• Non ci sono risultati.

Perché l’instabilità teorica dell’immagine iconica e le ambiguità che caratterizzano il tentativo di legittimare da un punto di vista teolo- gico il culto delle immagini sacre si trasformano nell’VIII-IX secolo a Bisanzio in una vera e propria guerra? Il fatto che tante persone abbia- no subìto la persecuzione per difendere le immagini sacre non sarebbe comprensibile se la questione dell’icona non si fosse caricata a questo punto di una costellazione di significati tale da trasformare un tema apparentemente secondario in una questione di vita o di morte per la Chiesa e per l’Impero.

Analizzando lo sviluppo del dibattito nei primi sette secoli ab- biamo visto come la nozione di immagine non possa essere separata dall’intero impianto teologico che il cristianesimo si dà per rendere ra- gione della propria fede. La nozione di eikon serve nientemeno che a esprimere il rapporto che lega il Padre e il Figlio nella teologia trinita- ria e quindi è un concetto fondamentale nella comprensione del dog- ma cristiano. Tuttavia questa centralità non sarebbe sufficiente a giu- stificare un effetto politico-sociale così ampio come quello che si regi- stra nel periodo dell’iconoclastia. Che cosa successe di diverso in que- sto caso? Un’ipotesi interpretativa interessante è quella proposta da Mondzain, la quale sottolinea come la particolarità dell’iconoclasmo stia nel fatto che la discussione sulla natura dell’immagine sacra e sul suo significato all’interno del sistema teologico si legano strettamente al problema della simbolizzazione del potere e al governo delle forme visibili della comunità.1L’icona diventa l’argomento che catalizza lo scontro tra il basileus che pretende di essere il perfetto “imitatore” di Cristo e la Chiesa che gestisce in modo autonomo l’“imitazione” attra- verso il controllo che esercita sull’icona.2Se la carne del Logos è carne visibile, la sua apparizione tocca tutto ciò che è visibile: tocca l’e- conomia generale del cristianesimo, quindi le forme della concretezza in cui l’uomo si esprime attraverso i simboli visivi e tocca l’ammi- nistrazione dell’Impero che su questi simboli vuole avere l’egemonia. Non bisogna dimenticare che l’iconoclastia si origina nella corte im-

periale ed è l’imperatore il primo fautore della distruzione delle icone: questo significa evidentemente che nella raffigurazione non è in gioco soltanto l’influenza sull’immaginario religioso, ma anche il controllo dell’immaginario politico.

Dal punto di vista intellettuale, l’iconoclasmo non è tanto una ge- nerica guerra contro le immagini, ma può essere definita, usando un’e- spressione di Serge Gruzinski coniata per descrivere la lotta all’idolatria durante la conquista del Messico, una “guerra delle immagini”3, in cui entrano in competizione due concezioni del visivo e del suo controllo pubblico. Gli iconoclasti infatti non si scagliano genericamente contro tutte le rappresentazioni pittoriche, ma distruggono una precisa catego- ria di immagini: le icone di Cristo, della Vergine e dei Santi che, come abbiamo visto nel capitolo precedente, entrando nel sistema simbolico pubblico attraverso il culto, si erano progressivamente connotate come luoghi di comunicazione tra l’umano e il divino. Essi accettano invece le immagini decorative, quali piante e animali, con cui abbelliscono an- che luoghi di culto. Gli imperatori iconoclasti poi non disdegnano affat- to di farsi ritrarre in immagine e anzi favoriscono il culto tradizionale della propria effigie.4

Lo scontro quindi non verte sulla generica legittimità delle im- magini, ma sulla fabbricazione e il culto di determinate raffigurazioni: in lotta tra loro entrano due diverse concezioni della visibilità immagi- nale, del suo senso teologico e della sua valenza filosofico-politica. I distruttori delle icone sostengono che non può esserci immagine di Cristo e dei Santi perché la rappresentazione pittorica non riesce a ren- dere totalmente presente il prototipo rappresentato. Essi quindi rifiuta- no le immagini religiose con un carattere iconico, mentre accettano le immagini decorative in quanto queste ultime non hanno pretese di tra- scendenza, ma si limitano a esibire una realtà che non ha particolari si- gnificati spirituali, e favoriscono le immagini politiche perché sono funzionali alla trasmissione visiva del potere. Gli iconofili al contrario affermano che l’immagine può avere una trascendenza simbolica, quin- di può rendere presente il Prototipo, senza con questo pretendere che questa presenza sia totale ed esaurisca la realtà divina.

