• Non ci sono risultati.

Da questo capitolo in poi la nostra attenzione verter`a non pi`u sulle funzioni di Morse in s´e ma quanto pi`u sulle relazioni che esse inducono sulle celle del complesso simpliciale su cui sono definite. Attraverso queste relazioni siamo infatti capaci di definire un campo di vettori discreto V che emuli il gradiente naturalmente definito per funzioni differenziabili su variet`a.

Consideriamo C(f ) l’insieme dei punti critici di f , sia σpuna cella non in C(f ), allora grazie all’Equazione 2.1 esiste una faccia vp−1 tale che f (vp−1) ≥ f (σp) od altrimenti una co-faccia τ tale che f (σp) ≥ f (τp+1). Dunque possiamo con-

siderare due insiemi:

C(f ) = {σp∈ K| σp `e punto critico dif }

P (f ) = {(σp, τp+1) ∈ K × K| f (σp) ≥ f (τp+1), σp < τp+1}

Rappresentiamo allora quest’ultimo insieme con un vettore per ogni coppia (σp, τp+1) in P (f ) che vada da σpa τp+1. In tal modo i due insiemi si riscrivono

come segue:

C(f ) = {σp∈ K| σp non `e n`e punta n`e base di alcun vettore }

P (f ) = {(σp, τp+1) ∈ K × K| esiste un vettore con base σp e punta τp+1}

In questa maniera abbiamo definito una sorta di gradiente discreto di una fun- zione di Morse. Rendiamo pi`u formale questa costruzione:

Consideriamo il gruppo libero generato da tutte le celle orientate di dimensione p in K Cp(M, Z) = n X j ajσjp| σ p j ∈ Kp, aj ∈ Z o .

Su Cp(M, Z) possiamo definire un prodotto scalare in modo tale che date due

celle σ, τ valga < σ, τ >= (−1)ǫse e solo se σ = (−1)ǫτ altrimenti < σ, τ >= 0, dove il (−1)ǫtiene conto dell’orientazione.

Su Cp(M, Z) `e definito inoltre in maniera naturale l’operatore di bordo ∂:

∂ : Cp(M, Z) → Cp−1(M, Z).

Definizione 2.8(Gradiente Discreto). Sia f : K → R una funzione di Morse su M , dove rammentiamo K `e l’insieme delle celle di M . Per ogni cella orientata σp si definisca:

V (σp) = (

(−1)ǫτp+1 se σp `e una cella non critica, τp+1> σp e f (τp+1) ≤ f (σp)

0 altrimenti

Dove ǫ `e tale che < ∂V (σp), σp>= −1.

Estendiamo linearmente V in Cp(M, Z), chiameremo gradiente discreto di f

l’operatore:

V : C∗(M, Z) → C∗−1(M, Z).

In modo simile al caso continuo, dato il gradiente di f possiamo definire il flusso gradiente di f .

Definizione 2.9 (Flusso Gradiente Discreto). Definiamo per ogni cella orien- tata, σ:

Φ(σ) = σ + ∂(V (σ)) + V (∂σ).

Estendiamo linearmente Φ a C∗(M, Z), chiameremo flusso gradiente discreto di

f l’operatore:

Φ : C∗(M, Z) → C∗(M, Z).

I due operatori appena definiti, V e Φ, hanno diverse propriet`a:

Lemma 2.3. Dato M complesso e f funzione di Morse siano costruiti tramite f i due operatori V e Φ allora `e vero che:

1. V `e nilpotente di ordine 2: V2= 0

2. V induce una partizione su K simile a quella che induce l’Equazione 2.1: K = {σ | V (σ) 6= 0} ∪ {σ | σ ∈ Im V } ∪ {σ | σ `e critica}

3. Φ `e un operatore di catene, i.e. commuta con l’operatore di bordo ∂: ∂Φ = Φ∂

4. Per ogni p l’endomorfismo Φ : Cp(M, Z) → Cp(M, Z) rispetto alla base

Kp = {σip}i, `e tale che per la sua matrice Mp(Φ) = (aij) soddisfi le

seguenti:

aii = 1 se e solo se σi `e critica

aij= 1 se e solo se i 6= j e f (σj) < f (σi). (2.2)

aij= 0 altrimenti.

Dimostrazione. Considereremo f funzione di Morse secondo la Definizione 2.3 per semplicit`a.

