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Il fondamento normativo dell’obbligo di informare

5. Responsabilità medica e diritto all’informazione

5.1. Il fondamento normativo dell’obbligo di informare

L’emersione del requisito del consenso libero e consapevole del paziente, quale presupposto di legittimità dell’operato del medico, costituisce l’aspetto più importante dell’evoluzione normativa, giurisprudenziale e dottrinaria degli ultimi anni, in tema di responsabilità del medico.

Si ricordi che, secondo la giurisprudenza meno recente, “il medico ha seco la presunzione di capacità nascente dalla laurea” (Cass. 22.12.1925, in Giur. it. 1926, I, 1, 537). Questa concezione - assai risalente nel tempo - comportava una serie di corollari: in particolare, quello secondo cui nel rapporto medico-paziente quest’ultimo non dovesse “impicciarsi” delle scelte del medico, unico e solo dominus della strategia terapeutica.

L’assetto della materia è mutato con l’introduzione del codice civile del 1942, e quindi con la promulgazione della Carta costituzionale del 1947. In considerazione del preminente rilievo che la nuova Carta costituzionale riconosceva alla salute come diritto dell’individuo, la giurisprudenza cominciò a configurare la necessità del consenso del paziente quale causa di giustificazione di un atto - quello medico - che, essendo potenzialmente lesivo dell’integrità psicofisica dell’individuo, si sarebbe dovuto considerare illecito in assenza del consenso.

Questa ricostruzione del consenso come causa di giustificazione (volenti non fit iniuria) prestava però il fianco a molteplici critiche: prima fra tutte, quella secondo cui non si può equiparare l’atto medico ad una “aggressione” della salute dell’individuo, scriminata dal consenso del paziente (al contrario, l’atto medico mira proprio a restaurare la salute perduta). In secondo luogo, col consenso all’attività medica, il paziente non rinuncia ad esercitare un proprio diritto, anzi, tutela il proprio diritto alla salute (FERRANDO, Consenso informato del paziente e responsabilità del medico, principi, problemi e linee di tendenza, in Riv. crit. dir. priv., 1998, 54). Di qui l’abbandono della vecchia concezione, ed il realizzarsi di una vera e propria rivoluzione copernicana nella tradizionale impostazione dei rapporti tra medico e paziente. Al riguardo ha osservato la Suprema Corte che “sarebbe riduttivo (…) fondare la legittimazione dell’attività’ medica sul consenso dell’avente diritto (art. 51 c.p.), che incontrerebbe spesso l’ostacolo di cui all’art. 5 c.c., risultando la stessa di per sé legittima, ai fini della tutela di un bene, costituzionalmente garantito, quale il bene della salute, cui il medico e’ abilitato dallo Stato.

Dall’autolegittimazione dell’attività’ medica, anche al di là dei limiti dell’art. 5 c.c., non deve trarsi, tuttavia, la convinzione che il medico possa, di norma, intervenire senza il consenso o malgrado il dissenso del paziente. La necessità del consenso - immune da vizi e, ove importi atti di disposizione del proprio corpo, non contrario all’ordine pubblico ed al buon costume -, si evince, in generale, dall’art. 13 della Costituzione, il quale, come e’ noto, afferma l’inviolabilità’ della libertà personale - nel cui ambito si ritiene compresa la libertà di salvaguardare la propria salute e la propria integrità fisica -, escludendone ogni restrizione (anche sotto il profilo del divieto di ispezioni personali), se non per atto motivato dell’autorità’ giudiziaria e nei soli casi e con le modalità previsti dalla legge. Per l’art. 32 co. 2 Cost., inoltre, “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”

(tali norme hanno trovato attuazione nella l. 13 maggio 1978, n. 180, sulla riforma dei manicomi, per la quale “gli accertamenti e trattamenti sanitari sono volontari”, salvi i casi espressamente previsti - art. 1 -, e nella l. 23 dicembre 1978, n. 833, che, istituendo il servizio sanitario nazionale, ha ritenuto opportuno ribadire il principio, stabilendo che

“gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono di norma volontari”: art. 33). Si eccettuano i casi in cui: a) il paziente non sia in grado, per le sue condizioni, di prestare un qualsiasi consenso o dissenso: in tale ipotesi, il dovere di intervenire deriva dagli art. 593 c. 2 e 328 c.p.; b) sussistano le condizioni di cui all’art. 54 c.p.” (Cass.

25.11.1994, n. 10014, in Foro it., 1995, I, 2913, con nota di SCODITTI, Chirurgia estetica e

91 Cass., sez. un., 11.1.2008, n. 576, in Foro amm.-Cons. Stato, 2008, 76.

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responsabilità contrattuale, nonché in Nuova giur. civ., 1995, I, 937, con nota di FERRANDO, Chirurgia estetica, «consenso informato» del paziente e responsabilità del medico).