L’obiettivo di questo capitolo e del successivo sarà quindi non tanto di ricostruire il contesto storico dello scontro iconoclastico (un periodo peraltro particolarmente complesso e su cui le fonti sono scar- se, unilaterali e difficili da interpretare), ma di far emergere le diverse concezioni che i due partiti avversi hanno della natura dell’immagine e del suo significato nella simbolica pubblica. Cercheremo infatti di mostrare come il senso politico e teologico dello scontro trovi uno dei

suoi luoghi di chiarimento proprio nella teoria dell’immagine e nella diversa comprensione della dimensione immaginale della realtà che le due parti sviluppano.

Innanzitutto analizzeremo la posizione degli iconoclasti che di- struggono le immagini non perché rifiutano la rappresentazione visiva in sé, ma perché ritengono che non si possa concepire alcuna continui- tà tra la raffigurazione visibile e la Prima Immagine, e che quindi la raffigurazione non possa avere una qualità iconica. Poi ci soffermere- mo sulle teorie iconofile che invece, per legittimare l’icona e il suo culto, elaborano una nozione dell’immagine che include appunto que- sta qualità. Certo non potremo fare a meno di richiamare alcuni aspetti storici del movimento iconoclastico, perché l’elaborazione dottrinale si intreccia strettamente alle modalità fattuali con le quali si sviluppa lo scontro5; tuttavia l’iconoclastia bizantina ci interessa innanzitutto per il suo valore emblematico: è in questo scontro infatti che la rifles- sione sull’icona raggiunge l’interrogazione originaria sul senso del- l’immagine cristiana e sul perenne conflitto che in essa si consuma tra la dimensione iconica e quella idolatrica. Per entrambe le parti l’im- magine dell’altro è un “idolo”: gli iconoclasti accusano infatti gli av- versari di voler rappresentare l’irrapresentabile natura divina di Cristo e così facendo di cadere nell’idolatria; i difensori dell’icona accusano a loro volta l’imperatore iconoclasta di essere un “nuovo giudeo” che rievocando il senso letterale del divieto anticotestamentario dimostra di essere un idolatra perché non sa distinguere l’idolo dall’icona.6

Ora, in questa querelle di grande portata speculativa esce vincitri- ce la potenza simbolica dell’immagine tout court, proprio in quanto es- sa riesce ad assumere in sé il senso del divieto anticotestamentario e a farlo diventare la posta in gioco strategica per esprimere la potenza dell’immagine e il suo limite. È per questo che ciò che i bizantini chia- meranno il “trionfo dell’ortodossia” può essere considerato un “bari- centro ineludibile”7anche per la discussione contemporanea sullo statu- to del visivo, non solo in quanto determina il corso della storia successi- va, ma anche perché offre alla cultura europea uno strumento per argi- nare il potere dell’immagine e per reagire criticamente alle immagini del potere.

1. La crisi iconoclastica e i risvolti teologico-politici

della cristologia

La storiografia sulla crisi iconoclastica è stata per lungo tempo condizionata dalla convinzione secondo la quale le motivazioni reli-

giose dello scontro sulle immagini sarebbero state in realtà secondarie e puramente funzionali alla lotta sociale. Suscita un certo stupore ve- dere come fino ad anni recenti la maggioranza degli interpreti, trovan- dosi di fronte a un dibattito teologico di così ampia portata da aver sconvolto l’Impero Romano d’Oriente per più di cento anni, abbia preferito supporre che la querelle iconoclastica fosse soltanto un pre- testo e nascondesse problemi di diversa natura che nulla avevano a che vedere con la teologia cristiana. Ahrweiler rappresenta in modo elo- quente questa posizione quando afferma ancora nel 1975:

