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Gli effetti sul giudice e sul pubblico ministero.

Capitolo III. Gli effetti soggettivi e l’illecito disciplinare del magistrato.

3. Gli effetti sul giudice e sul pubblico ministero.

Come abbiamo in precedenza tra i criteri di cui occorre tener conto al fine di valutare la durata ragionevole del processo v’è quello del “comportamento” degli organi

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giudiziari nonché di ogni altra autorità chiamata a concorrere al procedimento o a contribuire alla sua definizione.

Se si escludono situazioni di contesto aventi il carattere della eccezionalità che affondano le loro radici in emergenze di tipo economico o socio politico e che siano

altresì in grado di determinare un obiettivo

sovraffollamento dei ruoli giudiziari, la giurisprudenza CEDU è solitamente refrattaria a riconoscere un effetto giustificativo alle peculiari condizioni nelle quali è destinata ad operare l’autorità giudiziaria nazionale. Anche ove si è ritenuto che le condizioni “ambientali” fossero in grado di influire sulla determinazione della irragionevole durata dei procedimenti, infatti, non si è mancato di sottolineare come il compito fondamentale della struttura statuale sia appunto quella di attivarsi per rimuovere tutte quelle situazioni che in qualche modo interferiscano sull’esigenza del rispetto pieno di quanto previsto dall’articolo 6 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo.

Emblematica, da questo punto di vista, ci sembra la vicenda che ha visto coinvolta la Polonia come “convenuta” davanti alla Corte europea: l’esigenza che gli Stati contraenti si organizzino secondo gli obblighi imposti dal citato articolo 6 paragrafo 1 CEDU permane anche nelle ipotesi nelle quali si manifesti l’esigenza di modifiche normative legate al passaggio da un’economia pianificata ad un’economia di mercato; modifiche che, per l’effetto, hanno prodotto, in quel Paese, una lievitazione enorme del contenzioso legata altresì alla necessaria difficoltà di approccio degli stessi organi giudiziari chiamati a “gestire” una “transizione giuridica” per mole e quantità piuttosto complessa e che pure, a detta della Corte, non potevano esimere dall’allestire soluzioni di sistema tese a superare l’impasse e a far così fronte all’obbligo assunto187

.

Si tratta, come è immediatamente percepibile, di situazioni ben diverse da quelle in cui opera l’autorità giudiziaria italiana e che rendono irrilevanti le

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CEDU 30 ottobre 1998, Podbielski c. Polonia, in Rivista Internazionale dei diritti dell’uomo 1999, pag. 410 e seg.

disfunzionalità legate all’organizzazione amministrativa o al sistema processuale a fronte della responsabilità statuale del rispetto del diritto riconosciuto dall’articolo 6 paragrafo 1. L’eccessiva durata dei procedimenti, in altri termini si propone come indice obiettivo dell’incapacità statuale di predisporre mezzi e procedure adeguati all’ottenimento del rispetto di quel diritto e ciò a prescindere dalla individuazione di responsabilità riconducibili ai singoli operatori, si tratti di giudici o magistrati del pubblico ministero, di loro ausiliari o persino di soggetti che, pur estranei a tali categorie, contribuiscano nondimeno ad determinare i tempi di definizione della procedura188.

Tali essendo i termini della questione, ed avendo la responsabilità per “irragionevole durata” del processo il suo centro di imputazione nel singolo Stato al quale –per così dire- viene mosso l’addebito di non aver assicurato il

rispetto del diritto ad un délai raisonnable

predisponendo le misure organizzative e normative

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In questo senso del resto appare anche orientata la giurisprudenza nazionale: vedi, ad esempio, Corte d’Appello di Torino, decreto 19-25 giugno 2001, Gheri, Giurisprudenza di Merito 2001; Corte d’Appello di Messina, decreto 19 giugno-5 luglio 2001, Rinaudo, Guida al diritto 2001.

adeguate allo scopo, parrebbe consequenziale inferirne la sostanziale neutralità dell’atteggiamento concretamente tenuto dalle autorità giudiziarie, di governo o legislative del Paese che sia incappato nella violazione.

In realtà, l’atteggiamento tenuto dall’autorità giudiziaria non appare “indifferente” rispetto alla lesione del diritto sancito dall’articolo 6 paragrafo 1 CEDU. Da questo punto di vista, tenuto conto del fatto che il maggior numero di ricorsi riguarda processi di natura civilistica, c’è da segnalare una apparente dicotomia tra (parte) della giurisprudenza nazionale e giurisprudenza CEDU. In effetti, trova talora affermazione il concetto secondo il quale, essendo uno dei criteri fondamentali per stabilire se vi è stata violazione del principio della “ragionevole durata” è il comportamento delle parti, il rinvio “concorde”, essendo espressione del principio della “disponibilità” del processo civile, renderebbe il giudice

sostanzialmente “inidoneo” ad assicurare il rispetto di quel diritto189.

