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I SERVIZI SOCIALI TRA SOLIDARIETÀ, CITTADINANZA E MERCATO

Nel documento Servizi, Solidarietà e Mercato in Europa (pagine 167-200)

Sommario: 1. La nozione di servizio sociale di interesse generale nei documenti

istituzionali (segue) …- 1.1. … e nella giurisprudenza della Corte di giustizia. - 2. Il difficile rapporto tra solidarietà e Unione europea. - 3. Differenze terminologiche e sostanziali tra l’ordinamento europeo e l’ordinamento italiano. - 3.1. Il welfare locale. Problemi di effettività tra affermazione di diritti ed esigibilità delle prestazioni. - 3.2. Due quadri assiologici distanti…ma non troppo! - 4. Accesso ai servizi d’interesse generale ed effettività della cittadinanza europea: portata ed effetti degli articoli 14 Tfue e 36 della Carta dei diritti fondamentali. - 5. Alla ricerca di un bilanciamento tra cittadinanza, mercato e diritti.

1. La nozione di servizio sociale di interesse generale nei documenti

istituzionali…

Quello dei servizi sociali, ai nostri fini, costituisce l’ambito settoriale maggiormente interessante, sia per connessione di materia, sia per interessanti prese di posizione, come quella che chiede di valorizzare la sinergia e non la contrapposizione tra regole del mercato interno e della concorrenza, da un lato, e lavoro e coesione sociale, dall’altro, rovesciando la prospettiva e facendo in modo che si dipani dalla compatibilità delle prime “con gli obblighi di servizio pubblico e non il contrario”243. A titolo meramente esemplificativo, si consideri il settore all’interno del quale rientrano i servizi educativi, di assistenza alla persona e i regimi di sicurezza sociale, il quale ha subìto profonde trasformazioni nel corso del tempo e vede oggi la coesistenza di diversi modelli organizzativi, alcuni preordinati al perseguimento di finalità lucrative, altri con obiettivi esclusivamente sociali244

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Punto 5 della Risoluzione del Parlamento europeo sui servizi sociali di interesse generale del 14 marzo 2007 (2006/2134(INI). In merito cfr. il parere di Menichetti (2008, p. 135), richiamato anche da Gottardi (2010, p. 32).

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Il tema trattato in questo capitolo impone come prima cosa una riflessione sul seguente quesito: esiste (o meglio può esistere) oggi una nozione di servizio sociale a livello europeo, unitariamente considerato, che si possa dire giuridicamente rilevante? Giuridicamente rilevante nel senso che una volta ricondotta a siffatta nozione una determinata attività, ne segua l’applicabilità di una ben definita ed omogenea disciplina di diritto sostanziale con (eventuali) riflessi sul piano della azionabilità245 Nel quadro ordinamentale europeo, caratterizzato da un approccio ancora timido al tema della politica sociale, l’impostazione seguita è quella non tanto dei “servizi sociali”, quanto delle “politiche sociali” volte ad armonizzare le discipline nazionali attraverso la c.d. cross-fertilization tra ordinamenti, nonché attraverso strumenti di soft law, quali il metodo aperto di coordinamento e le best practies, tipici delle cosiddette “competenze complementari”(Menichetti 2006, p. 111).

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La costruzione dei sistemi sociali degli Stati membri è il frutto di valori e tradizioni, propri ad ogni ordinamento giuridico, non sempre ricompresi in specifici cataloghi costituzionali e alle differenti situazioni di partenza in merito all’individuazione dei bisogni da soddisfare, segue una varietà di approcci. La nozione di servizio sociale, come quella di servizio pubblico, è assolutamente relativa e più di un Stato membro neppure l’enumera nella sua tradizione politico-istituzionale.

Nel diritto europeo, i servizi sociali non costituiscono a pieno titolo una categoria giuridica distinta: la nozione corrispondente non è definita nel Trattato, né dal diritto derivato (cfr. dir. 2006/123), ma gli stessi vengono ricompresi nella nozione di servizi di interesse generale, a fianco dei servizi aventi carattere economico. Il sistema naturale di prestazione dei servizi d’interesse generale, come visto nella ricognizione effettuata nel precedente capitolo, è il mercato, che, però, non è detto sia adatto a rispondere alle esigenze e agli obiettivi che perseguono i servizi sociali. Questi ultimi sono qualificati da particolari finalità, quali il

soddisfacimento dei bisogni sociali di gruppi determinati, che per essere raggiunti necessitano in via strumentale della produzione di beni e servizi; conseguentemente, non possono (o non dovrebbero) essere ritenuti attività economiche, ma tutt’al più attività con un orientamento economico246