Il nuovo orientamento politico ed ideologico domina il periodo che va dalla fine dell’VIII secolo fino alla metà del IX secolo: que- sto periodo è conosciuto sotto il nome ingannevole di “iconocla- smo”, in realtà il dibattito sulle immagini non costituisce a nostro avviso che un aspetto esteriore, direi anche un semplice pretesto dei mutamenti e degli sconvolgimenti profondi che hanno messo alla prova l’Impero Bizantino, il suo Stato, la sua Chiesa e la sua società per più di un secolo.8

Eppure già nel 1939 Georg Ostrogorsky segnalava lo strabismo insito in questo tipo di interpretazione, individuando la causa dell’er- rore nella difficoltà che gli interpreti moderni hanno a pensare che questioni riguardanti il culto religioso possano divenire oggetto di una lotta mortale. E così,

in opposizione a tutte le testimonianze delle fonti, l’iconoclasmo fu spiegato come un movimento di riforma sociale. Laddove i dati delle fonti contraddicevano questa spiegazione, essi furono scarta- ti con un sovrano disprezzo e dove mancavano dei pezzi a questa costruzione, furono inventati.9

Certamente nello scontro iconoclastico si mescolarono fattori politici relativi al delicato problema delle relazioni tra Chiesa e Im- pero: in gioco era il rapporto con i monasteri, grandi proprietari e grandi produttori di immagini, nonché principali beneficiari della lo- ro venerazione. La moltitudine di uomini che abbracciavano la vita monastica sottraeva braccia all’agricoltura, soldati all’esercito e fun- zionari ai servizi pubblici e minacciava il controllo sull’educazio- ne.10Era poi fonte di problemi lo scontro tra centro e territori perife- rici dove il centralismo imperiale era diretto contro le strutture muni- cipali fondate sul valore civile dei santi protettori delle città venerati nelle loro icone. Secondario non deve essere infine stato il continuo

confronto ideologico che i bizantini si trovarono ad avere con l’Islam dopo la conquista araba di Palestina, Siria ed Egitto. Sia il cristianesi- mo sia l’Islam avevano la pretesa di essere religioni universali e nella guerra psicologica gli arabi non mancarono di accusare i bizantini di idolatria, proprio per il loro culto delle immagini. A essa in qualche modo reagirono gli imperatori di origine orientale dell’VIII secolo che si posero come obiettivo di purificare il cristianesimo per meglio far fronte alla sfida dell’Islam.11

La presenza di questi fattori politico-sociali non deve però met- tere in secondo piano il fatto che l’iconoclasmo fu uno scontro sulle immagini religiose. Il significato politico può essere meglio compreso se lo si contestualizza in un’interpretazione che tenga in conto anche del senso che la religione e il sacro avevano per un bizantino dell’VIII secolo.12La questione seria da risolvere è capire perché, in un contesto politicamente intricato come questo, fu proprio il problema delle im- magini a condensare lo scontro teologico trasformandolo in scontro sociale. Abbiamo già segnalato l’interesse che da questo punto di vista viene ad avere la tesi di Mondzain che si dà come primo obiettivo pro- prio quello di comprendere l’orizzonte culturale che rese politico uno scontro teologico. Secondo la studiosa francese questo fu possibile perché il problema in gioco nell’icona era legato «agli effetti della ge- nerale simbolizzazione e quindi anche agli effetti politici»13della con- cezione cristiana dell’immagine. Tale intreccio risulta evidente, se- condo Mondzain, se si considera la centralità del concetto di economia [oikonomia] nei documenti pervenutici della lotta iconoclastica. Con il termine oikonomia (che già i Padri greci distinguevano da theologia, come discorso su Dio in sé) si indica la relazione che Dio instaura con l’uomo e con il mondo attraverso la creazione e l’incarnazione.14Poi- ché il divino non è chiuso su se stesso, ma entra in vivente comunione con la storia umana trasfigurandola, fino ad assumerla nella carne del Logos, la realtà visibile non è altra da Dio, ma vi rimanda come alla propria origine e al proprio compimento. L’icona ha a che fare con l’economia perché si colloca esattamente nello spazio di relazione simbolica tra il visibile e l’invisibile. Per questo i suoi corifei Giovan- ni Damasceno, Niceforo Costantinopolitano e Teodoro Studita ne fon- dano la difesa a partire dalla tesi che eikon e oikonomia sono stretta- mente legati, ricordando a più riprese che chi rifiuta l’icona rifiuta l’economia nella sua globalità, ovvero rifiuta non un aspetto seconda- rio, ma l’assunto fondamentale del cristianesimo espresso dalle parole del quarto Vangelo ho logos sarx egeneto, «il Logos si è fatto carne» (Gv 1,1). Al centro dell’intero dibattito è quindi ancora una volta il