Si tratta, per la verità, di orientamento difficilmente condivisibile. Intanto perché l’assenza di “interventismo” da parte del giudice nazionale sembra piuttosto il portato di una –non sempre apprezzabile- prassi giudiziaria che di veri e propri obblighi normativi. In secondo luogo perché, quand’anche la situazione normativa impedisse davvero ogni intervento del giudice sulla tempistica del processo e quindi sulla sua durata in ossequio ad un malinteso principio di disponibilità spinto fino a tali estremi, ciò non eliminerebbe la responsabilità dello Stato per non aver assicurato gli strumenti adeguati ad evitare la violazione del diritto previsto dall’articolo 6 paragrafo 1 CEDU. Da questo punto di vista, per la Corte europea appare sostanzialmente indifferente che il ritardo nella definizione del processo sia dipeso dal mancato esercizio di poteri “d’ordine” del giudice ovvero dal fatto che essi non siano normativamente previsti: in entrambi i

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Vedi, per esempio Corte d’Appello di Torino, decreto 11 luglio-5 settembre 2001, Bertagna, Guida al diritto 2001; Corte d’Appello di Milano, decreto 20-22 giugno 2001, Sbuelz, Danno e responsabilità 2001.

casi, evidentemente, lo Stato si è rivelato incapace di organizzare il proprio ordinamento in modo tale da assicurare il rispetto del principio della “ragionevole durata”, sebbene nel primo la responsabilità ultima sia, per così dire, ascrivibile agli organi giurisdizionali chiamati a rendere “vivente” il diritto di cui all’articolo 6 paragrafo 1 CEDU non potendosi il giudice nazionale ritenere dispensato dal rispetto di quella disposizione pure a fronte del riconoscimento normativo di poteri di iniziativa e di impulso in capo alle parti190, mentre nel secondo è piuttosto riconducibile ad un deficit organizzativo direttamente ascrivibile al legislatore191. Il fatto che la giurisprudenza europea individui comunque lo Stato come ente di riferimento in ordine alla responsabilità di assicurare il rispetto del délai

raisonnable nella celebrazione dei processi, non significa

tuttavia che vi sia rinuncia a verificare l’atteggiamento

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CEDU sentenza 20 febbraio 1991, Vernillo c. Francia, in Rivista Italiana di Diritto internazionale 1991; CEDU sentenza 25 giugno 1987, Capuano c. Italia, in Foro Italiano 1987, con osservazioni di A. Pizzorusso.

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Per la Corte Europea dei diritti dell’uomo lo Stato è tenuto ad assicurare il rispetto del principio della “ragionevole durata” non solo nell’ipotesi di fisiologico funzionamento del sistema giudiziario, ma anche allorquando si manifestino situazioni emergenziali (CEDU 25 giugno 1987, Baggetta c. Italia, in Rivista Italiana di Diritto internazionale 1988; CEDU 13 luglio 1983, Zimmermann c. Svizzera, in Rivista Italiana di Diritto internazionale 1985.

degli organi giudiziari, sulle cui decisioni è poi destinato, in ultima analisi, a “camminare” il principio della “ragionevole durata”.

Da questo punto di vista può anzi segnalarsi una copiosa giurisprudenza che individua precise responsabilità giudiziali proprio nella cattiva gestione dei cosiddetti “tempi morti”, ossia di quegli intervalli di tempo intercorrenti tra un’udienza e un’altra ovvero tra un’attività processuale ed un’altra che non appaiono in alcun modo giustificati da ragioni organizzative, incluse la necessità di studio e approfondimento da parte degli organi giudiziari, o dall’esigenza di assicurare il rispetto di altri diritti tra i quali ovviamente ha un posto assolutamente privilegiato quello del diritto di difesa. Quando esigenze di tal genere non abbiano a manifestarsi, diviene però inaccettabile, a detta della Corte, che possano passare mesi e talora anni senza che il processo avanzi verso la sua conclusione192; e, conviene rimarcarlo, si tratta di conclusioni che valgono tanto per i processi civili che per quelli penali, a proposito dei quali, in effetti,

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non si è mancato di sottolineare, per distinguere tra le varie fasi o gradi del giudizio, che, da un lato, una totale stasi dell’attività “istruttoria” protrattasi per lunghi periodi temporali (tredici o quattordici mesi) è incompatibile con il rispetto del principio della “durata ragionevole”193, dall’altro lato parimenti inaccettabile è

apparsa una inattività processuale di durata biennale194, mentre è stata giudicata di per sé sufficiente ad integrare la violazione del principio in questione la “spendita” di ben quattro anni ed undici mesi per la fissazione e la celebrazione della prima udienza di un giudizio di appello195.

