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giuridiche nel Giappone contemporaneo G iorGio F abio c olombo

Bruciamo le gondole, poltrone a dondolo per cretini, e innalziamo fino al cielo l’imponente geometria dei ponti metallici e degli opifici chiomati di fumo, per abolire le curve cascanti delle vecchie architetture. (F. T. Marinetti, Contro Venezia passatista, 1910)

Introduzione

In diritto comparato è assai nota la rappresentazione del Giap- pone come paese dove il diritto formale non ha grande peso, o comunque soccombe rispetto alle norme sociali. I Giapponesi, dunque, «non amano il diritto» (Noda, 1976). Si tratti di contratti (Kawashima, 1974; Kitagawa, 1997), contenzioso (Kawashima, 1963), o più in generale di ‘mentalità giuridica’ (Ortolani, 2013), l’idea della percezione della legge in senso tecnico come ‘debole’ è un concetto ben noto agli studiosi di diritto comparato. Questa rappresentazione, resa oltremodo popolare da alcuni influenti so- ciologi negli anni Sessanta (Kawashima, 1963) e Settanta (Noda, 1976) del XX secolo ha permeato tutta la scienza comparatistica di diritto europeo (David e Jauffret-Spinosi, 2001; Zweigert e Kötz, 1998) e ha formato diverse generazioni di studiosi sulla base dell’idea che in Giappone il diritto non sia popolare.

Sin dalla fine dalla metà degli anni Sessanta (Henderson, 1965), e più decisamente a partire dalla fine degli anni Settanta del XX secolo (Haley, 1978), tuttavia, l’idea che i Giapponesi

avessero un atteggiamento radicalmente diverso verso il diritto a causa di una differente predisposizione culturale è stata via via abbandonata, e nuove e diverse interpretazioni sono state propo- ste: vero è che in Giappone contratti e contenzioso sono utilizzati in modo differente rispetto agli Stati Uniti (quasi invariabilmen- te il principale termine di paragone in questa fase), ma ciò non sarebbe dovuto a un problema di diversa cultura, quanto a un differente contesto istituzionale (Haley, 1978), a una deliberata collaborazione politico-istituzionale per mantenere le liti lontane dalle corti (Upham, 1987), a una maggiore razionalità degli uten- ti (Ramseyer e Nakazato, 1989), a un preciso piano di politica della giustizia (Tanase, 1990) o a una combinazione dei prece- denti fattori (Foote, 1995; Nottage, 2000; Foote e Ōta, 2010). In ogni caso, salvo qualche voce dissenziente (Givens, 2013), ormai l’argomento ‘culturale’ è ritenuto quantomeno sopravvalu- tato (Colombo, 2011), e l’idea della ‘coscienza debole’ del diritto giapponese è stata definita addirittura una ‘invenzione’ (Upham, 1998).

Quello però che preme sottolineare ai fini della presente trat- tazione è il fatto che un tempo la presunta diversità – o unicità – del diritto giapponese era vissuta, dagli stessi studiosi giappone- si, quasi motivo di orgoglio: sin dalle prime pubblicazioni scien- tifiche tese a presentare ai lettori di lingua inglese (e francese, e tedesca) il sistema giuridico locale era mostrato con un allure di superiorità. Ciò era evidente sin dall’illustrazione delle contami- nazioni fra diritto e tradizione nel culto degli antenati (Hozumi, 1901). Negli anni del nazionalismo, la leggendaria avversione culturale dei Giapponesi verso il contenzioso venne strumental- mente usata dalla classe egemone per sopprimere il contenzioso e incanalare forzatamente le dispute verso procedure conciliative sempre meno spontanee (Haley, 1982; Vanoverbeke, 2004). In- fine, nel Secondo dopoguerra pare che la retorica del nihonjin

hōron sia stata usata dagli studiosi di un paese sconfitto per mo-

strare al mondo come il Giappone possedesse un elevato livello di civiltà, fors’anche superiore a quello dei litigiosi Americani, e certamente un grande rispetto dell’armonia (Kawashima 1963;