Benché non esista alcuna precisa definizione e il dibattito tra Istituzioni e parti sociali possa considerarsi ancora in corso, la comunicazione del 2006

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Ma procediamo con ordine: prima della comunicazione del 2006, i servizi sociali non trovavano menzione nei documenti istituzionali, questo poiché si riteneva che, a differenza dei servizi di interesse generale e dei servizi con rilievo economico, non rientrassero nell’ambito di applicazione del diritto europeo

ha individuato grossomodo due categorie di servizi sociali: innanzitutto, i regimi legali e complementari di sicurezza sociale, organizzati in vario modo (organizzazione mutualistica o professionale), che comprendono i principali rischi della vita, quali quelli connessi alla salute, all’invecchiamento, agli infortuni sul lavoro, alla disoccupazione, alla pensionabilità e all’invalidità; in secondo luogo, altri servizi prestati direttamente alla persona quali i servizi di assistenza sociale, i servizi per l’occupazione e la formazione, l’edilizia popolare e le cure a lungo termine.

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L’ampiezza dell’area esclusa dipendeva dalle scelte dei pubblici poteri degli Stati membri, che, in materia di servizi sociali, potevano riservare alla loro competenza interi settori o parte di essi sulla base di una mero atto di qualificazione o assunzione del servizio stesso. In questo senso si parla di “eccezione di servizio sociale” (Menichetti 2006, p. 116).

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A risultati analoghi, anche se con un’impostazione parzialmente differente, conduce la già vista comunicazione del 2000 che riconosce il

246 Così anche Ferrari (1986, p. 140), secondo cui i servizi sociali «anche se presentano

profili di carattere economico non certo secondari, non sono però innanzitutto un’attività economica».

247 Comunicazione relativa a “I servizi di interesse generale, compresi i servizi sociali di

interesse generale: un nuovo impegno europeo” (COM)

ruolo fondante dei servizi privi di rilievo economico per l’affermazione del modello sociale europeo, facendo discendere da tale constatazione la conseguenza che «le norme relative al mercato interno e alla concorrenza non si applicano generalmente alle attività non economiche e non si applicano, pertanto, neppure ai servizi d’interesse generale nella misura in cui essi siano attività non economiche»249

La distinzione compiuta tra i servizi di interesse economico generale e quelli di interesse generale

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250

Il Libro verde sui servizi di interesse generale del 2003, dopo aver individuato le caratteristiche proprie dei servizi di interesse economico generale (universalità, continuità, qualità del servizio, accessibilità delle tariffe, tutela degli utenti e dei consumatori, in altre parole i c.d. obblighi di servizio pubblico), espressamente afferma che tali principi e regole «potrebbero anche applicarsi ai servizi sociali», individuando a tale scopo, due strumenti.

apre la strada alla rivendicazione da parte delle Istituzioni europee di nuovi spazi di intervento.

Da un lato, la «segmentazione» di una singola attività in diverse «sub- attività», cosicché in una medesima attività vi è la possibilità di rintracciare quella rilevanza economica, che, considerando unitariamente il servizio, sarebbe stata tradizionalmente esclusa. Una stessa attività potrebbe pertanto essere assoggettata alla disciplina derogatoria dei servizi di interesse economico generale solo per una parte e non per l’altra, stante la non rilevanza economica. In questo quadro si coglie l’importanza della nozione di “natura economica” del servizio, che il Libro verde individua nella “presenza di un mercato” in quel determinato settore (o segmento) di attività.

Dall’altro, la possibilità di configurare un “mercato a monte” rispetto alla fornitura di determinati servizi, ove le imprese “contrattano” con le autorità pubbliche la fornitura di tali servizi. L’interposizione di un eventuale provvedimento amministrativo di concessione o di affidamento

249 Comunicazione del 2000, cit., p. 28. 250 Ibidem, p. 68.

diretto del servizio a un’unica impresa erogatrice non consentirebbe più quindi di escludere, di per sé, la potenziale configurabilità di un mercato. Il Libro bianco del 12 maggio 2004 mantiene la stessa impostazione, ribadendo l’utilità di sviluppare «un approccio sistematico al fine di identificare e riconoscere le caratteristiche specifiche dei servizi sociali e sanitari di interesse generale e chiarire il quadro nell’ambito del quale essi possano essere gestiti e modernizzati», annunciando allo scopo l’adozione di una comunicazione sul tema.

