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il lotto, la Mandragola e qualche altra «compositione»

Nel documento Machiavelli canterino? (pagine 47-54)

Messa a verbale l’estroversa creatività orale di Machiavelli e il suo talen- to di «dicitore», sarà più facile comprendere anche un altro episodio ‘can- terino’ della sua biografia, rimasto finora nascosto fra le pieghe dell’episto- lario. Il luogo stavolta è Venezia, dove Machiavelli viene inviato dall’Arte della Lana nell’agosto-settembre del 1525 perché ottenga giustizia con le sue arti oratorie per alcuni mercanti fiorentini che erano stati taglieggiati in terre adriatiche sottoposte alla Serenissima91. Ci interessano in particolare

due lettere.

La prima è quella che Filippo de’ Nerli gli invia il 6 settembre da Firen- ze. A quanto pare Machiavelli se la sta prendendo un po’ troppo comoda, suscitando malumori nei committenti. L’amico, perciò, gli fa fretta:

In questo mezzo attendete a spedirvi, perché qua è gran romore, tra questi mercanti, che voi attendiate a spese loro a trattenere costà litterati; e loro hanno bisogno di altro che di cantafavole; e sapete che non piacciono a ognuno le dicerie92.

Anche se non piacevano ai consoli dell’Arte della Lana, pare di dover intendere, le «cantafavole» di Machiavelli piacevano molto ai «litterati» che intratteneva a spese altrui a Venezia. Sarebbe molto interessante cerca- re di capire chi fossero questi «litterati» che lo attorniarono in laguna, e non mi risulta che sia stato finora fatto. Personalmente, direi che un perso- naggio almeno lo possiamo identificare con certezza, tanto più che a met- terci sulla sua pista – anche se a prima vista non pare – è quella medesima lettera del Nerli, che poche righe sotto allude scherzosamente a una grossa vincita al gioco da parte dell’amico:

Per quello che per le lettere di Vinezia si intende, voi avete riscontro alla lotta dua o tremila ducati, di che gli amici vostri se ne sono tutti rallegrati93.

Secondo i commenti correnti, la cifra è esagerata per burla94, ma nessu-

no dubita che sia vera la notizia di fondo: a Venezia, nella tarda estate del 1525, Machiavelli ha giocato al lotto, e a quanto pare ha vinto. Che poi la

95 Su Giovanni Manenti mi permetto di rinviare a DEGL’INNOCENTI, I Reali dell’Altissimo…,

pp. 65-72, dove ho ripercorso il già noto e aggiunto alcune novità, fra le quali la notizia della sua provenienza da Siena («senensis» è detto infatti nella rubrica di una sua ottava acrostica in lode dell’Altissimo). Sul lotto nella Venezia del Cinquecento, ALBERTOFIORIN, Nascita e sviluppo delle

lotterie a Venezia, «Homo ludens. Der Spielende Mensch», VII (1997), pp. 101-28 ed EVELYN

WELCH, Shopping in the Renaissance. Consumer Cultures in Italy 1400-1600, New Haven and

London, Yale University Press 2005, pp. 203-9, che però ricava dal Sanudo solo il nome del pri- mo promotore del gioco, un tale «Hieronimo Bambarara strazaruol», e non le menzioni successi- ve dei «lothi», che si associano molto spesso al Manenti.

96 Per il 27 febbraio 1522, MARINOSANUDO, I diarii, t. XXXII, Venezia, a spese degli editori

1892 (rist. anast. Bologna, Forni 1969), coll. 500-1 «In questa terra in Rialto non si atende ad al- tro che meter danari su lothi […] e li precii montano chi più che mancho fino 1500 ducati. […] Et in questo zorno, hessendo sta’ posto uno loto per autor Zuan Manenti sensalo, qual vadagna 3 per 100 […]». E già il giorno dopo, 28 febbraio: «La matina non nula da conto, né letera alcuna,

