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Gli effetti della risposta all’interpello sul contenzioso

L’articolo 6 del decreto, oltre che occuparsi del coordinamento della disciplina dell’interpello con la fase di accertamento, al comma 1 contiene un’importante regola di raccordo con le norme sul contenzioso.

Come evidenziato dalla relazione illustrativa al decreto, uno dei punti nodali cui la legge delega ha cercato di porre rimedio è quello che concerne l’impugnabilità diretta delle risposte rese dall’amministrazione in sede di interpello alla luce del criterio guida di “assicurare maggiore omogeneità (alla disciplina), anche ai fini della tutela giurisdizionale”.

La regola contenuta nel citato comma 1 (nel quale si legge espressamente che “la risposta alle istanze di interpello di cui all’articolo 11” dello Statuto “non sono impugnabili”) è sostanzialmente confermativa del consolidato orientamento dell’amministrazione (cfr, da ultimo, Circolare 32/E del 2010) teso a negare tutela giurisdizionale (sia dinanzi al giudice tributario che davanti a quello amministrativo) avverso le risposte ad istanze di interpello, conformemente alla loro natura di “pareri” (e quindi di atti privi dei caratteri necessari per la loro immediata ricorribilità in giudizio) ed alle regole di istruttoria che non attribuiscono mai all’amministrazione poteri in ordine alla verifica della completezza e veridicità delle informazioni fornite dall’istante. Ferma restando la non espressa inclusione delle risposte all’interpello nel novero degli atti impugnabili ai sensi dell’articolo 19 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, appare determinante rispetto al tema in esame che la risposta resa in sede di interpello non presenta i requisiti minimi per l’impugnabilità, dal momento che non è esercizio di un potere autoritativo con il quale si esercita una pretesa fiscale, ma ha natura meramente consultiva. L’Amministrazione finanziaria invero esprime il proprio parere esclusivamente sulla base dei documenti prodotti dal contribuente in sede di presentazione dell’istanza. Trattasi quindi di monitoraggio preventivo, che, a differenza di quanto avviene in sede di accertamento, non comporta attività tese a riscontrare la veridicità di quanto affermato nei documenti prodotti. Il carattere non vincolante del parere reso in questa fase, direttamente desumibile dalla natura consultiva dell’attività svolta dall’Amministrazione, qualifica la risposta all’interpello come atto amministrativo non provvedimentale che, in quanto privo dei requisiti di esecutività (non produce automaticamente ed immediatamente effetti) ed esecutorietà (non impone

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coattivamente l’adempimento di alcun obbligo), risulta carente delle caratteristiche che potrebbero determinare una lesione dei diritti dell’istante, suscettibile di immediata tutela giurisdizionale.

Giova ricordare che sulla questione della autonoma impugnabilità delle risposte rese in sede di interpello, si è espressa anche la Corte costituzionale, la quale ha affermato, ancorché sulla base della precedente formulazione dell’articolo 11 dello Statuto, che “… deve rilevarsi che l’efficacia vincolante della risposta, prevista dal primo periodo del comma 2 («con esclusivo riferimento alla questione oggetto dell’istanza di interpello, e limitatamente al richiedente»), riguarda solo l’amministrazione finanziaria, in quanto il terzo periodo dello stesso comma stabilisce che «Qualsiasi atto, anche a contenuto impositivo o sanzionatorio, emanato in difformità dalla risposta [...] è nullo» e in quanto il comma 2 dell’art. 10 della medesima legge n. 212 del 2000 dispone che «non sono irrogate sanzioni né richiesti interessi moratori al contribuente, qualora egli si sia conformato a indicazioni contenute in atti dell’amministrazione finanziaria, ancorché successivamente modificate dall’amministrazione medesima››. Coerentemente con la natura consultiva dell’attività demandata all’Agenzia delle entrate nella procedura di interpello, l’art. 11 non prevede, invece, alcun obbligo per il contribuente di conformarsi alla risposta dell’amministrazione finanziaria, né statuisce l’autonoma impugnabilità di detta risposta davanti alle commissioni tributarie (oggetto di impugnazione può essere, eventualmente, solo l’atto con il quale l’amministrazione esercita la potestà impositiva in conformità all’interpretazione data dall’agenzia fiscale nella risposta all’interpello)” (Corte costituzionale, sentenza 14 giugno 2007, n. 191).