Al centro della nuova concezione, non c’è più il medico, portatore di un sapere quasi arcano e non contestabile, gestore della salute del paziente; ma c’è quest’ultimo, il quale è considerato l’unico ed esclusivo “proprietario” della propria salute, e quindi l’unico soggetto cui spetta decidere se, come, quando e quanto curarsi. Naturalmente, perché il paziente possa esercitare consapevolmente questo diritto, è necessario che egli sia debitamente informato su tutto quanto possa concernere la cura: di qui, l’obbligo di informazione, divenuto, da causa di giustificazione, esercizio di un diritto.

L’obbligo del medico di informare il paziente non è previsto, in via generale ed astratta, da una precisa norma di legge, ma si desume con chiarezza ed inequivocità da un fitto reticolo di norme, sia di rango costituzionale, sia di rango ordinario.

(A) Norme sovranazionali.

Viene in rilievo, innanzitutto, l’art. 35 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in vigore dal 1° dicembre 2009), a norma del quale “ogni persona ha il diritto di accedere alla prevenzione sanitaria e di ottenere cure mediche alle condizioni stabilite dalle legislazioni e prassi nazionali. Nella definizione e nell’attuazione di tutte le politiche ed attività dell’Unione è garantito un livello elevato di protezione della salute umana”.

U(B) Norme costituzionali.

L’obbligo di informazione viene solitamente fondato innanzitutto sugli artt. 2, 13 e 32 della costituzione. Infatti, ove il paziente non fosse informato sull’attività cui sta per essere sottoposto, si violerebbe da un lato il suo diritto alla autodeterminazione, e dall’altro il suo diritto a non essere sottoposto a trattamenti sanitari contro la sua volontà.

U(C) Norme ordinarie.

Il fondamento normativo dell’obbligo di informare il paziente viene poi ravvisato in numerose norme di rango ordinario, e segnatamente:

(a) nell’art. 33 co. I e V l. 23.12.1978 n. 833 (“Istituzione del servizio sanitario nazionale”), in base al quale “Gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono di norma volontari (...). Gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori (...) devono essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato”;

(b) nell’art. 4 l. 26.6.1967 n. 458 (“Trapianto del rene tra persone viventi”), in base al quale “il trapianto del rene legittimamente prelevato e destinato ad un determinato paziente non può aver luogo senza il consenso di questo o in assenza di uno stato di necessità”;

(c) nell’art. 14 l. 22 maggio 1978, n. 194 (“Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”), in base al quale “il medico che esegue l’interruzione della gravidanza è tenuto a fornire alla donna le informazioni e le indicazioni sulla regolazione delle nascite, nonché a renderla partecipe dei procedimenti abortivi, che devono comunque essere attuati in modo da rispettare la dignità personale della donna.

In presenza di processi patologici, fra cui quelli relativi ad anomalie o malformazioni del nascituro, il medico che esegue l’interruzione della gravidanza deve fornire alla donna i ragguagli necessari per la prevenzione di tali processi”;

(d) nell’art. 2 l. 14 aprile 1982, n. 164 (“Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso”), in base al quale “la domanda di rettificazione di attribuzione di sesso di cui all’articolo 1 è proposta con ricorso al tribunale del luogo dove ha residenza l’attore (...).

Quando è necessario, il giudice istruttore dispone con ordinanza l’acquisizione di consulenza intesa ad accertare le condizioni psico-sessuali dell’interessato”, dal che si desume che l’attribuzione di sesso può essere disposta solo previo esperimento di un giudizio sull’esistenza d’una effettiva volizione;

(e) nell’art. 121 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (“Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di

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tossicodipendenza”), in base al quale “l’autorità giudiziaria o il prefetto nel corso del procedimento, quando venga a conoscenza di persone che facciano uso di sostanze stupefacenti o psicotrope, deve farne segnalazione al servizio pubblico per le tossicodipendenze competente per territorio.

Il servizio pubblico per le tossicodipendenze, nell’ipotesi di cui al comma 2, ha l’obbligo di chiamare la persona segnalata per la definizione di un programma terapeutico e socio-riabilitativo”;

(f) negli artt. 1 e 2 d.m. 27 aprile 1992 (“Disposizioni sulle documentazioni tecniche da presentare a corredo delle domande di autorizzazione all’immissione in commercio di specialità medicinali per uso umano, in attuazione della direttiva n. 91/507/CEE”), in base ai quali “le norme di buona pratica clinica cui fa rinvio la «Parte 4» dell’allegato della richiamata direttiva n. 91/507/CEE sono riportate nell’allegato 1 del presente decreto (...). Fatte comunque salve le disposizioni dell’art. 1, le sperimentazioni cliniche effettuate in Italia devono essere condotte in cliniche universitarie, in strutture ospedaliere o in altre strutture a tal fine ritenute idonee dal Ministero della sanità. Ove costituiti in Italia, i comitati etici, in ogni caso conformi alle indicazioni delle norme di buona pratica clinica di cui all’art. 1, comma 2, devono aver sede presso strutture sanitarie o scientifiche di comprovata affidabilità”. Poiché nell’allegato si indicano, tra i princìpi della “buona pratica clinica”, il necessario consenso di coloro sui quali sono effettuate le sperimentazioni, se ne desume che anche per il legislatore comunitario il consenso del paziente è elemento indefettibile per l’avvio del programma di cure sperimentali.