solum se atende a serar uno altro lotho di ducati 6000 posto pur per Zuan Manenti sanser» (ivi,

col. 504). Per i primi lotti affidati o concessi al Manenti dalla Signoria nel 1522, ivi, t. XXXIII, coll. 371 (10 luglio), 406 e 408 (7-8 agosto), 442 (7 settembre), 501 (10 novembre); la prassi pro- segue anche negli anni successivi: nel giugno del 1525, ad esempio, c’è un lotto «concesso […] a Zuan Manenti» di 25000 ducati totali, che mette in palio palazzi e terreni della «Illustrissima Si- gnoria», ivi, t. XXXIX, Venezia 1894, coll. 75-76.

97 PIETROARETINO, Lettere. Tomo I. Libro I, a c. di PAOLOPROCACCIOLI, Roma, Salerno edi-

trice 1997, pp. 367-70; lo studioso ha ripubblicato la lettera, con notizie e commenti sul Manenti, anche in PAOLOPROCACCIOLI, Occasioni ludiche. Gioco e scrittura nella tradizione letteraria italia-

na. I. Pietro Aretino. Sul lotto (Lettere, I 267), «Ludica, annali di storia e civiltà del gioco», 12

(2006), pp. 149-54.

cifra debba essere un’iperbole, non è detto: come si vedrà meglio tra poco, i primi premi di quegli anni ammontavano regolarmente a qualche migliaio di ducati. Non credo, inoltre, che gli informatori da Venezia si sarebbero scomodati a riferire di una vincita di seconda categoria. Ora, quanto sia profondamente radicato il gioco del lotto nella storia culturale e sociale di Venezia è cosa nota. Ma forse non è cosa altrettanto nota che a farlo fiorire nella città lagunare è stato, proprio negli anni ’20 del Cinquecento, un enigmatico e proteiforme personaggio di nome Giovanni Manenti95. A

partire almeno dal 27 febbraio del 1522, il suo nome ricorre con la massi- ma frequenza nei Diari di Marin Sanudo fra quelli dei sensali che organiz- zano le vendite dei «boletini», e la sua prominenza è confermata anche dal fatto che quando il Consiglio dei Dieci, dopo aver accantonato l’idea ini- ziale di proibire il gioco, pensò invece di servirsene per rimpinguare le cas- se pubbliche, la gestione di quei lotti di stato fu appaltata, nell’estate del 1522, proprio al Manenti96. Essere la Lottomatica del Cinquecento frutta-

va al Manenti guadagni cospicui, anche se a prezzo di cospicui malumori da parte dei mancati vincitori, vale a dire da parte di moltissimi veneziani, considerato che la febbre del gioco contagiò ben presto tutta quanta la città, ispirando nel 1537 una gustosa lettera dell’Aretino, indirizzata non per niente al Manenti, che satireggia la dilagante mania97. Coi proventi del

98 In breve, l’edizione del Primo libro de’ Reali è contraddistinta da una marca editoriale

(una silografia con le tre virtù teologali) che si trova anche nella Tariffa e nel Segreto de’ segreti, e non altrove: è chiaramente l’emblema che firmava le iniziative editoriali del Manenti, che infatti fin dal 1526 aveva ottenuto il privilegio di stampa per gli inediti dell’Altissimo, DEGL’INNOCENTI,

I Reali dell’Altissimo…, pp. 65-68 (dove però riferivo informazioni errate sulla princeps dello Specchio, che non è del 1530 bensì del 1539). Prima si era creduto che il privilegio potesse riferirsi

al canzoniere del canterino, andato a stampa nei primi anni ’20 (Strambotti e sonetti dell’Altissi-

mo, per cura di RODOLFORENIER, Torino, Società Bibliofila 1886, pp. XXXVI-XXXVII). Lascia

in ogni caso interdetti il malinteso in cui è incorso DANTEPATTINI, Un percorso dantesco all’inter-