senso da attribuire all’incarnazione: Cristo come prima vera Immagi- ne di Dio non considera un tesoro geloso la sua somiglianza con Dio ma entra nella storia e diventa uomo, cioè diviene immagine dell’u- manità realizzata, nella sua dimensione inestricabilmente individuale e politico-sociale.

Il terreno su cui si svolge lo scontro non è quindi di tipo esteti- co-artistico15; l’iconoclastia non è una condanna dell’arte, né una con- danna della funzione decorativa delle immagini, bensì una prosecu- zione e una dilatazione teologico-politica dei dibattiti cristologici che avevano trovato una loro faticosa formulazione dogmatica nel Concilio di Nicea e in quello di Calcedonia16; ciò spiega la fermezza degli orto- dossi nella difesa dell’icona, nonché la loro intransigenza e disponibilità al sacrificio. A Bisanzio semplicemente si radicalizza, attraverso la que- stione delle immagini, il risvolto antropologico e socio-politico dell’e- conomia cristologica. La formula calcedonese della duplice natura divi- no-umana di Cristo nell’unica persona aveva messo in campo la neces- sità di pensare l’evento cristologico come luogo esemplare e definitivo della generale correlazione ontologica tra umano e divino. Ora, negare la rappresentabilità di Cristo significava rimettere in discussione il pre- supposto ontologico su cui si basava ogni possibile rivelazione monda- na del Dio cristiano, cancellando la dimensione carnale dell’evento cri- stologico e con essa la dimensione sociale e istituzionale della Chiesa. La teologia dell’icona è infatti una teologia della carne, della realtà creaturale al cui centro sta la redenzione e la santificazione della materia tutta, operata dall’incarnazione.17

Che l’origine dello scontro sulle immagini sia di matrice cristo- logica lo mostrano di fatto le fonti canoniche e patristiche. Già alla fi- ne del VII secolo, nel canone 82 del Concilio Quininsesto18, che inau- gura nei documenti ufficiali le discussioni iconologiche di questo pe- riodo, si decreta che Cristo non venga più rappresentato nelle sem- bianze dell’agnello ma «nella sua forma umana», perché questa è la vera carne del Logos e quindi l’unico Volto del Divino. La rappresen- tabilità di Dio si fonda sul fatto che Dio stesso si è fatto visibile agli uomini nella persona di Gesù di Nazareth, quindi essa è da considerarsi una prova dell’incarnazione. Di contro il Concilio di Hiereia19, convo- cato dall’imperatore iconoclasta Costantino V Copronimo, pretende di negare le immagini facendo riferimento proprio ai dibattiti cristolo- gici precedenti. Quando un pittore dipinge un’immagine di Cristo, af- ferma il Concilio, può raffigurare o soltanto la sua umanità separando- la così della sua divinità o insieme l’umanità e la divinità. «Nel primo caso è un nestoriano, nel secondo caso suppone o che la divinità sia

circoscritta dall’umanità, il che è assurdo, o che entrambi siano confu- se, nel qual caso è un monofisita. Insomma in entrambi i casi l’icono- dulia è un’eresia cristologica».20

