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Il contratto di lavoro a tempo determinato ante Jobs Act

Nel documento Jobs Act: l'atto finale (pagine 41-45)

2.3 Il contratto di lavoro a tempo determinato

2.3.1. Il contratto di lavoro a tempo determinato ante Jobs Act

Tale istituto è stato disciplinato per la prima volta dalla legge numero 230 del 1962 e permetteva l’utilizzo del tempo determinato solo a seguito di condizioni tassative: svolgimento di attività temporanee/ straordinarie o per sostituire lavoratori legittimamente assenti

La proroga era ammessa solo una volta e per una durata non superiore a quella inizialmente prevista purché abbia il carattere della necessità e dell’imprevedibilità: se il contratto non deteneva le seguenti caratteristiche era da considerarsi a tempo indeterminato.

Con le prime crisi economiche, il legislatore ha modificato la normativa in base alle nuove esigenze aziendali attraverso l’articolo 23 della legge numero 56 del 1987: quest’ultima ha permesso al contratto collettivo di introdurre il tempo determinato purché venissero rispettate determinate percentuali rispetto al numero dei contratti a tempo indeterminato.

Ne risulta un aumento esponenziale dei poteri assegnati ai sindacati e ai contratti collettivi in quanto possono ricorrere al tempo determinato anche per casuali diversi da quelli previsti dalla legge 230 del 1964 ma il lavoratore è comunque tutelato nei propri diritti perché è il risultato di un accordo raggiunto dalle parti.

Questo spostamento di responsabilità ha portato ad una ricca produzione di regole negoziali che sono più tempestive rispetto all’intervento legislativo e quindi capaci di seguire i cambiamenti del contesto economico.

Successivamente la normativa è cambiata a seguito del recepimento della direttiva europea 99/70 e convertito successivamente nel decreto legislativo 368 del 2001.

L’articolo 1 di questo decreto ha liberalizzato la possibilità di stipulare il contratto a tempo determinato purché vi fossero ragioni di carattere “tecnico,

produttivo, organizzativo e sostitutivo”: l’introduzione di questa clausola, che

rende questa tipologia contrattuale molto flessibile, è contrastata da una serie di imposizione ovvero la durata massima che non deve eccedere i trentasei mesi e il numero massimo di proroghe, non superiori a cinque. Sono previste inoltre delle ipotesi per le quali non è prevista la stipulazione del contratto a termine:

- per sostituire lavoratori che stanno esercitando il diritto di sciopero;

- all’interno di unità produttive, che nei sei mesi precedenti, è stata

coinvolta da licenziamenti collettivi e che abbiano colpito lavoratori con le stesse mansioni di quelli assunti a tempo determinato, a meno che questa ipotesi non sia prevista da accordi sindacali;

- presso unità produttive dove i lavoratori sono stati soggetti a

sospensioni di attività o riduzione di orario con diritto al trattamento di integrazione salariale e che svolgevano le medesime attività previste nel contratto a termine;

- per quelle aziende che non abbiano fatto la valutazione rischi previsti dall’ex articolo 4 del decreto legislativo 626 del 1994.

L’obiettivo della direttiva europea era quello di incentivare la stipulazione del primo rapporto ma stabilire delle regole rigide per la successione dei contratti a termine, in quanto sono sintomo di creazione di un rapporto precario.

Al decreto legislativo 368 del 2001 sono state apportate delle modifiche attraverso la legge 247 del 2007: il comma 01 stabilisce che “il contratto di

lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato”34ma nello

stesso tempo facilita l’utilizzo del tempo determinato in quanto le esigenze di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo possono riferirsi anche all’attività ordinaria d’impresa: non è necessario l’elemento straordinario come nella legge 230 del ’62.

La legge 247 del 2007 ha introdotto inoltre la conversione del rapporto a tempo indeterminato qualora la somma di tutti i contratti stipulati tra le parti

superi i trentasei mesi, indipendentemente dalle interruzione che sono intercorse.

Rimangono sottratti dal vincolo temporale le seguenti tipologie di contratto:

- i dirigenti, il cui rapporto dura per un massimo di cinque anni;

- le attività stagionali previste dal DPR 12 del 1963;

- per le attività stabilite negli avvisi comuni e dai contratti collettivi

nazionali stipulati dalle organizzazioni di datori e lavoratori maggiormente rappresentative;

- di somministrazione, stipulato tra prestatore e somministratore di lavoro.