no del palazzo ducale di Venezia: Lo specchio de la giustitia di Giovanni Manenti (1539), «Studi

veneziani», LXI (2010), pp. 109-56, che illustra efficacemente i contenuti del poemetto, ma che trovandosi di fronte, nel suddetto privilegio, alle «opere dello ex.mo Poeta fiorentino per sopra no-

me Altissimo non più impresse, né mandate in luce» (corsivo di Pattini) e non conoscendo a quan-

to pare il canterino, le identifica a colpo sicuro con «delle operette inedite di Dante», ne va in cerca fra le stampe veneziane di quegli anni, ne trova perfino un paio possibili, e commenta l’im- portanza dell’episodio nella «storia della penetrazione di Dante nella cultura borghese dal Quat- trocento in avanti», ivi, pp. 114-18. Al Pattini si deve anche la voce Manenti, Giovanni in Diziona-

rio Biografico degli Italiani, vol. 68, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana 2007, pp. 596-98.

99 SANUDO, I diarii, t. XXXIX, Venezia, a spese degli editori 1894 (rist. anast. Bologna, For-

ni 1970), coll. 279-80 (per la data, ivi, col. 281).

lotto, Manenti probabilmente finanziò alcune delle sue molte altre attività: ad esempio, quella di occasionale editore d’un manipolo di libri che più eclettico non si potrebbe pensare, visto che include una Tariffa de cambi, cioè un prontuario mercantile (1534), accanto a un volgarizzamento del Se-

creta secretorum pseudoaristotelico (1538), a un suo poemetto in terzine

sulle carceri e le magistrature di Venezia intitolato Specchio de la giustitia (1539), e infine – come mi è successo di scoprire qualche anno fa – al Pri-

mo libro de’ Reali, il lungo ciclo di cantari cavallereschi recitati dall’Altissi-

mo a Firenze nel 1514-15 e stampati a Venezia nel 1534 a cura e a spese, appunto, di Giovanni Manenti98.

Dei lotti del Manenti, peraltro, fra le pagine dei Diari di Marin Sanudo si conservano anche alcuni avvisi volanti a stampa: fra questi, c’è un volan- tino che pubblicizza un lotto che «l’è sta’ concesso de far […] a Zuan Ma- nenti de ducati trentamila […], nel qual lotto entra le botteghe de naran- zer poste in Rialto, che son de la Illustrissima Signoria». È uno dei lotti ap- paltati al Manenti da «li signori capi de lo Excelentissimo Conseglio di X», che riconoscevano al sensale una percentuale sulle vincite di «ducati doi per cento, i quali siano dil ditto Zuan Manenti iusta il solito per sua spexa e fatica»99. Il primo premio ammontava a 5000 ducati, il secondo e il terzo

a 3000, ed altri otto premi valevano tra i 1600 e i 1200 ducati l’uno. Siamo nell’agosto del 1525 e saremmo seriamente tentati di pensare che si tratti proprio del lotto di Machiavelli, se non fosse che la vendita fu aperta il 7 del mese: un po’ troppo presto, visto che il 17 egli era ancora a Firenze. Ma insomma, se Machiavelli vinse al lotto a Venezia, si può star certi che

100MACHIAVELLI, Opere. Volume terzo: Lettere…, pp. 575-76.

conobbe il Manenti. Resta da vedere se quella conoscenza possa esser stata in qualche modo significativa – oltre al significato meramente pecuniario, intendo. A giudicare dalla seconda lettera che commenterò, lo fu.