Come si vede il terreno dello scontro è innanzitutto il senso da da- re alla formula di Calcedonia dal punto di vista teologico. Se Gesù è ve- ro Dio e vero uomo, cioè se nella sua persona umanità e divinità abitano senza separazione né confusione, egli sarà l’unico volto possibile di Dio. Ora, però, rappresentando in un’immagine artificiale il volto di Gesù, che cosa si rappresenta in realtà? La forma concreta di cui si può dare un contorno nell’icona, si limita alla sua natura umana, o si estende anche a quella divina? E come può un’immagine sensibile tracciata su una tavola di legno con semplici colori essere adeguata a una natura in- visibile ed eterna? Può un’immagine priva di vita essere in grado di rap- presentare in modo adeguato questa realtà? È a partire da questi interro- gativi che gli iconoclasti pretendono di giustificare il loro rifiuto delle icone come una forma di fedeltà al dogma cristologico, quindi come una forma più profonda di adesione alla tradizione. E allo stesso tempo è su questo terreno che essi elaborano una particolare concezione della natura dell’immagine e del suo ruolo nella gestione della visibilità. 2. La croce contro l’icona, il segno contro il simbolo

La distruzione, nel 726, dell’icona di Cristo dalla Porta di Bron- zo del Palazzo imperiale, una delle immagini più rappresentative di Bisanzio21e la sua sostituzione con una croce può essere considerato il primo atto pubblico della lotta iconoclastica.22E la presenza o meno di questa icona sulla porta del Palazzo imperiale sarà la testimonianza vi- sibile delle fasi alterne dello scontro fino al definitivo “Trionfo del- l’ortodossia”.

L’iconoclasmo scoppiò sotto il segno della rivalità tra la croce e l’icona. [...] Il trionfo dell’ortodossia si compì sotto il segno della riconciliazione tra croce e icona: l’imperatrice Teodora fece ripri- stinare l’icona di Cristo sulla stessa Porta di Bronzo, ma senza sop- primere la croce installata da Leone III (843). E tra le due date, pressoché al centro, il secondo Concilio di Nicea confessa ciò che l’imperatricee realizzò nell’843: l’icona di Cristo ha diritto allo stesso culto della croce.23

Al di là del valore politico-simbolico della sostituzione operata da Leone III è interessante innanzitutto soffermarsi sull’iscrizione che

l’imperatore fa apporre sotto la croce:

L’Imperatore non può ammettere un’immagine di Cristo senza vo- ce e senza respiro, e la Scrittura per parte sua si oppone alla raffi- gurazione di Cristo attraverso la (sola) natura umana; ecco perché Leone e il suo figlio, il “nuovo” Costantino, tracciano sulla porta del palazzo il segno tre volte beato della croce, gloria dei fedeli.24 L’iscrizione è fortemente istruttiva per comprendere la menta- lità iconoclasta e in essa si comincia a intravedere il senso nuovo che viene ad avere la nozione di immagine artificiale. Innanzitutto appa- re chiaramente in antitesi con quanto era stato definito pochi decenni prima dal Concilio Quininsesto che aveva chiaramente indirizzato le rappresentazioni cristiane verso le immagini del Cristo incarnato, su- perando come insufficienti i segni simbolici dell’agnello e della cro- ce. Nel canone 82 vengono infatti rigettati «i simboli e le allusioni, i typoi e le ombre» e viene invece raccomandata la rappresentazione diretta di Cristo, con i suoi caratteri umani, per fare memoria «della sua vita, della sua Passione e della sua morte salvifica, e della reden- zione del mondo che egli operò»25; qui invece si dice proprio il con- trario e cioè che solo il typos della croce può essere segno di Cristo. La sostituzione delle icone con la croce diventa uno degli indizi più chiari del cambiamento introdotto da Leone III. Agli occhi degli ico- noclasti la croce era legittimata dalla Scrittura e dall’autorità dei Pa- dri, in linea con l’ostilità nei confronti delle immagini dei primi se- coli e nelle mani degli imperatori era dal tempo di Costantino il Grande diventata un segno di vittoria contro i nemici e quindi un po- tente catalizzatore sociale e politico.

Nelle pieghe della contrapposizione tra croce e icona affiora un primo profilo da cui si può comprendere la differente concezione del- l’immagine dei due partiti avversi. Da una parte gli iconoduli, sulla scorta della filosofia antica e dell’elaborazione patristica della nozio- ne di eikon, sanno che l’immagine, pur imitando l’apparenza sensibile di qualcuno o di qualcosa, si distingue da questa nella sua essenza e nella sua natura, perché da una parte ci sono un legno o una parete co-