Questa nuova disposizione è stata definita come punta di diamante contro la precarietà35 ma dopo pochi mesi è stata approvata la legge 133 del 2008 che ha cambiato ancora una volta l’istituto del contratto a termine ed è intervenuta su cinque precisi aspetti:

- individuazione delle casuali che permettono la stipulazione del contratto a tempo determinato.

In base alla nuova disciplina il datore di lavoro può assumere qualora ci siano necessità di tipo tecnico – organizzative, per le quali non si può pretendere l’assunzione a tempo indeterminato.

Questo significa che è possibile l’assunzione a termine per le ragioni indicate per iscritto nel contratto36 nonostante non abbiano il carattere della temporaneità.

- Indicazione del numero massimo di contratti che si possono stipulare; - introduzione della deroga al tetto massimo dei 36 mesi in virtù di quanto disposto nei contratti stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale tra le organizzazioni sindacali più rappresentative sul piano nazionale.

- favorire l’assunzione dei lavoratori che sono già assunti a termine

presso la stessa azienda:

- determinare una nuova disciplina al fine di risolvere le controversie in

corso.

35 M. Cinelli, Ferraro G. in “Lavoro, competitività e welfare. Commentario alla Legge 24 Dicembre 2007, n. 247 e riforme correlate” pag 77.

Prima di passare a quanto introdotto dal Jobs Act è necessario soffermarsi su quanto introdotto la legge 92 del 2012, nota come Riforma Fornero.

Per quanto riguarda il tempo determinato, la nuova normativa è intervenuta al fine di “contrastare non l'utilizzo del contratto a tempo determinato in sé,

ma l'uso ripetuto e reiterato per assolvere ad esigenze a cui dovrebbe rispondere il contratto a tempo indeterminato”.37

Questo significa che il contratto a tempo indeterminato rimane la forma comune del rapporto di lavoro ma nel contempo non viene contrastato l’utilizzo di quello a tempo determinato.

Con la nuova riforma è sufficiente, per il primo contratto e per un massimo di 12 mesi, che sussista solamente una concreta esigenza temporanea: non sono quindi necessarie ragioni oggettive.

La liberalizzazione del primo contratto a termine è stata estesa anche nel caso “di prima missione di un lavoratore nell’ambito del contratto di

somministrazione a tempo determinato” e riguarda non soltanto il rapporto

tra dipendente e agenzia di somministrazione ma anche quello commerciale tra quest’ultima e l’utilizzatore.

Il legislatore, al fine di evitare l’abuso e per incentivare l’assunzione stabile, ha reso più “costoso” il contratto a termine introducendo un contributo aggiuntivo dell’1,4% (destinato poi a finanziare il fondo per la disoccupazione) e dilatato i tempi di riassunzione dello stesso lavoratore: 60 giorni nel caso in cui il contratto duri meno di 6 mesi e 90 giorni con durata superiore ai 6 mesi.

Qualora non vengono rispettati gli intervalli appena indicati, il regime sanzionatorio prevede che il secondo contratto deve considerarsi a tempo indeterminato.

Di particolare importanza è anche il limite imposto per la durata di questa tipologia contrattuale, ovvero 36 mesi.

Per il conteggio dei 36 mesi devono essere considerate tutte le missioni, sia quelle acasuali sia quelle determinate per ragioni tecniche, produttive e organizzative, svolte tra i medesimi soggetti.

Con la Riforma Fornero si è assistito alla liberalizzazione del contratto a tempo determinato al fine di favorire maggiore occupazione: il successo di questa tipologia contrattuale è possibile verificarlo anche sulla percentuale di incidenza dei contratti a termine sul totale degli avviamenti che è passata dal 63,4% (Luglio 2011) al 67,5 (Marzo 2013).

Nonostante questo successo, il 42,9% dei contratti a termine hanno una durata brevissima (non superiore al mese) e il 36,8% invece hanno una scadenza che può variare tra i 4 e i 12 mesi.

I rapporti a tempo determinato di durata maggiore ai 12 mesi hanno subito invece una decrescita: dal primo trimestre del 2012 al primo trimestre del 2013 il numero di contratti a termine di durata superiore all’anno stipulati sono passati dal 3,4% al 2,1%.

Con il Jobs Act, si assiste ad un’ulteriore liberalizzazione del contratto a termine, le cui novità sono contenute nel paragrafo successivo.

Nel documento Jobs Act: l'atto finale (pagine 41-45)