1. Supponiamo V (v) = σ allora dall’Equazione 2.1 ogni co-faccia τ di σ deve soddisfare f (τ ) > f (σ) e perci`o V (σ) = 0.

2. Dall’Equazione 2.1 abbiamo due possibilit`a:

• ♯{τ > σ | f (σ) = f (τ )} + ♯{v < σ | f (σ) = f (v)} = 0 e dunque σ `e critica

• ♯{τ > σ | f (σ) = f (τ )} + ♯{v < σ | f (σ) = f (v)} = 1 e perci`o o V (σ) 6= 0 o σ ∈ Im (V )

3. Deriva da un semplice conto:

Φ(∂) = ∂ + V (∂2) + ∂V (∂) = = ∂ + 0 + ∂V (∂) = = ∂ + ∂2V + ∂V (∂) = = ∂(1 + V (∂) + ∂V ) = ∂Φ dove abbiamo utilizzato che ∂2= 0.

4. Possiamo dividere le possibilit`a: • σ `e critica, dunque V (σ) = 0

Φ(σ) = σ +X

v<σ

< ∂σ, v > V (v).

σ `e critica dunque se ˜σ = V (v) 6= 0 allora ˜σ 6= σ. Ora se (v, ˜σ) `e una coppia in P (f ), avremo che σ e ˜σ sono due co-facce di v dunque l’Equazione 2.1 ci dice che f (˜σ) = f (v) < f (σ).

• σ ∈ Im V , perci`o V (σ) = 0 Φ(σ) = σ +X

˜ v<σ

< ∂σ, ˜v > V (˜v).

Nella sommatoria avremo un v < σ tale che V (v) = σ, e dunque < ∂σ, v > V (v) = −σ. Per ˜v < σ diverso da v tale che 0 6= ˜σ = V (˜v) dall’Equazione 2.1 discende che f (˜σ) = f (v) < f (σ). Dunque se riscriviamo Φ(σ) comeP

˜

σaσ˜σ otteniamo che:˜

aσ˜ 6= 0 se e solo se f (˜σ) < f (σ).

• Infine possiamo avere che V (σ) = − < ∂τ, σ > τ 6= 0, dunque per ogni v < σ o V (v) = 0 o V (v) = ˜σ 6= σ. Poich´e ∂τ = P σ6=˜σ<τ < ˜ σ, ∂τ > ˜σ − σ otteniamo che Φ(σ) =X v<σ < ∂σ, v > V (v)− < ∂τ, σ >X ˜ σ<τ < ˜σ, ∂τ > ˜σ. Dall’Equazione 2.1 deriva che se ˜σ < τ allora f (˜σ) < f (τ ) = f (σ).

Supponiamo ora di percorrere i vettori di V , in maniera da formare una sequenza σ1, τ1, σ2, . . . , τn−1, σn, dove ogni (σi, τi) `e una coppia in P (f ), e

σi+1< τi. Chiameremo la sequenza delle p-celle percorse γ = σ1. . . σncammino

di p-celle da σ1 a σn.

Possiamo dunque enunciare un’altra propriet`a di V :

Lemma 2.4. Data f funzione di Morse su M complesso allora il gradiente discreto V di f non possiede cammini chiusi, i.e. tali che σn = σ1.

Dimostrazione. Consideriamo f funzione di Morse secondo la Definizione 2.3. Sappiamo che ogni (σi, τi) `e una coppia in P (f ) segue che f (τi) = f (σi) inoltre

dall’Equazione 2.1 abbiamo che ogni faccia ˜σ di τidiversa da σi ha valore f (˜σ)

minore di f (τi). Dunque unendo queste due informazioni possiamo costruire

questa sequenza di disequazioni:

f (σn) < f (τn−1) = f (σn−1) < · · · < f (σ2) < f (τ1) = f (σ1).

Perci`o f (σn) < f (σ1) che implica σn6= σ1.

Ci occuperemo ora di mostrare come tramite la Definizione 2.1 e la Definizione 2.3 otteniamo un equivalente Teoria di Morse discreta.

