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CAPITOLO QUARTO

Studio 2^ - Il percorso formativo e l’attuazione del modello assistenziale “narrative nursing integrato”

4.1 Razionale teorico

La necessità di adeguare le conoscenze e le competenze dei professionisti sanitari allo sviluppo della medicina, dell’innovazione tecnologica ed organizzativa, nonché ai mutamenti della domanda di salute, ha sollecitato molti sistemi sanitari a promuovere programmi per l’educazione continua dei professionisti sanitari. Tali programmi sono finalizzati a fornire ai professionisti sanitari quegli elementi di conoscenza necessari per mantenersi professionalmente aggiornati e competenti.

La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità (2007) nel raccomandare l’attivazione di percorsi formativi continui per il personale sanitario, ribadisce il ruolo strategico della formazione continua e dell’aggiornamento sul lavoro come strumenti fondamentali per mantenere competenze e saperi in linea con il progresso tecnologico, le nuove conoscenze e le richieste di salute.

Se, a quanto sopra richiamato, si aggiunge che ciascun professionista sanitario ha il dovere di impegnarsi nell’apprendimento continuo in base alle norme deontologiche che ne regolano l’operare, appare ancor più chiara quale sia l’importanza attribuita nei nostri contesti culturali e professionali al tema della formazione continua in sanità.

Sulla scorta di quanto avvenuto in altri sistemi sanitari, anche i policy makers italiani hanno inteso avviare, in virtù di un meccanismo di lesson drawing, ovvero una forma di apprendimento istituzionale che si realizza attraverso meccanismi emulativi di esempi stranieri (Capano et al., 2002), un programma nazionale di Educazione Continua in Medicina (ECM). Tale programma, dopo una fase sperimentale durata cinque anni, è andato incontro a un significativo processo di sviluppo. Ciò che emerge chiaramente dalla “Nuova ECM” disegnata dall’accordo Stato Regioni (2007, 2009) è la necessità di ancorare quanto più possibile gli interventi formativi ai bisogni dei professionisti della salute, oltre che agli obiettivi dell’organizzazione sanitaria di cui fanno parte, al fine di perseguire un traguardo comune che è quello della salute dei cittadini. Il progetto ECM (Educazione Continua in Medicina) in Italia, infatti, offre molte opportunità e va valutato come un evento di grande cambiamento per il miglioramento della qualità dell’assistenza sanitaria nel nostro Paese. Sono rivoluzionarie sia le premesse (necessità di adeguare e mantenere nel tempo le proprie conoscenze), sia il modo graduale con il quale è stata introdotta l’esperienza nel mondo della professione sanitaria. Il progetto ECM rappresenta una sfida per i singoli professionisti della salute,

organismi recepire che si è aperta una nuova epoca nella quale le competenze, la formazione e l’addestramento sul campo hanno una certa rilevanza e che esiste una reale necessità di garantire ai professionisti ed agli utenti il mantenimento delle competenze tecnico-professionali, come prerequisito per una buona qualità del sistema sanitario.

All’interno di un programma di Governo clinico la formazione continua gioca, quindi, un ruolo strategico perché, come motore propulsore di innovazione e cambiamento, promuove la pianificazione, la realizzazione e la valutazione degli esiti di tutti gli eventi formativi. Il modello di riferimento è quello del Continuing Personal Development (CPD), un ciclo di sviluppo continuo dove l’evento formativo è il risultato di un bilanciamento tra bisogni formativi del singolo o del gruppo e le linee strategiche in materia di sanità pubblica della Regione/Azienda (Biocca, 2004). In tal senso, la formazione continua può essere intesa come l'insieme dei processi formativi, radicati nella formazione di base, che in modo costante e ricorsivo consentono l'adeguamento delle conoscenze e delle competenze dei singoli e dei gruppi di professionisti ai mutamenti dei ruoli e dei compiti professionali e sociali, richiesti dal cambiamento continuo dell'organizzazione sanitaria e del suo contesto, in termini di attese sociali, ambiente socio-economico-politico, domande e bisogni di salute (Rotondi, 2002). Le caratteristiche dinamiche della formazione continua seguono, infatti, le caratteristiche dell'organizzazione sanitaria che, in quanto sistema aperto, interagisce con variabili esterne e, in quanto sistema dinamico, modifica costantemente il suo equilibrio interno. Se è questo il modo di concepire la formazione continua in Sanità allora appare chiara la sua natura di funzione specifica del Servizio Sanitario stesso (Biocca, 2004).

La concezione di formazione continua è da attribuirsi anche a profondi cambiamenti epistemologici che il concetto di “fare formazione continua” ha subito rispetto ad alcuni paradigmi. Si è passati, infatti, dal paradigma tradizionale fortemente legato all'identità professionale e quindi al profilo distintivo delle singole professionalità, a quello socio/organizzativo attento all’integrazione dei saperi per lo sviluppo di competenze trasversali orientate alla dimensione organizzativa del servizio (Bonometti, 2009).

