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II. ERODA E I MIMIAMBI

II.3 I Mimiambi: teatro o letteratura?

II.3 I Mimiambi: teatro o letteratura?

Resta aperta ancora oggi la questione sulla destinazione dei Mimiambi. Le diverse opinioni in merito sono strettamente collegate all’individuazione del precedente letterario più immediato che ciascun critico individua. Chi ha visto nei mimi erodiani i successori di quelli sofroniani, ammette una loro possibile messa in scena, o, meglio, la possibilità che essi fossero stati scritti per essere rappresentati; chi, invece, li pone più vicini a Teocrito ne fa un ulteriore esempio di Buchpoësie, quindi composizioni destinate esclusivamente alla lettura. Mastromarco, nel suo lavoro “Il pubblico di Eronda”[108], rivede le posizioni di molti critici sull’argomento. Parte dall’ipotesi di Legrand[109], il quale sosteneva che i mimiambi potessero essere suscettibili solo di una recitazione monologica, ossia a cura di un solo attore che legge il testo al pubblico; il mezzo di trasmissione prescelto da Eroda, quindi, non sarebbe stato il visivo – auditivo proposto dal teatro, ma solo l’auditivo e il pubblico si sarebbe accontentato di essere semplice ascoltatore. Sulla scorta di Legrand anche Giorgio

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Pasquali[110] nega la recitabilità dei mimi, proponendone una lettura come Buchpoësie. Chi si oppone all’ipotesi della messa in scena, di solito usa come argomentazioni a favore:

l’assenza di azione scenica (più marcata in alcuni mimi), l’eccessiva frammentarietà, la presenza di troppi attori sulla scena (non giustificata dalla brevità del componimento), i cambiamenti di scena in alcuni mimi. Pasquali, inoltre, si sofferma sulla difficoltà di distinguere la distribuzione delle battute in alcuni mimi, fatto che renderebbe impossibile la reale messa in scena. Legrand reputa che non sia credibile che Eroda “on ait pris la peine d’aménager un cadre pour y jouer des pièces d’une centaine de vers”[111]; si riferisce, in particolare, al mimo IV, il quale per soli 95 versi comporterebbe una messa in scena davvero impegnativa, con la presenza di statue, decori, quadri e tutte le opere d’arte presenti nell’Asclepeion. Per motivi simili non è plausibile la presenza in scena di ben sette attori (di cui solo quattro parlanti) nel mimo VII, per 129 versi. In altri mimi, poi, l’azione risulterebbe frammentaria o incongruente, come dimostrerebbe la scena ai versi 81-82 del I mimiambo in cui, mentre Tracia esegue l’ordine di portare un bicchiere di vino, le due protagoniste restano in silenzio (cosa impensabile per Gillide che non spreca certo il suo tempo). Queste argomentazioni, così dettagliate, non sono sembrate, tuttavia, totalmente convincenti a Mastromarco e neanche agli stessi sostenitori della tesi monologica, che, pur ammettendola come più probabile, non prendono posizioni nette[112]. Lo stesso Pasquali osserva, ad esempio, sulla frammentarietà che “in una composizione così ristretta l’azione non può svolgersi per intero, ma i capi del filo devono necessariamente pendere da una parte e dall’altra. Ogni mimo è per sua natura una scenetta, cioè un frammento.”[113] La brevità, quindi, di per sé, non poteva costituire un impedimento alla rappresentazione, perché i singoli componimenti potevano essere portati sulla scena uno dopo l’altro nella stessa occasione, in una sorta di moderno varietà. Mastromarco, a questo punto, procede all’analisi del testo per cercare una soluzione. In un testo pensato per la sola lettura da parte di un attore dovrebbe esserci un sistema di avvertimento dedicato ai destinatari, in Eroda, però, un elemento caratteristico è “l’assenza ovvero la sporadica, casuale presenza di riferimenti espliciti all’ambiente scenico in cui si svolge l’azione”[114]. Ciò sorprenderebbe solo se si trattasse di testi da leggere ad un pubblico di soli uditori, non se si pensa ad una loro

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destinazione teatrale. A ben guardare, poi, certe scene risulterebbero vuote e senza attrattiva se non portate sulla scena, come ad esempio la scena delle frustate al discolo del III mimo o la presenza della prostituta, indicata da Battaro nella foga del suo discorso, che doveva costituire un ‘coup de théâtre’. D’altra parte scene come quelle del IV mimo, con le molte opere d’arte viste e commentate dalle due protagoniste sarebbero risultate complicate su un palcoscenico. Terzaghi è fra quelli che vedono, invece, in questo mimo la prova che i mimiambi furono scritti per essere rappresentati; la descrizione del tempio e dei gruppi statuari non corrisponde, dice il critico, alla realtà archeologica dell’Asclepeion, che Eroda doveva ben conoscere, e, infatti, ai due edifici della realtà si sostituisce l’unico edificio, scelta dettata evidentemente da necessità sceniche[115]. Anche la tesi della rappresentazione teatrale non ha riscosso, però, un successo sicuro. Nairn e Laloy negavano tale possibilità a tutti i mimi, da quelli di Sofrone a Teocrito ad Eroda, adducendo come argomentazioni i cambiamenti di luogo frequenti in alcuni mimi, la presenza di personaggi muti, ma, soprattutto, la rapidità del dialogo che non avrebbe dato il tempo al pubblico di riconoscersi.

Melero aggiunge che, a suo parere, tutti i dettagli sulla scena e nel corso dell’azione sono continuamente introdotti nel testo; e, inoltre, “la división dialógica del contenido en más de un personaje es pura aparencia, ya que no lo divide realmente en discurso – réplica[...] En estas condiciones, la representación escénica se hace superflua, ya que no puede añadir nada que no esté en el texto.”[116] Non bisogna certo cadere negli eccessi di Terzaghi[117] che, nella prefazione alla sua edizione dei Mimiambi, porta come prova l’effettiva messa in scena di alcuni mimi anche da parte di studenti napoletani nel 1921. Più moderato Cataudella che, ricordando la messa in scena di alcuni mimi, chiarisce che non tutti sono effettivamente passibili di realizzazione scenica e che il carattere teatrale, riscontrabile in alcuni mimi, non pertiene alla destinazione originale dell’opera ma solo ad una “felice attitudine”[118] del poeta. Per concludere, è ammissibile che i Mimiambi fossero destinati alla rappresentazioni nelle corti o nelle case delle famiglie più ricche e colte della società ellenistica, come suggerisce Mastromarco, ma è anche possibile una loro contemporanea o alternativa circolazione libraria. Per dirla con Romagnoli: “ogni opera d’arte d’indole drammatica o

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narrativa nasce [...] essenzialmente per la recitazione. [...] Che poi questa realizzazione scenica avvenga o non avvenga è questione esterna e di minima importanza”[119].

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