Solo con la comunicazione del 26 aprile 2006 viene coniata la categoria dei servizi sociali di interesse generale e si riconosce il loro “valore specifico” di attività volte all’applicazione «di diritti fondamentali quali la dignità e l’integrità della persona», nonché i criteri organizzativi che li caratterizzano, tra cui i principi di solidarietà, di globalità, di personalizzazione, l’assenza dello scopo di lucro tipica della economia sociale, il volontariato, il radicamento locale e la partecipazione finanziaria di terzi.

Si assiste, pertanto, al passaggio dalla accezione residuale dei servizi sociali rispetto alla codificata categoria dei servizi di interesse economico generale, a una definizione che colloca entrambe le tipologie di servizi (sociali ed economici) nel genus dei servizi di interesse generale.

La ricognizione che precede fa emergere la già descritta (si veda anche il cap. II) “ambivalenza” della nozione di «servizi di interesse generale» che, da un lato, consente l’emersione ed il riconoscimento di un’area con proprie peculiarità, diversa dai servizi di interesse economico generale, sin qui unica categoria contemplata dal diritto comunitario; dall’altro, costituisce il presupposto per attrarre nell’area di applicazione del diritto comunitario ciò che per sua stessa natura sembrava escluso (servizi sociali).

Si può affermare, pertanto, che i “servizi di interesse generale” sono in realtà “servizi di interesse comunitario” - ora europeo - (Menichetti 2006, p. 131) ai quali si applica, in presenza dei requisiti richiesti dall’art. 106 Tfue, il regime giuridico dei servizi di interesse economico generale (e

perciò il diritto europeo della concorrenza), mentre, ove non sussistano i requisiti dell’art. 106 Tfue, si applicano in ogni caso la libertà di stabilimento (art. 49 Tfue), la libertà di prestazione dei servizi (art. 56 Tfue), nonché i principi di trasparenza, non discriminazione e proporzione.

Il riconoscimento della “diversità” e della “specificità” dei servizi sociali di interesse generale ad opera della menzionata comunicazione del 2006, pertanto, anziché condurre all’esclusione degli stessi dall’ambito di applicazione del diritto europeo, ne profila un regime giuridico completamente incerto: ove risultino ricadute economiche dell’attività, vengono attratti dal regime giuridico dei servizi di interesse economico generale; ove non sussistano tali ricadute, si profila un regime giuridico “ristretto” di matrice europea.

L’avvenuto riconoscimento dei servizi sociali di interesse generale, tuttavia, non chiarisce del tutto i dubbi in materia, lasciando aperte (almeno) tre questioni. Innanzitutto, i contenuti della comunicazione del 2006 vanno confrontati con le pronunce della Corte di giustizia relative alla nozione di attività economica, in parte già esaminata (cap. II, par. 3), per verificarne la compatibilità.

In secondo luogo, non viene specificata l’area di collocazione di rilevanti servizi corrispondenti a diritti sociali fondamentali, non ricompresi nella definizione di servizi sociali di interesse generale, con particolare riguardo ai servizi sanitari.

In terzo luogo, posto che i «servizi sociali di interesse generale non

costituiscono categoria giuridica distinta nell’ambito dei SIG»251

251 COM(2006) 117 def., par. 1.1; con “SIG” si intendono i servizi di interesse generale.

, occorrerà trovare un parametro di raffronto diverso dai servizi di interesse economico generale, unica dimensione prevista dal Trattato, per allargare i confini del diritto di cittadinanza europeo, di cui tali servizi, e la loro corretta fruibilità, costituiscono una componente essenziale. Infine, sulla scorta della nuova base giuridica introdotta dall’art. 14 Tfue,

pare quanto mai fondamentale indagare le possibilità di costruire una categoria autonoma con principi e regole propri.

1.1. … e nella giurisprudenza della Corte di giustizia

In mancanza di atti normativi ad hoc, riflettere sulle possibili modalità di applicazione del diritto europeo ai servizi sociali, presuppone un’approfondita analisi della giurisprudenza della Corte di giustizia.

Fino ad ora non ci sono state pronunce riferibili esclusivamente alla materia assistenziale e, pertanto, i principi giuridici applicabili vanno desunti dalle sentenze che hanno ad oggetto attività previdenziali o socio- sanitarie (intese in senso ampio), settori riconducibili all’ambito dei servizi sociali secondo l’accezione esposta nella comunicazione del 2006. Alla luce delle caratteristiche enunciate dalla Commissione, i profili problematici da indagare sono due, fra loro distinti, ma spesso intrecciati: la qualificazione, come economica o non, dell’attività oggetto dei servizi sociali e la rilevanza della natura no profit dei soggetti che la svolgono. Con straordinaria lungimiranza M. D’Antona (1998, p. 311) ascrive all’armonizzazione “funzionalista”, in quanto rivolta non a tutelare “il lavoro ma la libera concorrenza”, i fenomeni del superamento dei monopoli pubblici e privati e la liberalizzazione dei mercati protetti, volti non a generalizzare le “tutele minime”, ma ad eliminare «disposizioni lavoristiche con effetti limitativi dell’accesso ai mercati» (Gottardi 2010, p. 5).