Noda 1976). Insomma, avere un diritto ‘unico’, ‘giapponese’ era un punto d’onore. A ciò si aggiunga che l’accademia si sentiva profondamente radicata nella tradizione europeo-continentale, da cui il diritto giapponese aveva tratto ispirazione sin dalle rifor- me del Meiji (Röhl, 2005). A detta di alcuni studiosi statunitensi, questo coriaceo substrato era così tenace da impedire a lungo l’importazione in Giappone di innovative idee di ricerca, come ad esempio gli strumenti della Law and Economics (Ramseyer, 2011).

Negli ultimi anni, e decisamente a partire dall’inizio del XXI secolo, sembra che in Giappone l’accademia abbia invece com- piuto un deciso cambio di direzione verso l’abbandono dell’or- goglio nazionale e il tentativo di ‘americanizzare’ il diritto attra- verso una serie di riforme chiave. Il punto di svolta di questo mo- vimento è costituito probabilmente dall’istituzione del Consiglio per la Riforma del Sistema Giuridico (Ortolani, 2012, p. 447), il quale ha, nel 2001, pubblicato le risultanze dei suoi lavori (Shihō

seido kaikaku shingikai, 2001).

Tra le varie raccomandazioni proposte dal Consiglio, spiccano una radicale riforma dell’accesso alle professioni legali tramite l’istituzione di un sistema di Law School (la cui denominazione ufficiale, Hōka Daigakuin, è eloquentemente spesso trascurata a favore della traslitterazione fonetica di Rōsukūru), vagamente ispirata al modello americano e il rafforzamento delle forme di risoluzione alternativa delle controversie (ADR, secondo l’acro- nimo di Alternative Dispute Resolution). Queste indicazioni del Consiglio sono state recepite e rese legge nel corso degli anni immediatamente successivi, con esiti – per usare un eufemismo – deludenti.

Il risultato pratico è stato, rispettivamente, problematico per le Law School, e quasi ininfluente per l’ADR. Queste riforme tut- tavia sono significative per analizzare la fase di transizione filoa- mericana in cui il diritto giapponese si trova in questo momento. Prima di procedere con l’analisi di questo fenomeno, tutta- via, una premessa metodologica è quanto mai necessaria: nella presentazione dei vari modelli, e in particolare di quello ‘statuni-

tense’ contrapposto a quello ‘europeo-continentale’ si procederà non per descrizioni dettagliate degli istituti (che del resto sarebbe complessa per l’Europa, composta da nazioni con tradizioni giu- ridiche assai diverse), ma per idealtipi più utili a rappresenta- re l’impostazione di teoria filosofica retrostante (Bobek, 2009). Del resto, come ormai è comunemente accettato dalla dottrina dominante, un certo grado di contaminazione reciproca fra i si- stemi della tradizione angloamericana e dell’Europa continentale è presente in tutti gli ordinamenti (Örücü, 2008), quindi nell’ap- proccio alla tassonomia macrocomparativa è inevitabile (ma an- che opportuno) procedere per approssimazioni ideali (Glendon, Carozza e Picker 2008, pp. 1-16; Bogdan 2013, pp. 5-9).

La riforma dell’accesso alle professioni legali

Uno dei punti cardine della riforma è stato, come detto, la revisio- ne dell’accesso alle professioni legali. Per molti anni il Giappone aveva utilizzato un sistema unificato per giudici, pubblici mini- steri, e avvocati, basato sostanzialmente sul modello europeo- continentale (e in ispecie tedesco). Il normale iter per acquisire l’abilitazione era dunque costituito dalla laurea in giurispruden- za, seguita da un esame unico (shihōshiken) sia per magistrati sia per avvocati (come appunto avviene in Germania). Superato tale esame, il candidato doveva trascorrere un periodo di formazione presso lo Shihōkenshūsho (Istituto per la Formazione e la Ricer- ca Legale, più noto con l’acronimo inglese di LTRI, ossia Legal

