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III LA QUESTIONE DELLA VERITÀ DESCARTES, LULLO E IL METODO

Que nul n’entre ici s’il n’est géomètre1. rectum veritatis iter quaerentes circa nullum obiectum debere occupari, de quo non possit habere certitudinem Arithmeticis et Geometricis demonstrationibus aequalem2.

Nei capitoli precedenti abbiamo esaminato il dibattito di Descartes con la tradizione Scolastica e con lo scetticismo di Montaigne sulla questione della verità. A suggerirci di esplorare e ricostruire questo duplice confronto è stata l’autobiografia intellettuale del

Discours de la méthode, in cui Descartes si cimenta a rappresentare la propria vita «comme en

un tableau, afin que chacun en puisse juger»3. Il racconto della sua formazione presso «l’une

des plus célèbres écoles d’Europe»4, si conclude con la ben nota confessione del fallimento di quel modello di insegnamento, reo di averlo «embarrassé de tant de doutes et d’erreurs»5. L’istruzione ricevuta dagli insegnanti scolastici, uomini tra i più dotti del suo tempo, aveva permesso a Descartes di toccare con mano a che punto fossero giustificate le riflessioni di Montaigne, che si spingevano ad equiparare la vera saggezza ad una sempre più acuta consapevolezza della propria ignoranza. Al termine dei suoi studi presso i Gesuiti, infatti, Descartes non temeva di pronunciare queste parole: «j’avais découvert de plus en plus mon ignorance»6.

Senonché, diversamente da Montaigne, che riconoscerà nella coscienza dell’ignoranza l’ideale di una saggezza pratica sprovvista di verità necessarie e universali, il giovane Descartes, secondo il racconto posteriore del filosofo, sembra già perseguire due ambizioni filosofiche antitetiche ad ogni relativismo e ad ogni scetticismo, poste in rilievo fin dal titolo della sua opera: si tratta di «bien conduire la raison» e di «chercher la vérité dans les sciences»7. Il buon uso della ragione e la ricerca della verità nelle scienze rinviano, come al

1 L’imperativo che si dice Platone avesse fatto scolpire all’entrata della sua Accademia, affinché chiunque

ignorasse la geometria non ne varcasse la soglia, è ripreso da Descartes nella Regula IV: «j’en vins à me demander comment donc il se faisait que jadis les créateurs de la philosophie ne voulussent admettre à l’étude de la sagesse personne qui fut ignorant de la mathématique» (Alquié I, p. 95; AT X, 375).

2 Regula II (AT X, 366).

3 Discours, I (Alquié I, pp. 570-571; AT VI, 4). 4 Discours, I (Alquié I, p. 571; AT VI, 5). 5 Discours, I (Alquié I, p. 571; AT VI, 4). 6 Discours, I (Alquié I, p. 571; AT VI, 5).

7 In modo più preciso conviene dire che, se per Montaigne il buon uso della ragione si esercitava in un’arte della

diffidenza nei confronti di ogni costruzione teorica, per Descartes esso diviene la condizione per intraprendere la ricerca della verità e la riforma generale del sapere.

loro presupposto comune, al tema del metodo cartesiano, che il Discours1 ottempera al compito di presentare, laddove gli Essais posposti (Dioptrique, Météores e Géométrie)2 ne

forniscono delle applicazioni scientifiche. Ora, prima di interrogarci sulla genesi, sulla natura e sulla fecondità pratica del metodo cartesiano, inchiesta essenziale ai fini del nostro studio sulla nozione di verità, ci sembra importante soffermarci brevemente sul dibattito intrattenuto dal filosofo del lume naturale con le «scienze curiose»3.

a) Le «mauvaises doctrines»

Descartes ne fa esplicita menzione nella prima parte del Discours, dopo avere elencato le varie discipline impartitegli dai maestri di La Flèche durante il suo cursus studiorum (lingue, favole, storia, lettura di libri antichi, eloquenza, poesia, matematiche, scritti in cui si parla dei costumi, teologia, filosofia, scienze meccaniche). Si tratta delle cattive dottrine (mauvaises

doctrines4):

Et enfin, pour les mauvaises doctrines, je pensais déjà connaître assez ce qu’elles valaient, pour n’être plus sujet à être trompé, ni par les promesses d’un alchimistes, ni par les prédictions d’un astrologue, ni par les impostures d’un magicien, ni par les artifices ou la vanterie d’aucun de ceux qui font profession de savoir plus qu’ils ne savent5.