Né, come si è già sopra accennato, la “responsabilità” degli organi giudiziari vien meno allorché i ritardi siano imputabili ai suoi ausiliari e, ciò, sia quando si tratta degli ausiliari che stabilmente la assistono nella celebrazione dei processi, sia quando l’ausilio sia meramente eventuale e collegato alla necessità di affrontare questioni tecniche: in materia di consulente

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CEDU 10 dicembre 1982, Corigliano c. Italia, in Cassazione penale 1983.

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CEDU 7 agosto 1996, Ferrantelli c. Italia, in Giustizia Penale 1997.

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tecnico e di perizia pare infatti assodato che lo svolgimento dell’incarico non possa tradursi in un modo per aggirare il principio della ragionevole durata e, ciò, ancora una volta, sia nell’ipotesi nella quale l’ordinamento mette a disposizione del giudice strumenti idonei a scongiurare i ritardi dell’ausiliario, sia nell’ipotesi in cui tali strumenti non siano previsti196

. In definitiva, può affermarsi che, in base alla giurisprudenza europea, il soggetto individuato come centro di imputazione della violazione del diritto sancito dall’articolo 6 paragrafo 1 della CEDU è comunque lo Stato; è in effetti su quest’ultimo che grava il compito di organizzare un apparato e regole che consentano di rendere al cittadino un servizio in tempi ragionevoli. Si tratta dunque di un dovere che, scaturendo da obblighi internazionalmente assunti, suppone una sorta di “colpa organizzativa” dello Stato-Ente rispetto alla quale appare –in assenza di concause legate a fattori eccezionali- irrilevante il comportamento degli organi chiamati a

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CEDU 25 giugno 1987, Capuano c. Italia, in Foro Italiano 1987, con osservazioni di A. Pizzorusso.

tradurre in pratica quell’obbligo, siano o meno essi rappresentativi dell’ente medesimo. In questa logica, la imputabilità dei comportamenti che danno origine alla violazione del diritto alla ragionevole durata del processo è dato privo di rilievo diretto. Ciò non significa che non possa averlo indirettamente: se l’obbligo grava sullo Stato-Ente e se dunque è questo che deve porre in essere tutte le cautele organizzative e normative idonee a scongiurare la violazione di quell’obbligo, è evidente che tra le varie misure adottabili v’è anche quella di incidere su quelle situazioni (singole) nelle quali la responsabilità del ritardo, che rimane addebitabile all’ente, scaturisce esclusivamente da comportamenti censurabili dei suoi organi. Il vero problema, casomai, diviene quello di appurare quando quella responsabilità è davvero circoscrivibile al comportamento dei singoli operatori e non piuttosto ad un complesso di cause che, non riconducibili a questi ultimi, siano invece suscettibili di essere attribuite a deficit di tipo normativo e/o strutturale.

In linea di massima la prassi giudiziaria nazionale appare conforme alle indicazioni derivanti dalla giurisprudenza europea. Tuttavia non mancano indicazioni di carattere contrario. Si allude, segnatamente, a quelle applicazioni della cd. “legge Pinto” intervenute all’indomani della sua introduzione e che, seguendo uno schema logico che accomuna il ristoro da violazione del diritto alla ragionevole durata al tradizionale risarcimento del danno, pretende che l’attore alleghi e dimostri, oltre al resto, anche la condotta, del giudice, dell’ausiliario o delle altre autorità coinvolte nella procedura, che, colposamente o dolosamente, ha prodotto la violazione del diritto che si assume leso 197 . Si tratta di un orientamento che fortunatamente sembra essere rimasto isolato e che ci appare difficilmente condivisibile per più di una ragione. Per quanto ispirato dall’apprezzabile intento di non esporre le finanze dello Stato ad “aggressioni” di tipo

patrimoniale, infatti, condizionare il ristoro da

“irragionevole ritardo” alla dimostrazione di un

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Corte d’Appello di Torino, decreto 11 luglio- 5 settembre 2001, Bertagna, in Guida al diritto 2001, con nota di G. De Paola.

comportamento doloso o colposo degli organi giudiziari significa infatti, da un lato, introdurre un nesso difficilmente scindibile tra addebito (quantomeno) di tipo disciplinare tra constatazione del ritardo e attribuibilità del medesimo all’organo giudiziario; dall’altro lato, disattendere completamente i risultati ai quali è pervenuta la giurisprudenza europea posto che lo schema

responsabilità dello Stato-Ente per colpa

d’organizzazione risulterebbe frustrato proprio perché condizionato dal concreto atteggiamento di uno dei suoi organi. In definitiva rimane apprezzabile l’opposto

orientamento che continua a far confluire la

responsabilità della violazione dell’obbligo sul soggetto che l’ha assunto, fermo restando, come si diceva, un rilievo indiretto del comportamento degli organi statuali che, tuttavia, andrà necessariamente valutato nella logica del caso per caso, fermo restando l’obbligo per lo Stato, di rimuovere la “causa” anche quando questa sia ascrivibile a colposi o dolosi comportamenti degli operatori.

3. La riforma degli illeciti disciplinari e la loro