Consideriamo le due funzioni f ed f + 1, dove (f + 1)(σ) = f (σ) + 1. `E facile vedere che gli insiemi C(f ) ed C(f + 1) coincidono cos`ı come i due insiemi P (f ) ed P (f + 1). Dunque f ed f + 1 definiscono un identico gradiente V e di con- seguenza lo stesso Φ. Pi`u in generale diremo che due funzioni di Morse sono equivalenti se definiscono lo stesso gradiente V . Utilizziamo questa notazione perch´e `e tramite V e Φ che otteniamo i risultati della Teoria di Morse discreta, perci`o se due funzioni di Morse definiscono il medesimo V e dunque il medesimo Φ allora i risultati che otteniamo sono identici.

Mostreremo perci`o come sia possibile costruire una funzione di Morse secondo la Definizione 2.1 partendo da una funzione di Morse equivalente secondo la Definizione 2.3 mantenendo invariati gli insiemi C(f ) e P (f ) e dunque V e il viceversa.

Una funzione di Morse secondo la Definizione 2.3 `e per definizione una funzione di Morse per la Definizione 2.1. Il caso inverso invece necessit`a di pi`u attenzione. Lemma 2.5. Sia f una funzione di Morse secondo la Definizione 2.1 allo- ra `e possibile costruire g, una funzione di Morse secondo la Definizione 2.3, equivalente ad f .

Dimostrazione. Per ogni p indicizziamo Kpin modo tale che se Kp= {σ1, . . . , σsp}

allora:

• σ1, . . . , σkp sono p-celle tali che per ogni i = 1, . . . , kp esiste vji ∈ Kp−1

faccia di σi tale che (vji, σi) ∈ P (f );

• σkp+1, . . . , σtp sono p-celle critiche;

• σtp+1, . . . , σsp sono p-celle tali che per ogni i = tp+ 1, . . . , sp esiste τji ∈

Kp+1 co-faccia di σi tale che (σi, τji) ∈ P (f ).

Posto cp−1=Pk=0,...,p−1sk, definiamo dunque la funzione g:

g(σpi) = ( g(vp−1ji ) se (v p−1 ji , σ p i) ∈ P (g) cp−1+ i altrimenti

Si noti che per ogni σp critica abbiamo che g(σp) < cp ed inoltre che per ogni

cella σp `e vero che g(σp) > c

p−2 poich´e:

• Se non esiste vp−1 faccia di σp tale che (vp−1, σp) ∈ P (g) allora g(σp) >

• Se invece esiste vp−1faccia di σptale che (vp−1, σp) ∈ P (g) allora dalle pro-

priet`a di f otteniamo che vp−1non possiede facce sp−2tali che (sp−2, vp−1) ∈

P (g) e dunque g(σp) = g(vp−1) > c p−2.

Mostriamo dunque che g `e una funzione di Morse in accordo con la Definizione 2.3.

1. Se σp < τp+1 allora g(σp) ≤ g(τp+1)

Supponiamo che σp sia critica e ˜σp sia un’altra faccia di τp+1.

• Se (˜σp, τp+1) ∈ P (g) allora g(σp) < g(˜σp) = g(τp+1).

• Supponiamo (σp, τp+1) ∈ P (g) allora g(σp) = g(τp+1).

• Se esiste vp−1< σptale che (vp−1, σp) ∈ P (g) allora g(σp) = g(vp−1) <

cp−1< g(τp+1).

2. g−1(c) ha cardinalit`a al massimo 2 per ogni c ∈ Z.

In ogni Kp ogni cella ha valore differente dunque l’unica possibilit`a `e che

esistano tre celle vp−1 < σp < τp+1 con stesso valore, questo per`o im-

plicherebbe per la costruzione di g che sia (vp−1, σp) che (σp, τp+1) sono in

P (g) che a sua volta implica f (τp+1) ≤ f (σp) ≤ f (vp−1) in contraddizione

con l’Equazione 2.1.

3. Se g(σ) = g(τ ) allora o σ < τ o τ < σ.

Se g(σ) = g(τ ) allora o (σ, τ ) ∈ P (g) o (τ, σ) ∈ P (g), questo implica dalla definizione di P (g) che o σ < τ o τ < σ.

Dunque g `e una funzione di Morse per la Definizione 2.3, rimane da verificare che sia equivalente ad f . Ricordiamo che C(g) = {σ|g−1(g(σ)) = σ} e P (g) = {(σ, τ )|g(σ) = g(τ ), τ > σ}. Dunque dalla costruzione di g otteniamo che P (g) coincide con P (f ) e lo stesso accade per C(g) ed C(f ).

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