U(D) Norme, trattati ed accordi internazionali.

L’obbligo di informare il paziente, e di ottenere da questi un consenso libero ed informato, è infine previsto da un rilevante numero di accordi internazionali, stipulati sia tra Stati, sia tra organizzazioni non governative. Vengono in rilievo, al riguardo:

(a) il Principio 4 dei “Principi concernenti la procreazione umana artificiale”, approvati nel 1989 dal Comitato di esperti per lo sviluppo delle scienze biomediche (CAHBI) del Consiglio d’Europa, il quale stabilisce che “le tecniche di procreazione artificiale possono essere usate solo se le persone interessate hanno dato il loro consenso libero ed informato, esplicitamente e per iscritto”;

(b) il General Comment 20 all’art. 7 del Patto sui diritti civili e politici, adottato dal Comitato dei diritti umani nella 44° sessione delle Nazioni Unite, il quale stabilisce che “l’art. 7 espressamente proibisce esperimenti medici o scientifici senza il libero consenso della persona interessata”;

(c) l’art. 5 della Convenzione sui diritti umani e la biomedicina, adottata dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa il 19.11.1996, ed aperta alla firma il 4.4.1997 (non ancora ratificata dall’Italia), il quale stabilisce che “un intervento nel campo della salute può essere effettuato dopo che la persona interessata ha dato un consenso libero ed informato. La persona interessata può liberamente revocare il consenso in qualsiasi momento”;

(d) il principio 3 della Dichiarazione europea sulla promozione dei diritti del paziente, adottata ad Amsterdam il 30.3.1994 dalla Consulta Europea per i diritti dei pazienti, sotto gli auspici dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, il quale stabilisce che “il consenso informato del paziente costituisce prerequisito per qualsiasi intervento medico. Il paziente ha il diritto di rifiutare o fermare un intervento medico. Le conseguenze del rifiuto o dell’interruzione debbono essere attentamente spiegate al paziente”;

(e) la “linea direttrice” n. 4 delle “Linee direttrici etiche internazionali per la ricerca biomedica riguardante esseri umani”, elaborate a Ginevra nel 2003 dal Consiglio delle Organizzazioni Internazionali di Scienze Mediche (CIOMS), organo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, il quale stabilisce che “pour toute recherche biomédicale impliquant des êtres humains, l’investigateur doit obtenir le consentement libre et éclairé du sujet pressenti ou, si celui-ci n’est pas en mesure de le donner, l’autorisation d’un représentant dûment mandaté à cet effet conformément au droit applicable” (“per ogni ricerca biomedica riguardante esseri umani, il ricercatore deve ottenere il consenso libero e chiaro del soggetto presente o, se quest’ultimo non è in grado di darlo, Ul’autorizzazione d’un rappresentante debitamente delegatoU a questo scopo secondo la legge applicabile”).

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(E) Codici deontologici.

La necessità del consenso del paziente per i trattamenti cui dev’essere sottoposto è infine prevista dal “Codice di deontologia medica”, approvato dalla Federazione Nazionale degli Ordini dei Medichi chirurghi ed odontoiatri il 16.12.2006, il quale dedica al tema in esame varie disposizioni: gli artt. da 33 a 39, e l’art. 16.

Dal combinato disposto di tali norme risultano una serie di articolati princìpi così riassumibili:

(a) il medico ha l’obbligo di informare sempre e comunque il paziente, tenendo conto delle sue capacità di comprensione ed adottando forme adeguate quando l’informazione ha ad oggetto una prognosi infausta; tale obbligo viene meno nel solo caso in cui il paziente chieda espressamente di non essere informato (art. 33 Cod. deont. med.);

(b) l’informazione sub (a) deve risultare per iscritto (art. 35, comma 2, Cod. deont. med.);

(c) Udinanzi al dissensoU alle cure manifestato del paziente capace d’intendere e di volere, Uil medico deve astenersiU dall’intervenire (art. 35, comma 4, Cod. deont. med.);

(d) se il paziente è incapace d’intendere e di volere, il medico deve:

(d’) intervenire sempre nei casi d’urgenza (art. 36 cod. deont. med.);

(d’’) “tenere conto” della volontà precedentemente manifestata dal paziente (art. 36 cod. deont.

med.), a condizione che tale volontà sia stata espressa “in modo certo e documentato” (art. 38, comma 4, cod. deont. med.);

(d’’’) astenersi da ogni accanimento terapeutico (art. 35, comma 5, e 39, comma 2, cod. deont. med.), quando da esso non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita (art. 16 cod. deont. med.);

(d’’’’) infine, nel caso di malati terminali ed incoscienti, il medico deve “proseguire nella terapia di sostegno vitale finché ritenuta ragionevolmente utile evitando ogni forma di accanimento terapeutico.