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Il grado della colpa. Colpa lieve e colpa grave dopo la riforma Balduzzi

2. Colpa generica e colpa specifica. Il ruolo delle regole cautelari

2.4 Il grado della colpa. Colpa lieve e colpa grave dopo la riforma Balduzzi

2.4 Il grado della colpa. Colpa lieve e colpa grave dopo la riforma Balduzzi.

Veniamo dunque ad esaminare il secondo profilo estremamente innovativo della Legge Balduzzi: la limitazione della responsabilità penale medica ai soli casi di colpa grave.

Nello studio della colpa grave si sono avvicendati diversi orientamenti giurisprudenziali, che è opportuno riassumere anche per comprendere la grandezza della portata innovativa della legge Balduzzi.

La risalente giurisprudenza di legittimità in tema di colpa nell’esercizio della professione medica presenta profili di comprensione e di indulgenza: si ritiene infatti che la responsabilità penale possa affermarsi solo nei casi di colpa grave, definibile come una macroscopica trasgressione dei più elementari precetti dell’arte medica. Tale orientamento si fonda sull’eventualità, non poco frequente in medicina, che la malattia si manifesti in modo oscuro, equivoco, i cui sintomi possono condurre ad una diagnosi errata, spesso in assenza di criteri diagnostici univoci e tassativi. La colpa rilevante nell’ambito della professione medica si sostanzierà dunque in un errore inaccettabile, che scaturisce o dall’assenza delle conoscenze basilari attinenti alla professione o dal deficit di quel minimo di abilità tecnica nell’uso degli strumenti operatori o, infine, nella mancanza di prudenza o di diligenza, che non devono mai difettare in chi esercita la professione sanitaria. Di conseguenza, dato che nella professione medica l’errore di valutazione è sempre possibile, l’affermazione della colpa professionale troverà fondamento nella condotta del terapeuta, del tutto incompatibile con quel minimo di cognizione e di esperienza che è doveroso e legittimo esigere da chi sia abilitato all’esercizio della professione medica.

In questa risalente giurisprudenza, in linea con una visione paternalistica e permeata da un’incondizionata fiducia nei confronti della classe medica, l’esonero da responsabilità penale diventa dunque la regola e l’imputazione colposa l’eccezione, configurabile soltanto nelle che si configura solo nelle situazioni più gravi ed estreme.

Il dato normativo che suffraga tale orientamento è l’art. 2236 del codice civile, ai sensi del quale “se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d'opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave”.



Il rilievo in ambito penale di tale norma era frutto di opinioni dottrinali imperniate sul principio di sussidiarietà, ad onta del quale l’applicazione del diritto penale costituisce un’extrema ratio. Il rigoroso rispetto di tale principio impedisce di qualificare come antigiuridica in ambito penale una condotta insufficiente a far sorgere una semplice responsabilità civile risarcitoria e risponde dunque ad esigenze di coerenza dell’ordinamento giuridico.

La dottrina ha effettuato importanti analisi e precisazioni, spesso ignorate o tralasciate da parte della giurisprudenza. Innanzitutto, è stato osservato che il testo dell’art 2236 c.c. richiede che le prestazioni eseguite presentino speciali difficoltà tecniche; in secondo luogo, la norma civilistica limita l’addebito per colpa grave al solo difetto di perizia, non estendendo la necessità di tale livello di gravità anche alla prudenza e alla diligenza. Si giunge in tal modo alla conclusione che la sussistenza della colpa medica debba essere affermata con riferimento ai soli casi clinici in cui si rendano necessari interventi particolarmente delicati e complessi, con riverberazioni negative sul rispetto del principio di uguaglianza. Difatti, la questione della conciliabilità di questo indirizzo con il principio d’uguaglianza è stata posta, nell'anno 1973, al vaglio della Corte costituzionale, la quale, recependo sostanzialmente le linee seguite dalla dottrina, ha chiarito che dal combinato disposto degli artt. 589, 42 e 43 c.p. e dall'art. 2236 cod. civ. è ricavabile una particolare disciplina in tema di responsabilità degli esercenti professioni intellettuali, idonea a soddisfare due opposte esigenze: evitare di svilire l’iniziativa del professionista per paura di ingiuste ritorsioni in caso di esito infausto, e quella opposta di non tollerare acriticamente superficiali e sbrigative decisioni o deprecabili inerzie del professionista stesso. La Corte ha dunque dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale per presunta violazione del principio di uguaglianza, sull’assunto che il regime contestato implica esonero o limitazione di responsabilità nei soli casi in cui, per citare la norma civile, sia richiesta la “soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà”. Ciò circoscrive la deroga alla disciplina generale della responsabilità colposa entro l’area della perizia, non investendo anche i profili di diligenza e prudenza, e pertanto appiana i contrasti con l’art. 3 della Costituzione. Tuttavia, la lesione del principio di uguaglianza non risultava, di fatto, scongiurata, poiché l’eccessiva tolleranza di tale visione giurisprudenziale ha creato una situazione di privilegio per la categoria medica, espressione di una ormai obsoleta visione paternalistica della medicina.



Così, a partire dagli anni ottanta del secolo scorso, si è affermata e consolidata una tendenza radicalmente contrapposta, che priva l’art 2236 c.c. di qualsivoglia rilievo in ambito penale ed incentra la valutazione della colpa professionale sulle regole generali in tema di colpa contenute nell'art. 43 c.p.