Training Research Institute), durante il quale il percorso veniva

differenziato in base alla professione scelta, giudice, P.M., avvo- cato (Rokumoto, 2007). Concluso il periodo e superato un altro test con valenza più che altro formale, il candidato poteva acce- dere all’esercizio delle funzioni (Ortolani 2012). In teoria, la lau- rea in giurisprudenza non era requisito formale per l’ammissione all’esame, e dunque era possibile superare lo shihōshiken senza essere laureati: tuttavia, la leggendaria difficoltà dell’esame ren-

deva l’impresa quasi impossibile, e coloro che hanno con succes- so compiuto tale procedura sono poche decine di individui.

Giova ricordare che nel modello statunitense la procedura è radicalmente diversa: tale impostazione prevede generalmente che l’apprendimento del diritto debba avvenire prevalentemente nella Law School, un’istituzione a cui si accede dopo una laurea di primo livello in una materia diversa dalla legge (Klein, 1990). In simili ordinamenti, l’insegnamento di giurisprudenza come

undergraduate è residuale o non esiste del tutto.

La riforma ha cambiato l’impostazione giapponese, introdu- cendo, come detto, il sistema delle Law School (e modificando l’esame di stato; e riducendo il periodo di apprendistato presso il LTRI). Ora dunque la via primaria di accesso è così strutturata: laurea di primo livello in giurisprudenza o altra materia, seguita dall’esame di accesso alla Law School. A seconda degli studi ef- fettuati prima di tale esame, il percorso è differente: il program- ma di studi è infatti di tre anni per i laureati in specializzazioni diverse dal diritto, mentre di due per chi è in possesso di una laurea in legge.

La riforma, entrata in vigore nel 2004 e a pieno regime dal 2006, è giudicata quasi unanimemente un fallimento (Watson, 2016; Steele, 2016), e ormai da qualche anno sia la comunità accademica sia il mondo professionale ne chiedono quantome- no una sostanziale revisione (Aronson, 2011), se non addirittura l’abolizione. Prima di accennare ai motivi di questo fallimento, ciò che preme sottolineare ai fini della presente trattazione è il massiccio comparto ideologico retrostante la riforma. Il fatto che buona parte dei princìpi a cui il Consiglio si è ispirato possano essere rinvenuti nel leggendario ‘MacCrate Report’ (American Bar Association, 1992) è un’ulteriore conferma dell’ascendenza statunitense sull’intera riforma.

Per semplicità, e per non dovere trattare i diversi requisiti di accesso a professione forense e magistratura (inquirente o giudi- cante), prendiamo l’esempio dell’avvocato. Il modello europeo- continentale si fregia dei numerosi anni che gli aspiranti profes- sionisti legali devono trascorrere studiando prevalentemente se

non esclusivamente diritto (con alcune materie ancillari – dal punto di vista del giurista - quali scienze politiche o economia): partendo dall’esempio italiano, non è possibile divenire avvocati se non si è ottenuta una laurea quinquennale a ciclo unico in giu- risprudenza, effettuato diciotto mesi di pratica forense presso uno studio legale e superato l’esame di Stato, costituito da una prova scritta e da una orale. Considerando dunque un candidato bra- vo (e fortunato), il periodo minimo sono sei anni e mezzo spesi nell’apprendimento della legge. Per converso, il modello statuni- tense si vanta dell’apertura mentale dei propri professionisti le- gali: uno studente che ha studiato esclusivamente diritto avrà una mentalità chiusa, mentre chi ha un Bachelor of Arts (grossomodo l’equivalente della nostra laurea di primo livello) in un’altra ma- teria avrà già una formazione più poliedrica. Il tempo di un anno trascorso sui banchi della Law School per conseguire il Master