Nel formulare un giudizio di profonda insoddisfazione nei confronti del sapere appreso negli anni della sua formazione intellettuale, incapace di consegnargli il mezzo per «acquérir une connaissance claire et assurée de tout ce qui est utile à la vie»6, Descartes non omette, dunque, un riferimento diretto alle scienze curiose. Per quanto il loro influsso possa essere

1 Descartes a Mersenne, marzo 1637: «je ne mets pas Traité de la Méthode, mais Discours de la Méthode, ce qui

est le même que Préface ou Avis touchant la Méthode, pour montrer que je n’ai pas dessein de l’enseigner, mais seulement d’en parler» (Alquié I, pp. 521-522; AT I, 349).

2 Gli Essais del metodo la Dioptrique, le Météores e la Géométrie costituiscono, insieme con il Discours, un

blocco unico, essendo i Saggi un’esposizione pratica del metodo e il Discours una presentazione autobiografica ed epistemologica degli Essais.

3 Discours, I: «ne m’étant pas contenté des sciences qu’on nous enseignait, j’avais parcouru tous les livres,

traitant de celles qu’on estime les plus curieuses et les plus rares qui avaient pu tomber entre mes mains» (Alquié I, pp. 571-572; AT VI, 5). Sin dagli anni della sua formazione intellettuale a La Flèche, Descartes aveva potuto trovare, ad esempio nel libro Magie naturelle di J. B. della Porta (1589, la seconda edizione), insieme con la descrizione scientifica della camera nera, anche vaghe credenze nella “simpatia” o strane regole per far apparire colorata una parete, mediante combinazioni di luci e oli diversi. Ma non va nemmeno trascurato il fatto che l’insegnamento delle matematiche a La Flèche fu affidato, tra il 1612 e il 1616, ad un giovane studioso di scienze occulte, il padre J. François, che potrebbe avere rivelato ai migliori studenti (e dunque anche a Descartes) alcuni principi delle discipline “rare” e “curiose”. Su questo aspetto si veda G. Rodis-Lewis, L’oeuvre de Descartes, cit., I, p. 20 segg.

4 A proposito della qualificazione di «mauvaise» attribuita a queste dottrine, E. Gilson nel suo Commentaire del

Discours scrive: «Ces sciences étaient considérées comme mauvaises parce qu’elles supposent au moins le vice

de superstition chez celui qui les professe, et parfois l’opération du démon. Cf. saint Thomas d’Aquin, Sum.

Theol., II, II, qu. 95, art. 3-7. Beaucoup, même parmi les théologiens, les critiquaient aussi comme des

impostures […]. Le nom même que l’on donnait usuellement à l’or des alchimistes: “aurum sophisticatum” est révélateur du peu de confiance qu’on leur accordait […]» (op. cit., p. 141).

5 Discours, I (Alquié I, p. 576; AT VI, 9). 6 Discours, I (Alquié I, p. 571; AT VI, 4).

considerato abbastanza marginale, e sebbene si tratti di un complesso di fonti per così dire “negative”, cioè apertamente condannate da Descartes in quanto vane e capziose, esse non meritano di essere trascurate all’interno di uno studio che intenda ricostruire, perlomeno in parte, lo sfondo filosofico nel quale matura l’idea cartesiana di verità. Scolastica, scetticismo e scienze curiose concorrono, seppure in modo diverso e come ordini di fattori irriducibili, alla nascita della teoria cartesiana della verità. Del resto, se non conviene ignorare il proposito di «bâtir dans un fond qui est tout à [lui]»1, occorre interpretare questa affermazione di Descartes, non nel senso che il suo pensiero sia una sorta di produzione del tutto pura e spontanea, ma come l’esigenza di un ripensamento generale (o di una presa di distanze radicale) delle dottrine apprese negli anni della sua formazione intellettuale, dottrine giudicate per lo più insoddisfacenti o erronee. Ci è sembrato pertanto opportuno esaminare le ragioni delle critiche rivolte da Descartes alle cattive dottrine, che il Dictionnaire de Furetière definisce in questi termini:

on appelle les sciences curieuses celles qui sont connues de peu de personne, qui ont des secrets particuliers, comme la chimie, une partie de l’optique qui fait voir des choses extraordinaires avec des miroirs et des lunettes, et plusieurs vaines sciences où l’on pense voir l’avenir, comme l’astrologie judiciaire, la chiromancie, la géomancie, et même on y joint la cabale, la magie, etc.

Il giudizio portato sulle «cattive dottrine» tradisce una preoccupazione maggiore che assilla Descartes già a partire dalla sua infanzia: è il timore della possibilità di essere ingannato. Tale timore esprime negativamente ciò che l’esigenza filosofica della ricerca di una sicurezza razionale traduce in senso positivo. Se ingannarsi significa prendere una cosa per un’altra2, o tenere per vere cose false, l’imperativo seguito da Descartes non poteva che essere quello di apprendere a «distinguer le vrai d’avec le faux»3. La prima parte del

Discours, in particolare, evidenzia l’attitudine guardinga di Descartes nei confronti dei

trucchi, delle manipolazioni, degli imbrogli e delle sofisticazioni dei tanti adepti delle scienze curiose. L’avversione per gli alchimisti è espressa in diverse occasioni da Descartes, che stigmatizza la loro pretesa di detenere segreti profondi senza preoccuparsi di portare nessuna credibile dimostrazione. Ma il suo richiamo polemico sembra estendersi più in generale al naturalismo rinascimentale, a quell’atmosfera iniziatica e a quel gusto del mistero legati

1 Discours, II (Alquié I, p. 582; AT VI, 15).

2 Il primo esempio riportato dal Discours (I), sembra attinto dall’ambito dell’alchimia: «il se peut faire que je me

trompe, et ce n’est peut-être qu’un peu de cuivre et de verre que je prends pour de l’or et des diamants» (Alquié I, p. 570; AT VI, 3).

all’insegnamento esoterico dell’ermetismo teologico, astrologico, magico e alchemico che ebbe una larga diffusione in Italia e in Francia a partire dalla seconda metà del XV secolo1.

Ora, se ad ogni pretesa magica2, ad ogni sogno astrologico3, ad ogni impostura spacciata per forza irrazionale, ad ogni ratio occultissima (come gli influssi stellari) addotta per rendere conto dei fenomeni4, ad ogni promessa alchemica di pietre filosofali capaci di tramutare i metalli in oro, ad ogni seduzione per la dottrina rinascimentale dell’armonia macro- microcosmica5 o per i testi ermetici, Descartes si dichiara, nel 1637, integralmente estraneo6,