In merito a questo primo filone giurisprudenziale, la Corte è chiara nell’affermare che le casse previdenziali pubbliche non sono imprese e, quindi, gli artt. 102 e 106 Tfue non trovano applicazione, né il diritto di esclusiva è sindacabile.

Si distinguono però due ipotesi. Se la gestione del sistema previdenziale è qualificata come attività non economica (e i soggetti gestori non- imprese), essa esula dall’ambito di applicazione della normativa

concorrenziale e il monopolio attribuito (o meglio l’obbligo di iscrizione alla cassa) viene considerato legittimo (o meglio insindacabile) ex se. Questa è la posizione espressa nella sentenza CISAL252, concernente il regime di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, che prevede un monopolio a favore dell’Inail253

Va da sé che se il soggetto gestore del regime previdenziale (ad esempio, un fondo pensione di categoria) svolge attività di natura economica

, ente non considerato impresa poiché non svolge attività di natura economica.

254

, deve essere qualificato come impresa. In questi casi, l’obbligo di iscrizione conferisce ex lege all’istituto beneficiario una posizione dominante, la cui illegittimità (valutata alla luce del combinato disposto degli articoli 102 e 106 Tfue) deriva dal fatto che il fondo sia indotto (necessariamente) 255 ad abusarne, poiché non manifestamente in grado di soddisfare la domanda esistente sul mercato256

La stessa misura può comunque essere (e in linea di massima è) considerata legittima, poiché necessaria a consentire l’adempimento di

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252 Corte giust. 22 gennaio 2002, causa C-218/00.

253 Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie

professionali.

254 Cfr. Corte giust. 21 settembre 1999, causa C-67/96, Albany; 12 settembre 2000,

causa C-180/98, Pavlov; 21 settembre 1999, causa C-115/97, Brentjens.

255 Nella sentenza Pavlon, cit., per esempio la Corte conclude che né dagli atti trasmessi

dal giudice a quo, né dalle osservazioni scritte o orali presentate dal Fondo, dai governi che sono intervenuti nel procedimento e dalla Commissione, risulta che il Fondo sarebbe, col semplice esercizio del diritto esclusivo conferitogli, indotto a sfruttare la sua posizione dominante in modo abusivo o che le prestazioni di pensione offerte dal Fondo non corrisponderebbero ai bisogni dei medici specialistici (p. 128).

256 Nella sentenza Albany la Corte, infatti, chiarisce che: «nel caso di specie, va

sottolineato che il regime pensionistico integrativo proposto dal Fondo è basato sulla regola, attualmente in vigore nei Paesi Bassi, per cui tutti i lavoratori che abbiano versato contributi per la durata massima di iscrizione al suddetto regime ottengono una pensione, ivi compresa quella erogata in base alla AOW, pari al 70% dell’ultima retribuzione. Talune imprese del settore potrebbero certo voler garantire ai propri dipendenti un regime pensionistico più ampio rispetto a quello proposto dal Fondo. L’impossibilità per tali imprese di affidare la gestione di un simile regime pensionistico ad un unico assicuratore e la restrizione della concorrenza che ne risulta derivano tuttavia direttamente dal diritto esclusivo conferito al fondo pensione di categoria» (pp. 96 e 97).

una specifica missione sociale e antieconomica di interesse generale257

Se la Corte, per le ragioni suesposte, arriva nella maggioranza dei casi ad escludere in via di principio l’applicabilità della normativa concorrenziale, a diverse conclusioni perviene con riguardo all’art. 56 Tfue.

della quale tale fondo sia stato incaricato.