of Laws (LL.M.) necessario per sostenere poi l’esame di abilita-

zione è ritenuto sufficiente per acquisire gli strumenti dell’analisi giuridica necessari per affrontare i casi. E del resto, alcune spe- cializzazioni, a detta dei fautori del sistema, lo richiedono: come occuparsi – ad esempio – di brevetti se non si hanno conoscenze tecnico-scientifiche? Con una brutale approssimazione, dunque, si può dire che il modello dell’Europa continentale vuole un ceto di giuristi composto da ‘tecnici’ del diritto, mentre il sistema sta- tunitense richiede che della legge si occupino dei ‘pratici’.

Il Giappone era saldamente collocato, come detto, nel model- lo europeo: i quattro anni di studio di giurisprudenza facevano da prodromo all’esame di Stato e ai (all’epoca) ventiquattro mesi di apprendistato presso il LTRI. La riforma ha cercato, con risultati ambivalenti, di portare il paese sul versante americano. Se si leg- ge il report prodotto dal Consiglio, in numerosi passaggi si legge della necessità di portare la giustizia ‘vicino ai cittadini’, in modo che il sistema legale sia comprensibile anche al cittadino privo di formazione giuridica. Il nuovo giurista, prodotto della riforma, veniva descritto con questo motto ‘from legal advisor to problem solver’ (Kashiwagi, 2001, p. 67). Il perno del cambiamento, il sistema delle Law School, appunto, prevedeva di attrarre un gran

numero di laureati in materie diverse dal diritto verso la profes- sione legale, così da garantire una maggior flessibilità mentale degli avvocati (e dei giudici; e dei P.M.) formatisi sotto il nuovo regime.

Questo per quanto riguarda i consulenti legali. Anche in tema di formazione dei magistrati, tuttavia, le novità dal punto di vista ideologico erano significative.

Di nuovo, occorre dare atto della biforcazione fra modello di civil law (ossia Europeo-continentale) e statunitense sul pun- to. Nei paesi dell’Europa continentale il giudice è considerato la

bouche de la loi, un ‘burocrate’ della giustizia: quest’ultima valu-

tazione è particolarmente sentita in ordinamenti quali il Giappo- ne (Takahashi, 2009, pp. 46–50; Law, 2009, p. 1556) – e l’Italia (Monateri, 2014, p. 7). Nei sistemi di common law (ossia della tradizione angloamericana) invece è il precedente giudiziario ad essere la fonte principale di creazione delle norme, e dunque il giudice ha da questo punto di vista una funzione decisamente af- fine a quella del legislatore. Si ritiene dunque che, nel primo mo- dello, il giudice debba avere una forte formazione tecnica nell’in- terpretazione del diritto; nel secondo, una grande conoscenza dei problemi della società anche perché, ove necessario, sarà egli stesso a dover cambiare le regole per venire incontro alle mutate esigenze sociali. Il reclutamento dunque riflette questa imposta- zione di politica del diritto: nei sistemi di civil law i giudici sono magistrati di carriera, che, dopo essere stati ammessi all’eserci- zio delle funzioni (con un concorso separato in paesi come Fran- cia e Italia; con un esame unificato in paesi come Germania e Giappone), trascorrono l’intera vita professionale nel giudiziario, con scatti di carriera perlopiù basati sull’anzianità. Nei sistemi angloamericani, invece, la maggior parte dei giudici proviene dai ranghi dell’avvocatura: dopo anni di esperienza come consulente legale si presume che l’individuo abbia una profonda conoscenza della pratica e dunque dei problemi di attualità.