1 Come ricorda E. Garin: «Intorno al 1460 un frate Leonardo da Pistoia recò dalla Macedonia a Cosimo dei

Medici il “corpus” greco dei libri ermetici, e Cosimo lo dette a tradurre nel ’63 al Ficino. Reso subito anche in Volgare dal ficiniano Tommaso Benci, il testo latino, stampato nel ’71 a Treviso, incontrò un grande favore, e fu trascritto e ristampato spessissimo. Erano dottrine, immagini, aspirazioni che si inserivano molto bene in un’atmosfera un po’ torbida, fatta di sogni magico-astrologici, di occultismo, di amore per l’Oriente misterioso. Si collegarono senza difficoltà con celebri trattazioni arabe di magia cerimoniale e di negromanzia, diffuse sulla fine del medioevo in traduzioni spagnole e latine, come il “diabolico” Picatrix, largamente utilizzato dal Ficino nel terzo libro del De vita. Si intrecceranno più tardi con la cabala: si mescoleranno con reviviscenze di scritti di Raimondo Lullo o a lui attribuiti; si avvolgeranno di un alone mistico. Suoneranno come promessa di poteri soprannaturali, di rivelazioni eccezionali e così via. Non sfuggiranno al loro fascino uomini come il cardinale Niccolò Cusano, Marsilio Ficino, Giovanni Pico della Mirandola, e poi i gruppi francesi del primo Cinquecento con Charles de Bovelles, Lefèvre d’Etaples, Jean Symphorien Champier, per non dire di un “mago” un po’ scettico come Cornelio Agrippa di Nettesheim» (in La cultura del Rinascimento, Padova, 2000 (prima edizione 1964), pp. 101-102. Per Descartes il rifiuto di un sapere ermetico e magico, il cui accesso è privilegio per pochi, si accompagna alla proclamazione di un sapere “pubblico” della scienza, sapere da comunicare e partecipare e, in tal modo, crescere ed arricchirsi.

2 Già nel Rinascimento è in atto l’esigenza di non confondere la magia naturale, intesa come ausilio teorico per

lo studio della natura e della simpatia e antipatia delle cose, dalla negromanzia o magia cerimoniale, concepita come strumento capace di evocare, risvegliare e sfruttare le forze occulte e demoniache delle cose.

3 Uno dei motivi determinanti del mutamento di paradigma provocato dalla nascita della scienza moderna

coincide con la necessità di separare l’astronomia come scienza esatta, dai moti stellari dell’astrologia divinatrice intesa a prevedere gli eventi futuri derivandoli dagli influssi attribuiti alle stelle considerate come divinità astrali.

4 Si tenga presente che molte furono le personalità scientifiche, anche illustri, che tra XVI e XVII secolo non

separavano adeguatamente, e addirittura intrecciavano le loro osservazioni scientifiche a elementi attinti dalle più svariate scienze curiose, tra cui primeggiano ermetismo, cabbalismo e occultismo. Tra questi autori, sospesi tra vecchio e nuovo, tra interessi magici e intuizioni scientifiche, si possono annoverare il Paracelso (1493- 1541), Girolamo Cardano (1501-1576), Giambattista della Porta (1535-1615), ma anche Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Francesco Bacone e il medico con interessi filosofici Robert Fludd (1574-1637), legato alla setta dei Rosacroce.

5 L’idea di una corrispondenza reciproca tra microcosmo e macrocosmo, del mondo come organismo unitario, in

cui il mondo terrestre e il mondo celeste, così come il concetto di esperienza e quello di natura convergono, è un’idea fondamentale della farmacologia e della filosofia di pensatori rinascimentali quali Paracelso e Fludd. Nel suo studio su Robert Fludd, J. Godwin osserva che «l’idée d’une harmonie entre le microcosme et le macrocosme constitue une des plus vives préoccupations de Fludd. Selon elle l’homme est un univers en miniature et l’univers un grand être vivant. C’est pourquoi, si l’on comprend le petit cosmos, l’on comprendra le plus grand. Telle est la véritable signification de la parole du Créateur dans la Genèse : “Faisons l’homme à notre image” et de l’axiome hermétique “Ce qui est en haut est comme ce qui est en bas” […] Ce qui correspond réellement aux entités macrocosmiques, ce sont les corps subtils de l’homme, et ce sera la tâche de l’astrologie que de définir, sur un plan philosophique aussi bien qu’intra-mondain, leurs correspondances exactes et leurs significations» (in Robert Fludd. Philosophe hermétique et Arpenteur de Deux Mondes, trad. fr., Paris, 1980, p. 18).

