di qualità ed esprimere, al meglio, le proprie potenzialità in qualità di cittadino attivo e sicuro di sé. In un’economia globale in rapido mutamento, le competenze rappresentano un fattore di attrazione per gli investimenti e un catalizzatore virtuoso per la creazione di posti di lavoro.

Tuttavia, in Europa, 70 milioni di cittadini non possiedono adeguate competenze di lettura e di scrittura e un numero ancora maggiore dispone di scarse competenze matematiche e digitali, situazione che espone a rilevanti rischi di disoccupazione ed esclusione sociale49. Al fine di migliorare le prestazioni degli studenti potendo disporre di prove comparabili a livello internazionale, l'Organizzazione per la Cooperazione Economica e lo Sviluppo (OCSE) ha lanciato, nel 2015, l'indagine triennale sugli studenti di 15 anni di tutto il mondo, nota come Programme for International Students Assessment (Programma per la Valutazione Internazionale degli Studenti – PISA) con l’obiettivo di andare a misurare l’acquisizione di alcune competenze chiave, essenziali per la piena partecipazione alla società civile. La valutazione si è focalizzata su materie scolastiche ritenute fondamentali come scienze, lettura e matematica50 e ha coinvolto un totale di 72 Paesi. L’indagine non si è limitata alla verifica delle conoscenze acquisite negli ambiti sopraelencati, ma ha approfondito la capacità degli studenti di applicare quanto appreso a scuola anche in contesti non familiari51. Nell’ambito scientifico, l’Italia si è collocata tra il 32° e il 36° posto e tra il 26° e il 28° posto considerando solo i paesi OCSE (permangono sostanziali differenze, a livello nazionale, tra Nord e Sud). Allo stesso modo, nelle conoscenze di tipo matematico, gli studenti italiani hanno ottenuto performance corrispondenti ad un punteggio medio, non significativamente diverso dalla media OCSE, ma ancora lontano dai risultati raggiunti dai top performers (Singapore e Hong Kong). Infine, l’ambito relativo alle competenze di lettura,

49 Cfr. U. MARGIOTTA, Per valorizzare il talento, in G. ALESSANDRINI (a cura di), Atlante di pedagogia del lavoro, pp. 129-152.

50 Per un approfondimento sugli ambiti di competenza si veda

<http://www.invalsi.it/invalsi/ri/pisa2015/doc/rapporto_2015_assemblato.pdf>, ultima consultazione 22 Settembre 2019.

51 In Italia i dati PISA 2015 sono stati raccolti su un campione di oltre 11.000 studenti in più di 450 scuole partecipanti. Il campione italiano è stato stratificato per macro-area geografica e tipologia d’istruzione (Licei, Istituti Tecnici, Istituti Professionali, Centri di Formazione Professionale, Scuole Secondarie di primo grado). Le Province Autonome di Trento e Bolzano, la Regione Campania e la Regione Lombardia hanno avuto un sovra- campionamento delle scuole.

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vede i risultati degli studenti italiani significativamente sotto la media OCSE. Nel contesto internazionale, questo risultato colloca l’Italia tra il 29° e il 37° posto nel ranking complessivo di tutti i paesi/economie partecipanti e tra il 23° e il 28° posto circoscrivendo il confronto ai 34 paesi OCSE. Il trend internazionale è confermato, a livello nazionale, dall’ultimo Rapporto sulle prove Invalsi52, a cui hanno partecipato 28.716 classi di seconda primaria (grado 2), 29.670 classi di quinta primaria (grado 5), 29.213 classi di terza secondaria di primo grado (grado 8) e 26.845 classi di seconda secondaria di secondo grado (grado 10). Come negli anni precedenti, gli studenti hanno sostenuto una prova di italiano e una di matematica. Gli studenti del grado 5 e del grado 8, a partire dal 2018, sostengono anche una prova di inglese. A livello generale, dalla seconda primaria alla seconda secondaria di secondo grado, i risultati nelle prove di italiano e matematica si allontanano progressivamente. Nella scuola primaria le differenze sono minime e in generale non statisticamente significative. In terza secondaria di primo grado, invece, i risultati medi delle macro-aree tendono a divergere significativamente tra loro, tendenza che si consolida ulteriormente nella scuola secondaria di secondo grado, riproducendo il quadro che emerge anche dall’indagine internazionale PISA. Marcate le differenze territoriali: il Nord ottiene risultati superiori sia alla media italiana che alla media OCSE, il Centro ha un risultato in linea con la media dell’Italia, più bassa della media OCSE, e il Sud e le Isole raggiungono risultati inferiori sia alla media italiana che alla media OCSE.

Differenze simili a quelle che si riscontrano fra le macro-aree in italiano e in matematica si osservano anche nei punteggi numerici delle prove d’inglese. Nel grado 5 la percentuale di alunni che non raggiunge il livello previsto (A1) dalle Indicazioni Nazionali per il primo ciclo d’istruzione in quinta primaria è del 30%

nelle macro-aree meridionali e insulari, mentre è al di sotto del 20% nelle aree settentrionali e nel centro-Italia. Nel grado 8 le differenze tra le macro-aree si ampliano: la percentuale di alunni che non raggiunge il livello previsto (A2) dalle

52 Alla rilevazione 2019 dei livelli di apprendimento degli studenti delle scuole italiane hanno partecipato: 28.716 classi di seconda primaria (grado 2) per un totale di 525.563 alunni; 29.670 classi di quinta primaria (grado 5) per un totale di 560.550 alunni; 29.231 classi di terza secondaria di primo grado (grado 8) per un totale di 572.229 alunni; 26.845 classi di seconda secondaria di secondo grado (grado 10) per un totale di 541.147 alunni; 25.884 classi di quinta secondaria di secondo grado per un totale di 479.482 alunni. L’indagine è consultabile al sito

<https://invalsi-areaprove.cineca.it/docs/2019/Rapporto_prove_INVALSI_2019.pdf>, ultima consultazione 22 Settembre 2019.

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Indicazioni Nazionali è del 61% nel Sud e Isole, del 54% nel Sud, del 35% nel Centro, del 30% nel Nord Ovest e del 25% nel Nord Est.

Dai dati menzionati emerge un quadro di problematicità che necessita di un’adeguata riflessione. Le giovani generazioni dovrebbero rappresentare una ricchezza per l’economia di un Paese mentre invece “una parte crescente del loro tempo, negli ultimi anni, è stata gettata al vento: non utilizzata né per migliorare la propria formazione né per mettere in pratica le proprie competenze nel mercato del lavoro”53. In questo complesso scenario che caratterizza il rapporto tra giovani e mercato occupazionale, diventa necessario diffondere forme di apprendimento attivo, basato sull’esperienza concreta e validato attraverso il contatto diretto con la realtà. È su questa scia che l’alternanza scuola-lavoro e i percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento, possono rappresentare una dinamica formativa promettente per favorire l’acquisizione di competenze chiave, utili per incrementare l’occupabilità dei giovani e per garantire uno sviluppo significativo delle loro potenzialità.