La riforma della formazione giuridica è stata rivolta anche a favorire una transizione verso l’idealtipo anglosassone: con in mente lo scopo di portare la giustizia ‘vicino ai cittadini’ e ren-

derla ad essi ‘comprensibile’ si è voluto attaccare l’isolamento dei magistrati. L’introduzione di un modello di formazione che preveda anche lo studio di materie diverse dal diritto comporte- rebbe, a detta dei suoi fautori, una maggiore apertura nell’affron- tare la professione di giudice; l’introduzione del case-method di tipo socratico negli anni di studio stimolerebbe un’attitudine alla risoluzione dei problemi pratici anziché un approccio di tipo teo- rico ai problemi giuridici. Questo contribuirebbe dunque a risol- vere il problema di giudici ‘lontani dalla società’ e ‘privi di senso comune’ (Takahashi, 2009, p. 48; West, 2011, pp. 13-14).

Dei motivi del fallimento di questa riforma si è già scritto altrove (Colombo, 2016): in particolare, una – protezionistica, certo, nondimeno comprensibile – reazione degli ordini forensi all’abilitazione di migliaia di nuovi concorrenti ogni anno e una sovrabbondanza di Law School rispetto alla domanda del mer- cato. Ma al di là delle motivazioni pratiche, anche il comparto ideologico ha fallito: che senso ha addestrare i nuovi futuri avvo- cati nell’arte del lawyering - ossia l’ars oratoria del difensore -, corso invariabilmente presente nei programmi delle Law School quando il processo è ancora prevalentemente basato sullo scam- bio di documenti e non sulle arringhe in aula? Come pensare di poter modificare la formazione giuridica post-laurea di primo livello senza allineare l’organizzazione della giustizia al nuovo modello? Il risultato è dunque una riforma incompleta, che ha cercato di prendere il meglio dell’esperienza statunitense ma si è scontrata con il substrato locale: l’esperienza di ‘de-nipponiz- zazione’ della formazione dei giuristi è dunque, allo stato attuale delle cose, un fallimento. Del resto, un problema è anche stato senza dubbio quello della idealizzazione del modello statuniten- se, e, per converso, un atteggiamento - seppur vagamente – deni- gratorio dell’esperienza giapponese. A titolo di esempio: il tanto lodato metodo socratico non è tanto una caratteristica intrinseca alla Law School, quanto piuttosto una scelta didattica. Nelle fa- coltà di giurisprudenza questa scelta è più che altro lasciata alla decisione del docente ed è basata sul numero di studenti: anche nelle conservatrici università giapponesi è del tutto normale che

gli insegnanti utilizzino didattica interattiva nel proprio semina- rio (zemi) e riservino la tradizione forma di didattica frontale per le classi dei primi anni, in cui il grande numero di studenti impe- disce un dibattito costruttivo. L’equivalenza modello americano uguale metodo socratico; modello europeo (o giapponese) ugua- le lezioni tradizionali (Rosen, 2010) è quantomeno approssimati- va, se non addirittura scorretta.

Un altro esempio: nelle università statunitensi si fa molto uso di processi simulati (mock trials) per addestrare i futuri avvocati alla ricerca, preparazione di documenti, dibattito in aula. Di nuo- vo, alcuni studiosi (Watson 2016, p. 4) sostengono che questo tipo di esercizio sia consono al modello angloamericano, basato sul case-method. Di nuovo, l’affermazione è inesatta: la più im- portante competizione al mondo di contenzioso simulato svolta in lingua inglese (ossia il Vis Moot), è stata vinta nel 2015 da un’università argentina (paese di civil law e di lingua spagnola), e svariate università tedesche, e di recente cinesi, figurano sem- pre nelle posizioni d’onore. Lo scarso rendimento delle univer- sità giapponesi in questo tipo di competizioni andrebbe dunque ricercato altrove (forse nella scarsa propensione delle istituzioni a impegnarsi in attività extracurricolari) e non nel modello for- mativo di per sé.