6 Nella Regula IX, Descartes afferma che «c’est un défaut commun aux mortels que de croire plus belles les

choses difficiles» (Alquié I, p. 124; AT X, 401), muovendo una critica a tutti quei presunti saperi classificabili sotto la rubrica delle scienze curiose e delle dottrine dell’occulto. La convinzione di Descartes, sin dagli anni della sua giovinezza, è che nulla seduca di più l’uomo comune quanto ciò che è misterioso, stupefacente o straordinario. Allo stesso tempo, Descartes appare convinto dell’esigenza filosofica di esercitare un vigoroso scetticismo nei confronti di tale seduzione naturale dell’arcanum, come confessa in una lettera a Mersenne, datata 20 novembre 1629: «sitôt que je vois seulement le mot d’arcanum en quelque proposition, je commence à

operando en savant per la demistificazione di ogni credenza in presunti fattori magici nella spiegazione dei fenomeni naturali1, non è privo di interesse osservare che il solo nome proprio riportato dal Discours, se si esclude Aristotele (AT VI, 70), non è né quello di Montaigne, né quello di un Dottore della Scuola, bensì quello di Raimondo Lullo, «l’anello fondamentale di congiunzione di un sapere esoterico, ermetico, alchemico che, attraverso i suoi scritti e la sua opera, dalla tarda antichità si proietta fino all’umanesimo e al rinascimento, per lasciare tracce e impronte fino al mondo moderno e contemporaneo»2. Sulla figura di Lullo è opportuno soffermarsi, anche se solo in modo cursorio e nell’unico intento di mostrare a che punto sia antitetico, rispetto al metodo naturale che Descartes proporrà, il tentativo di costruire una «macchina per pensare»3, per dirla con Borges, o un sistema mnemomeccanico e combinatorio per comprendere e interpretare il reale4.

b) Raimondo Lullo e l’Ars brevis

Filosofo e mistico della Spagna medievale, nato a Maiorca (crocevia di cristiani, ebrei e musulmani) nel 1232 e vissuto sino al 1316, Lullo fu pensatore di larghissima latitudine e autore di prodigiosa versatilità. Il Doctor Inspiratus produsse un’opera vastissima e proteiforme (circa trecento scritti), in versi e in prosa, in latino, arabo, occitanico e catalano, del quale idioma fu il primo grande scrittore. Limitandoci ad elencare i soli testi di “logica”5,

peraltro sottoposti a revisioni costanti dall’autore, troviamo, dapprima, una Art abreujada

d’atrobar veritat e una Art dimostrativa (1275), poi una Art inventiva (1289), sino all’Ars generalis ultima6 o Ars magna (1308), passando per l’Arbre de ciència (1296) e per la Lògica

avoir mauvaise opinion» (Alquié I, p. 228; AT I, 78). M. Spallanzani ha osservato che : «à l’admiration stupéfaite de l’étrange, à l’extase de l’obscure, au culte du difficile [Descartes] oppose constamment le privilège de la clarté et de la simplicité de la science» (in L’arbre et le labyrinthe. Descartes selon l’ordre des Lumières, in corso di stampa). Si vedano anche la Regula VIII; La Recherche de la Vérité (AT X, 504) e la lettera a Mersenne del 29 gennaio 1640 (AT III, 15). Descartes qualifica quasi sempre le scienze curiose con l’epiteto «niaiseries».

1 Animato da una volontà di demistificare i prodigi, di svelare i trucchi, di conoscere gli artifici, Descartes non

cela il suo desiderio di padroneggiare una «science des miracles», fondata sulle matematiche, e che «enseigne à se servir si à propos de l’air et de la lumière qu’on peut faire voir par son moyen toutes les illusions», per ignoranza attribuite alla magia (Cf. a ***, settembre 1629 [Alquié I, p. 221; AT I, 21]).

2 È il commento di A. Musco nella sua presentazione all’edizione dell’Ars brevis, tradotta in italiano, introdotta e

curata da M. M. M. Romano, Arte breve, Milano, 2002, p. 20.

3 J. L. Borges, La macchina per pensare di Raimondo Lullo, in «Testi prigionieri» [Textos cautivos], trad. it.,

Milano, 1998, pp. 165-170.