La gravità della colpa potrà venire eventualmente in rilievo esclusivamente ai fini della graduazione della pena. D’altra parte, la autonomia delle categorie soggettive penalistiche, nonché il categorico divieto di analogia che costituisce uno dei pilastri portanti del diritto penale, non potevano tollerare la trasposizione in ambito penale di una norma prettamente civilistica. A sostegno di questa considerazione depone anche il dato codicistico. In particolare, l’art. 185 c.p. dispone che “ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui”. E’ possibile notare, dunque, che è la responsabilità civile a derivare logicamente dalla commissione di un reato, ed invertire tale logica consequenzialità significherebbe riesumare quella concezione ormai superata che rinviene nel sistema penale una finalità meramente repressiva e sanzionatoria.

Tuttavia, la giurisprudenza non rinuncia in toto al richiamo all’art. 2236 c.c.: pur negando la sua diretta applicabilità nell’ordinamento penale, la Suprema Corte ha affermato che la norma civilistica può essere presa in considerazione anche in tema di colpa professionale del medico, quando il caso specifico oggetto di esame imponga la soluzione di problemi di specifica difficoltà. La norma civilistica assume così, in ambito penale, i connotati di regola di esperienza cui il giudice possa riferirsi nel valutare l’addebito di imperizia.

Questa rivisitazione dell’art. 2236 c.c. riveste una particolare importanza, poiché la sentenza in esame individua le circostanze che per la loro complessità rendono legittima una valutazione meno rigorosa della condotta del medico: da un lato, la presenza di novità tecnico-scientifiche; e dall’altro (aspetto mai prima enucleato esplicitamente) le situazioni emergenziali, caratterizzate da quella impellenza ed imprevedibilità che può rendere difficili anche operazioni semplici e di routine. Sono anche le contingenze del caso concreto a determinare, dunque, la concreta esigibilità della condotta astrattamente doverosa .

 Cass. Pen., Sez. IV, sent. n. 39592 del 21 giugno 2007.

 In una pronuncia della Cass. Pen., Sez. IV, sent. n. 16328 del 5 aprile 2011 si è evidenziato che una attenta e prudente analisi della realtà di ciascun caso può consentire di cogliere i casi nei quali vi è una particolare difficoltà della diagnosi, sovente accresciuta dall’urgenza; e di distinguere tale situazione da



In un’altra pronuncia ci si è invece concentrati sulla valutazione dell’elemento soggettivo, nella quale non si può non tener conto del contesto in cui la condotta è stata posta in essere. Nel caso di specie tale principio è stato affermato in riferimento al settore psichiatrico: l’episodio concreto vedeva protagonista un paziente ricoverato in una casa di cura, affetto da una grave patologia psichiatrica che, presumibilmente e verosimilmente, lasciava percepire il palpabile rischio di suicidio. La Suprema Corte ha osservato che nei contesti di particolare complessità, come quello psichiatrico, è riscontrabile un’area irremovibile di rischio consentito, rendendo estremamente labile la linea di demarcazione tra il lecito e l’illecito. La situazione in cui lo psichiatra si trova ad operare è dunque inevitabilmente incerta, e di tale incertezza è necessario prendere atto nel valutare la colpa: l’esistenza di una posizione di garanzia non è, di certo, da sola sufficiente a fondare l’imputazione. E’ altrettanto vero che, in questi particolari frangenti, ad essere chiamato a tracciare la linea di confine tra il rischio consentito e la condotta illecita è proprio il giudice, che viene a trovarsi, come detto nella sentenza, in una situazione “molto imbarazzante”: in tali contesti è infatti rimesso al giudice di ricorrere ad un metro di giudizio informato su particolari livelli di cautela e di prudente discernimento, dovendo trattare casi relativi ad un soggetto, come lo psichiatra, che gestisce un’area di rischio complessa e non analiticamente delimitata. Da questo punto di vista, si è concluso, l’art. 2236 cod. civ. “non è che la traduzione normativa di una regola logica ed esperienziale che sta nell’ordine stesso delle cose”. In breve, quindi, il parametro sulla base del quale condurre l’apprezzamento della colpa del terapeuta è la difficoltà tecnico-scientifica dell’intervento effettuato, nonché il contesto in cui esso si è attuato.

La speranza è che questo atteggiamento rinnovato della giurisprudenza possa essere utile ad approcciarsi in maniera più cauta e critica ai casi più complessi e di difficile risoluzione, nei quali non di rado si trova ad operare il medico psichiatra.

quelle in cui, invece, il medico è malaccorto, non si adopera per fronteggiare adeguatamente l’urgenza o tiene comportamenti semplicemente omissivi, tanto più quando la sua specializzazione gli impone di agire tempestivamente proprio in urgenza. E’ stata quindi confermata la sentenza assolutoria di merito che aveva compiuto una ponderazione basata sull’ambiguità della sintomatologia e dell’esito degli esami ematochimici, nonché sulla necessità di avviare con prontezza il paziente alla struttura sanitaria che, nella situazione data, appariva ragionevolmente dotata delle competenze ed attrezzature più adeguate in relazione alla prospettata patologia neurologica.

 

Le considerazioni così esposte consentono di rinvenire nella colpa grave il mezzo concettuale idoneo a valorizzare l’elemento più squisitamente soggettivo della colpa nella formulazione del giudizio di responsabilità.

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