In particolare, nella recente sentenza Kattner258

257 Sempre nella sentenza Albany (pp. 105 e ss.), la Corte sottolinea che il regime

pensionistico in oggetto adempie ad una funzione sociale fondamentale nel sistema pensionistico dei Paesi Bassi a causa dell’importo ridotto della pensione legale, calcolato sulla base del salario minimo legale. Inoltre, il fondo pensione agisce senza scopo di lucro e la relativa attività è fondato sul principio di solidarietà. Detta solidarietà si manifesta attraverso l’obbligo di accettare tutti i lavoratori senza esame medico preliminare, attraverso la continuazione della costituzione della pensione con esonero dal versamento dei contributi in caso di incapacità lavorativa, attraverso l’accollo, da parte del fondo, dei contributi arretrati dovuti dal datore di lavoro in caso di fallimento di quest’ultimo e attraverso l’indicizzazione dell’importo delle pensioni allo scopo di preservarne il valore. Il principio di solidarietà risulta altresì dalla mancanza di equivalenza a titolo individuale tra i contributi versati, che sono contributi medi e indipendenti dai rischi, e le spettanze pensionistiche, che sarebbero determinate tenendo conto di un salario medio. È proprio questa impostazione solidale che indispensabile l’iscrizione obbligatoria al regime pensionistico integrativo. Ora, nel caso in cui venga eliminato il diritto esclusivo del fondo di gestire il regime pensionistico integrativo per tutti i lavoratori di un determinato settore, le imprese aventi alle loro dipendenze personale giovane e in buona salute che svolge attività non pericolose cercherebbero condizioni di assicurazione più vantaggiose presso assicuratori privati. L’uscita progressiva dei rischi “buoni” lascerebbe al fondo pensione di categoria la gestione di una parte crescente di rischi “cattivi”, provocando così un aumento del costo delle pensioni dei lavoratori, e in particolare di quelli delle piccole e medie imprese con personale anziano che svolge attività pericolose, alle quali il fondo non potrebbe più proporre pensioni a costi accettabili. In caso contrario, l’uscita dal fondo dei rischi “buoni” produrrebbe un effetto a spirale negativo che porrebbe a repentaglio l’equilibrio finanziario del regime.

viene valutata la legittimità della normativa tedesca che disciplina il regime di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. Oggetto di sindacato è la compatibilità comunitaria dell’obbligo imposto a tutte le imprese di iscriversi alla specifica cassa previdenziale di categoria (ente pubblico senza scopo di lucro). In altre parole, il giudizio concerne la legittimità del regime di esclusiva, istituito a favore delle casse previdenziali pubbliche, in relazione alla normativa europea e, più nello specifico, con riguardo al combinato disposto degli

ex artt. 82 e 86 Tce, e all’ex art. 49 Tce.

La Corte esclude che gli enti pubblici in oggetto possano considerarsi imprese, e conseguentemente esclude l’applicabilità degli artt. 82 e 86, ma prospetta una potenziale limitazione della libera prestazione dei servizi: parte dei rischi assicurati da ciascuna cassa malattia nell’ambito del regime di assicurazione legale potrebbero essere assicurati anche da compagnie private.

Gli Stati membri hanno piena competenza nell’organizzare i loro sistemi sociali, ma non possono esimersi dal rispetto del diritto europeo, compresa appunto la normativa sulla libera prestazione dei servizi, la cui applicabilità a una situazione di monopolio legale dipende dalla possibilità di individuare la sussistenza di un mercato potenziale di riferimento (mercato relativo alla prestazione appunto di determinati servizi, che possa essere potenzialmente limitata dalla misura nazionale). In questo senso, i giudici di Lussemburgo distinguono due tipologie di rischi che vengono assicurati dalle casse.

Rischi assicurabili anche da compagnie di assicurazioni private (imprese) e rischi che solo soggetti che operano secondo il principio di solidarietà assicurerebbero. In altre parole, secondo la stessa terminologia della Corte, rischi “buoni” e rischi “cattivi”: rischi che il mercato assumerebbe e rischi che il mercato non assumerebbe.

L’obbligo di assicurazione oggetto della pronuncia Kattner limita la libera prestazione transfrontaliera dei servizi legata all’assicurazione dei rischi del primo tipo. In altre parole, limita la possibilità per le società di assicurazione stabilite in altri Stati membri di offrire i propri servizi relativi all’assicurazione per i rischi in questione o per taluni di essi sul mercato del primo Stato membro e, dall’altro, dissuade le imprese stabilite in detto Stato membro, in qualità di destinatarie di tali servizi, dallo stipulare assicurazioni con dette società (p. 77 della sentenza). La Corte riconosce che il regime di cui trattasi contribuisce alla garanzia di un servizio di previdenza sociale di base (universale?), basato sul principio di solidarietà. L’obbligo di iscrizione (anche se potenzialmente incidente sulla libera prestazione dei servizi transfrontalieri) è una misura

necessaria alla garanzia dell’equilibrio finanziario del sistema previdenziale. In altre parole, secondo la Corte la misura può essere giustificata perché risponde ad una ragione imperativa di interesse

Nel documento Servizi, Solidarietà e Mercato in Europa (pagine 167-200)

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