4 Per una messa a punto bibliografica sul sistema combinatorio lulliano, comprendente anche un elenco delle

principali edizioni, traduzioni e studi dell’Ars brevis dal 1481 al 1999, si veda l’edizione dell’Ars brevis, tradotta in italiano, introdotta e curata da M. M. M. Romano, Arte breve, Milano, 2002, pp. 213-223.

5 Anche se è difficile stabilire se si tratta di scritti di logica, di mnemotecnica, di Cabala, ecc.

6 L’opera ha preso il nome di Grand art di cui l’Ars breu sembra formare un riassunto fedele. Questa sintesi

dell’opera maggiore di Lullo ha conosciuto una straordinaria fortuna sino al XVIII secolo. Si contano 17 edizioni in latino dal 1484 al 1744.

nova (1303). Pur trattandosi per l’essenziale di trattati di “logica”1, l’aspirazione del teologo e

logico spagnolo supera i confini di questa disciplina, pretendendo di detenere il mezzo per scoprire e dimostrare la verità in ogni ambito dello scibile del suo tempo:

encore vous dis-je que je possède un Art général, nouvellement donné par le Saint-Esprit, grâce auquel on peut connaître toute chose naturelle, en tant que l’entendement atteint les choses des sens; bon pour le droit, et pour la médecine, et pour toute science, et pour la théologie, la quelle m’est plus au coeur. A résoudre questions aucun Art tant ne vaut, ni à détruire erreurs par raison naturelle2.

La peculiare logica concepita da Lullo aspira a fondare un sapere unitario e generale, in quanto si vuole non coincidente né con la logica pura, né con la metafisica, dal momento che il suo oggetto non si riduce né all’ens rationis, né all’ens realis, ma «considère l’être indifféremment selon l’un et l’autre mode»3:

l’intelligence – scrive Lullo – demande et requiert impérieusement une science générale, applicable à toutes les connaissances, avec des principes très généraux dans lesquels est impliqué le principe des sciences particulières comme le particulier est contenu dans l’universel4.

A testimonianza della grande diffusione degli scritti di Lullo è da notare come solo qualche anno prima della pubblicazione del Discours, apparvero, in traduzione francese, tanto l’Ars bref (1632) quanto la Grand art (1634). Ma in che cosa consiste l’“arte” di Lullo?

Intanto conviene ricordare che nel 1272, nell’isola di Maiorca, il procurator infidelium fece un’esperienza illuminante: vide gli attributi divini (dignitates dei5), quali la bontà, la grandezza, l’eternità, ecc., pervadere l’intera creazione. Questa rivelazione lo indusse a creare una ars, intesa non come una disciplina, ma insieme come il modo sintetico di unificazione teologica e filosofica dell’essere (sorta di scienza in divenire), come un metodo infallibile per affrontare ogni interrogativo riguardo alla realtà6: «Sciendum est ergo, quo dista Ars est et logica et Metafisica […]»7, scrive Lullo, come una sorta di mathesis universale mirante alla formazione dell’enciclopedia totale, e, secondo Umberto Eco, alla creazione della lingua

1 Ma Lullo si è occupato anche di filosofia, di poesia, di teologia, di scienze naturali, ecc.

2 Il passo, che citiamo nella traduzione francese di M. P.-E. Littré nel suo studio Raimond Lulle in «Histoire

littéraire de la France», XXIX, Paris, 1885, p. 25, è espunto da una poesia di Lullo scritta in catalano, che si può consultare in R. Lull, Poesies, Barcelone, 1928, p. 77.

3 R. Lullo, Introductoria Artis demonstrativae, prologus, t. III, ii, pp. 1-2 (Raymondi Lulli Opera omnia, ed. I.

Salzinger, Mainz 1721-1742, 8.voll. [ristampa: Frankfurt 1965]).

4 R. Lullo, Ars magna, prol., t. I, p. 1-3 (trad. fr. di E. Longpré, autore del ragguardevole articolo «Lulle» nel

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