La lettera partì da Venezia qualche mese dopo, il 28 febbraio del 1526, indirizzata «all’erudittisimo e eccelente M. Nicolò Machiavello» ormai tor- nato a Firenze, ed è una lettera tutt’altro che ignota, perché è quella che nel paragrafo centrale informa l’autore del grande successo riscosso dalla sua commedia di Callimaco, vale a dire la Mandragola, nella messinscena al- lestita durante quel Carnevale dai mercanti della nazione fiorentina. La riuscita fu tale da far impallidire anche i «Menechmi di Plauto vulgari», re- citati da una compagnia concorrente («la qual, per comedia antica, è bella» ma «fu tenuta una cosa morta rispetto alla vostra»), tanto che la Mandrago-

la fu replicata la sera seguente a gran richiesta di chi se l’era persa. Machia-

velli è diventato un autore di grido, e i fiorentini residenti in laguna vor- rebbero ricevere qualcos’altro da mettere in scena per il primo di maggio, purché sia «composizion» sua «e non d’altri».

Per adempire el desiderio di V.S. de l’intendere del recitare de la sua Comedia

de Calimaco, fo intendere a V.S. quella eser stata recitata con tanto ordine e buon

modo, che un’altra compagnia di gentilomeni che a concorrentia de la vostra in quella sera medesima etiam con spesa grande ferno recitar li Menecmi di Plauto vulgari, la qual, per comedia antica, è bella e fu recitata da asai boni recitanti, niente di meno fu tenuta una cosa morta rispetto alla vostra; di modo che, visto comendarsi tanto questa più che quella, da vergogna spronati, con istanzia gran- dissima richiesero la compagnia di questa che di grazia gliela volesino recitar in ca- sa loro dove era recitata la loro. Et così come persone gentilissime un’altra sera poi fu di nuovo con l’intermedi propri de la prima volta recitata e con grandissima sa- tisfatione di tutti si finì; donde che abondantemente furon date le benedizioni pri- mamente al compositore e sucesive al resto, che se n’erono impaciati, de le quali ne dovea participar anche io per causa di aver tenuta la comedia in mano drieto a li casamenti del proscenio, perché la andasse più a ordine e per soccorere, se fusse acaduto, alcuno de’ recitanti, il che non bisognò. E questo sia a consolazion de la S.V. È stata tanto acetta, che questi nostri mercanti de la natione se ànno dato la fede, posendo però aver qualcosa di vostro e non d’altri, recitare, se posibil fusse de averlo a tempo, questo primo magio avenire; sì che sete pregato per parte di tutti, posibil essendo che V.S. si degni o qual cosa fatta, o vero che ne la mente l’a- veste fabricata, tal che la si possi avere: e non pensate che compositioni d’altri ave- sino questa richiesta, perché in efetto elle ànno dolceza e sapore, de le quali se ne può cavare dilettevol construtto et onesto satisfamento100.

L’autore della lettera, che è perfettamente informato dei fatti perché ha partecipato alla messinscena della commedia nel ruolo di regista-suggeritore,

101RAIMONDO GUARINO, Cherea, o le commedie nella città, «Biblioteca teatrale», n.s. 5/6

(1987), pp. 29-52: 41-43; ID., Teatro e mutamenti. Rinascimento e spettacolo a Venezia, Bologna,

Il Mulino 1995, ad indicem. Ancora utile, sulle due recite, anche GIORGIOPADOAN, Momenti del

Rinascimento veneto, Padova, Antenore 1978, pp. 45-49 e 115-18 (che tratta però Manetti e Ma-

nenti come due personaggi distinti).

102Non mostra d’aver dubbi in proposito Sergio Bertelli nell’Introduzione a SERGIOBERTELLI,

PIEROINNOCENTI, Bibliografia machiavelliana, Verona, Valdonega 1979, p. XXII e n. 2.

103Cfr. CARRAI, Machiavelli e la tradizione dell’epitaffio satirico…, p. 207.

è un personaggio che risulta firmarsi Giovanni Manetti. Tuttavia, si sospetta da tempo che possa essere identificato col nostro poliedrico Manenti, il quale infatti, tra le molte sue attività, annoverava anche quella di allestitore di commedie. In particolare, il Sanudo ci informa che giusto nel Carnevale dell’anno precedente, il 13 febbraio 1525, aveva fatto recitare dalla Compa- gnia dei Trionfanti, coi «danari vadagnati […] al loto», una perduta com- media di Filargio, Trebia et Fidel, insieme a una «comedia villanesca» inter- pretata da Ruzante e Menato (che si discute se possa esser la Betìa) e con gli intermezzi del celebre buffone improvvisatore Zuan Polo101.