Lo stesso orientamento è stato espresso dal Consiglio di Stato, che ha escluso espressamente la possibilità di assimilare il parere negativo alla disapplicazione della norma ad un provvedimento di diniego di agevolazione (e quindi direttamente impugnabile innanzi al giudice tributario a norma dell’art. 19, D. Lgs. 546/1992), aggiungendo inoltre che “in nulla è pregiudicato il diritto (…) di impugnare, tempestivamente e a tempo debito, gli eventuali atti rientranti nella previsione dell’art. 19 d.lgs. nr. 546 del 1992, nei quali dovesse farsi applicazione delle disposizioni antielusive il cui esonero è stato negato (…)”. (Consiglio di Stato, decisione 26 gennaio 2009, n. 414).

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Le conclusioni sopra riportate, riferite alle istanze di disapplicazione previste dalla previgente disciplina, valgono anche in relazione alle risposte alle nuove istanze di cui al comma 2 dell’articolo 11 (istanze disapplicative obbligatorie) per le quali il comma 2 dell’articolo 6 del decreto prevede la possibilità di proposizione del ricorso solo in via successiva, “unitamente all’atto impositivo” che costituisce il primo atto lesivo della posizione giuridica del contribuente, suscettibile di tutela giurisdizionale immediata e diretta.

In ordine alla natura delle risposte alle istanze di disapplicazione di norme antielusive (per la cui autonoma impugnabilità era stata più volte sostenuta dai contribuenti la tesi della assimilazione a veri e propri dinieghi di agevolazioni fiscali), illuminante appare la posizione espressa dalla Corte di Cassazione con la sentenza 5 ottobre 2012, n. 17010 nella parte in cui viene chiarita la differenza tra le due figure. Nella sentenza si legge, infatti, che l’agevolazione fiscale “costituisce un trattamento derogatorio di favore riconosciuto in generale nella ricorrenza di determinate condizioni, pur in presenza del presupposto del tributo, per finalità di realizzazione di interessi diversi da quello fiscale, ritenuti meritevoli di tutela”, mentre la disapplicazione di norma antielusiva “consiste nel rimuovere l’operatività di norme limitative – per fini antielusivi – di vantaggi fiscali di regola spettanti, in relazione a singole fattispecie, il cui esame abbia portato ad escludere il realizzarsi dello scopo elusivo, così ripristinando, per finalità pur sempre di ordine fiscale, il regime tributario applicabile nel caso specifico a quello previsto dall’ordinamento in assenza di un fine di elusione, cioè quello ritenuto “giusto” dal legislatore in relazione alla capacità contributiva manifesta”.

La diversità delle regole dettate dal decreto per queste tipologie di istanze rispetto alle altre sotto il profilo della tutela giurisdizionale è, in verità, solo apparente e si giustifica prevalentemente in ragione del timore che per le istanze di disapplicazione – che conservano anche nel nuovo sistema delle evidenti peculiarità – il contribuente che avesse correttamente atteso la notifica dell’atto impositivo per proporre ricorso sarebbe potuto incorrere in preclusioni di ordine processuale in ordine ai vizi contestabili (ai sensi, in particolare, dell’articolo 19, comma 3, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546).

La regola dettata dal decreto, infatti, nel confermare che il solo atto suscettibile di impugnazione è l’atto impositivo, elimina del tutto il rischio che, in sede di giudizio

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instaurato avverso quest’ultimo, il contribuente non possa contestare eventuali vizi della risposta all’interpello, sempre nel presupposto che questi abbiano influenzato la legittimità dell’atto impositivo.

In omaggio ai principi che reggono il sistema della tutela giurisdizionale, è del tutto evidente, infatti, che il contribuente avrà interesse a far valere dinanzi al giudice doglianze riferite alla risposta all’interpello se detti vizi si sono trasformati in vizi dell’atto impositivo (ad esempio, qualora quest’ultimo sia motivato per relationem al primo), restando del tutto irrilevanti, anche ai fini della tutela giurisdizionale, percorsi argomentativi del parere dell’amministrazione che non siano poi confluiti nell’atto di accertamento.

Per effetto dei chiarimenti contenuti nel decreto, resta a maggior ragione confermata la non impugnabilità delle risposte che, contestando vizi di inammissibilità dell’istanza di interpello, non contengono alcun chiarimento di merito in ordine alla fattispecie rappresentata dal contribuente.

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