L’ADR

L’uso dell’Alternative (o Amicable) Dispute Resolution (ADR) per fornire supporto e sollievo al sistema di giustizia civile è og- getto di dibattito in quasi tutti i paesi sviluppati. Sotto l’acronimo poc’anzi menzionato si includono varie categorie di conciliazio- ne, mediazione, med-arb, risoluzione online delle controversie, ecc., ma un’accurata tassonomia sarebbe esorbitante rispetto agli scopi della presente trattazione. A titolo di semplificazione, si può affermare che si tratta di risoluzione ‘non contenziosa’ delle controversie, ossia tesa a risolvere una disputa non con una deci-

sione come avviene nel caso di una sentenza di tribunale, ma con un accordo accettato dalle parti contendenti.

La teoria dell’ADR, elaborata dalla cosiddetta ‘Scuola di Har- vard’ vorrebbe invece che questo tipo di forma di risoluzione del- le controversie non fosse un semplice correttivo delle storture e delle lentezze del contenzioso, ma un sistema autonomo e degno, che le parti scelgono - e i legislatori creano e regolano - per la sua bontà (Fisher, Ury, e Patton, 2012). L’idea è che le parti siano in grado, attraverso varie forme di mediazione e conciliazione, di raggiungere un accordo migliore e soddisfacente per entrambe le parti (la cosiddetta win-winsolution) rispetto alla decisione presa da un giudice tramite la mera applicazione delle norme di diritto.

Fuor di speculazioni teoriche, questa bipartizione ha delle conseguenze pratiche notevoli: ad esempio, l’Unione Europea, dopo decenni di aderenza all’ideologia della win-win solution ha deciso che l’unica strada per ottenere una capillare diffusione dell’ADR (e dunque un reale beneficio per il sistema) è un’at- tività di intensa promozione da parte delle istituzioni, tramite benefici fiscali (come avviene in Bulgaria), riduzione di spese e contributi (Romania), o la massiccia introduzione di forme di mediazione ‘obbligatoria’ come condizione di procedibilità dell’azione legale (Italia) (Lupoi, 2014). Questo approccio è for- temente avversato dai ‘puristi’ della Scuola di Harvard, i quali sostengono che il vero modo per favorire la diffusione dell’ADR è quello di istruire il pubblico e i professionisti legali sui benefici di queste procedure. Ovviamente il tratto di penna del legislatore non può instillare negli utenti la cultura della mediazione, e dun- que questa differente impostazione richiede tempo e un paziente investimento in formazione e comunicazione (Kobayashi-Levin, 2011). Tale atteggiamento è spesso rinvenuto in paesi di common

law quali Australia, Hong Kong, e Stati Uniti.

In Giappone, nel 2004 è stata approvata la Legge n. 151 del 1 dicembre 2004, che porta il nome di ‘Legge sulla promozio- ne dell’utilizzo della risoluzione alternativa delle controversie’ (Saibangai funsō kaiketsu tetsuzuki no riyō no sokushin ni kan-

397), ad un primo sguardo appare bizzarro che il Giappone, pa- ese leggendario per la sua inclinazione alla risoluzione concilia- tiva delle liti, abbia approvato una legge per promuovere appun- to conciliazione e mediazione. Ma l’apparente contraddizione è presto spiegata: la ‘risoluzione alternativa delle controversie’ che la legge intende favorire ha ben poco a che spartire con quanto svolto in Giappone sino all’introduzione della nuova normativa, ma intende trapiantare nel paese il modello americano di ADR. Questo pone la nuova riforma in parziale distonia con la proce- dure di wakai (conciliazione giudiziale) e chōtei (conciliazione extragiudiziale presso i tribunali) tipiche dell’ordinamento giap- ponese (Kojima, 2004). Anche questa riforma era stata favorita dall’iniziativa del Consiglio per la Riforma del Sistema Giuri- dico, che tra i vari punti della sua relazione aveva evidenziato la necessità di «potenziare e vitalizzare le forme di alternative

dispute resolution (ADR), in modo che i cittadini possano sce-

gliere tra diverse forme di risoluzione delle controversie in base alle proprie necessità» (Shihō seido kaikaku shingikai, 2001). Il sistema auspicato dal Consiglio era basato piuttosto rigidamente

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