Una prospettiva affascinante è aperta poi dall’eventualità che il Filargio non fosse altro che l’enigmatico Falargo recitato a Firenze nel 1518 per le nozze di Lorenzo duca d’Urbino102. Visto che in quei festeggiamenti la

parte del leone la fecero gli istrioni della corte di Leone X, più di uno stu- dioso si è chiesto se lo Zuan Manenti che negli anni ’20 e ’30 troviamo a Venezia non possa esser tutt’uno col Gian Manente che a Roma, negli anni ’10, era stato un improvvisatore (di sonetti, strambotti e d’altro) molto amato da quel papa, tanto che se ne progettò l’incoronazione poetica per mano del Bibbiena. L’ostacolo maggiore contro questa identificazione, tut- tavia, è l’incresciosa circostanza per cui il Manenti romano risulta defunto – stando a certe pasquinate – nei primissimi anni ’20. Peccato, perché un trascorso di improvvisatore quasi laureato avrebbe proprio calzato a pen- nello al Manenti veneziano, amico di un improvvisatore laureato come l’Altissimo e attivo gomito a gomito con Zuan Polo; il suo mestiere di sen- sale del lotto, inoltre, si sarebbe sposato benissimo con le abilità di imboni- tore carismatico che si richiedono a un performer canterino. Forse, però, non è davvero necessario abbandonare l’ipotesi di un unico Manenti, per- ché le pasquinate che sembrano certificare la morte del romano potrebbe- ro benissimo richiamarsi alla tradizione dell’epitaffio satirico, scritto per burla di personaggi ben vivi: l’esempio degli Epitaffi di Maestro Pasquino che nel 1544 daranno per morti e danneranno all’inferno papa Paolo III (cinque anni anzitempo) e tutti i suoi cardinali mi sembra particolarmente incoraggiante103. Si spiegherebbe così anche la curiosa coincidenza per cui

un Manenti scompare a Roma durante il conclave che eleggerà Adriano VI nel gennaio del 1522 e l’altro compare a Venezia nel febbraio dello stesso

104Per tutta la questione, DEGL’INNOCENTI, I Reali dell’Altissimo…, pp. 69-71.

105BNCF, Carte Machiavelli 5.19. Una copia digitale è ora consultabile anche online, all’indi-

rizzo http://teca.bncf.firenze.sbn.it/ImageViewer/servlet/ImageViewer?idr=BNCF0003857374.

1522, e quella ancora più curiosa per cui entrambi gli omonimi furono amici dell’Aretino, che nella lettera sul lotto parla al Manenti veneziano dei cortigiani di Leone X come se quell’ambiente dovesse essergli familiare quanto lo era stato al Manenti romano104.

Comunque stiano le cose per il romano, quella che non è più soltanto probabile ma che alla luce di quel che sto per dire possiamo dare senza dubbio per certa è l’identificazione tra il Manenti veneziano e il Giovanni «Manetti» firmatario della lettera al Machiavelli. Quella piccola differenza di desinenza, per piccola che sia, pone un grosso problema. Non si vede infatti perché mai, se il mittente era il Manenti, abbia dovuto firmarsi Ma- netti, come si legge nelle edizioni correnti. La soluzione, però, è molto semplice: basta tornare a controllare l’originale manoscritto per accorgersi che nel margine inferiore ospitante la firma la carta è, sì, gravemente dete- riorata, al punto che il -ti finale lo immaginiamo ormai più che vederlo, ma non al punto di interdirci la visione, sopra la e dell’ancor leggibile mane-, di uno sbiadito eppur nitido titulus, che abbrevia la nasale n105. Risultato:

il mittente di quella famosa lettera era proprio il nostro Giovanni Manenti, e giustamente si firmava per tale.

La vincita al lotto nell’estate del 1525 e la rappresentazione della Man-

dragola nel carnevale del 1526 legano dunque a doppio filo il fiorentino

Niccolò Machiavelli e Giovanni Manenti – che spesso viene dato per vene- ziano, ma che per quel che mi consta era «senensis» (e che non fosse vene- to lo conferma anche la lingua di questa lettera e dei paratesti delle sue edizioni). Mi sembra interessante cercare di capire meglio i termini di que- sto rapporto. Intanto, è bene tenere a mente che questa lettera è la tessera di un mosaico del quale non ci resta nient’altro e che però si intuisce com- plesso. Machiavelli e Manenti devono aver fatto conoscenza di persona a Venezia nell’agosto-settembre del 1525, se non prima, ed essere rimasti in contatto epistolare nei mesi seguenti. Quella che ci resta è non per niente dichiaratamente una responsiva, scritta per soddisfare una precisa richiesta di Machiavelli che vuol sapere della riuscita della Mandragola: per soddi- sfare «el desiderio di V.S. de l’intendere del recitare de la sua Comedia de

Calimaco», desiderio evidentemente espresso nella perduta missiva ma-

chiavelliana. La recita allestita da Manenti sembra dunque concertata e se- guita a distanza dall’autore stesso. Se allarghiamo poi lo sguardo tutt’attor- no a quel paragrafo centrale e leggiamo altri passaggi della lettera, ci accor- giamo che egli agisce e riferisce come vero e proprio uomo di fiducia di Machiavelli a Venezia, giacché il fiorentino gli ha commesso, in una prece-

106MACHIAVELLI, Opere. Volume terzo: Lettere…, p. 576.

107«A questi proximi passati giorni, magnifico messer Nicolò padrone honorandissimo, ebi

una vostra litera insieme con el desiderato Decemnale, il che hebi molto caro et restovi, apresso molti altri oblighi, obligatissimo.», ivi, p. 575. Assumo che il Decennale in oggetto sia il primo, che poteva interessare al Manenti anche in vista di una ristampa; ma niente vieta di pensare an- che – per quanto mi paia molto meno probabile – al Decennale secondo, che poteva circolare benché incompiuto.

dente lettera, di parlare per suo conto nientemeno che col «Principo», cioè col doge:

Di poi ebi la vostra litera, non mi son trovato con la Serenità del Principo, ch’io li habi posuto dire quanto me imponete; ma penso ben quam primum io li parli, far quanto per V. S. comesso mi fia; et quello ne seguirà, vi si farà intendere106.

È molto probabile, allora, che fra i «litterati» frequentati da Machiavelli a Venezia nel settembre del 1525 ci fosse in prima fila anche Giovanni Ma- nenti. Non solo: è anche possibile che quando il Nerli parla di «cantafavo- le» che non a tutti piacciono – ma a qualcuno, appunto, sì – non intenda genericamente parlar di «chiacchiere», bensì alluda ai componimenti poe- tici coi quali Machiavelli «tratteneva» quei «litterati» (dei quali ai consoli dell’Arte della Lana, invece, non poteva importare alcunché). Non credo possa essere un caso, infatti, che la lettera del Manenti si apra giusto col ringraziamento a messer Niccolò per avergli spedito il «desiderato Decen-

nale»107, proprio quel Decennale che Machiavelli e i suoi amici, si è visto,

erano soliti designare come «cantafavola», proprio il suo componimento da araldo e da banditore, il suo poemetto da recitare e cantare: una «canta- favola» di cui l’autore doveva aver parlato (e chissà, forse anche dato qual- che assaggio) al Manenti giusto nell’estate dell’anno prima.

Nel documento Machiavelli canterino? (pagine 47-54)

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