Nello specifico, i principi epistemologici di questi due paradigmi presentano delle differenze sostanziali in termini di orientamento, contenuti, modelli d’apprendimento, modalità di relazione e

“stile” dei formatori in relazione ai partecipanti coinvolti nella formazione.

Il paradigma tradizionale intende la formazione come prodotto i cui contenuti sono già predefiniti e vengono semplicemente trasmessi da un docente ad un discente. Tale paradigma utilizza un modello d’apprendimento “chiuso” per cui il processo educativo avviene attraverso un modello verticale (botton up). In tal senso il ruolo del formatore è quello di esperto indiscusso che diffonde il sapere

attraverso uno stile acritico e indifferente, mentre lo stile del partecipante è passivo e deresponsabilizzante (Maioli & Mostarda, 2008).

Il paradigma socio-organizzativo, invece, parte da una concezione dove la formazione è intesa come processo i cui contenuti sono co-costruiti fra formatore e partecipanti, in funzione del cambiamento.

Tale paradigma utilizza un modello d'apprendimento “aperto” dove è prevista una circolarità del processo educativo. Il ruolo del formatore è quello di interlocutore privilegiato con cui costruire nuovi saperi e che si approccia con uno stile critico e partecipativo, mentre lo stile del partecipante è attivo e responsabilizzante (Bonometti, 2009).

Da ciò deriva, quindi, un passaggio da una formazione per prestazioni precostituite e stabili ad un apprendimento finalizzato ad una mobilità di saperi e di lavoro per far fronte all’alta incertezza e dinamicità che caratterizzano le organizzazioni sanitarie e le discipline scientifiche. In tal senso, lo scopo della formazione continua sarà quello di modificare, strutturare, e implementare competenze per adeguare la risposta sanitaria alla dinamicità dei bisogni della collettività e del contesto socioculturale ed organizzativo.

Pertanto, la formazione si può definire: una leva strategica per il raggiungimento degli obiettivi aziendali e per lo sviluppo della salute; un agente di promozione culturale per una gestione integrata tra professioni e centrata sulla persona; una modalità per realizzare la valorizzazione del professionista anche in un’ottica di sviluppo professionale e l'integrazione dei saperi caratterizzata da prestazioni multiprofessionali ad alta interdipendenza (Alessandrini, 2001).

Da quanto sopra descritto si viene a configurare uno scenario dove la formazione continua in sanità deve allenare il singolo professionista a progettare processi assistenziali, curativi e gestionali in allineamento con il sistema professionale, gli obiettivi aziendali e l’epidemiologia della collettività (es. patologie che impattano fortemente sulla mortalità della cittadinanza).

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Occorre porre particolare attenzione ai professionisti sanitari e alle loro conoscenze/competenze consentendo così di attuare più agevolmente e consapevolmente i possibili cambiamenti e adattamenti delle organizzazioni locali, in relazione all’evoluzione dei bisogni sanitari. La formazione si interseca così sia con le potenzialità e i bisogni dell’individuo sia con le logiche e i bisogni dell’organizzazione, si pone l’obiettivo di attivare la dimensione dell’apprendimento e di ancorarlo al sistema delle competenze, punto di incontro e snodo critico del rapporto individuo-organizzazione (Biocca, 2004).

Fondamentale è allora il passaggio dalla memorizzazione di conoscenze all’acquisizione di competenze, tipica del CPD. A tale proposito, Saiani (2010) sottolinea come le competenze possano essere acquisite in modo efficace soltanto se il processo si realizza gradualmente, proprio partendo dai problemi professionali individuati dagli stessi operatori sanitari, cioè da coloro che li devono affrontare.

Ne consegue che l'individuo, l'organizzazione, l'apprendimento, il lavoro e le competenze sono le parole chiave di una moderna concezione della formazione attorno alle quali ruota necessariamente la ridefinizione della modalità di intendere l’articolazione delle attività che la compongono. Il passaggio, come già accennato, è quello da un’attività di “catechizzazione” dei percorsi formativi, alla progettazione di corsi di formazione, da una formazione preordinata ad una formazione condivisa (Accordo Stato Regioni, 2009). Il nuovo programma ECM viene così a precisarsi nei termini di “un sistema che, partendo da indirizzi concordati a livello nazionale, offre adeguati spazi alla valorizzazione delle specifiche realtà regionali fino a quelle del singolo operatore (Zanobini, 2008).

Le novità che esprimono al meglio tale impostazione sono rappresentate da due strumenti di programmazione dell’ECM: il Piano Aziendale della Formazione e il Dossier Formativo. Entrambi garantiscono lo sviluppo di percorsi formativi coerenti con le strategie del sistema sanitario sia a livello locale che nazionale.

Nella definizione operata dal legislatore, il Piano della Formazione Aziendale (PAF) è il documento dell’Azienda o istituzione sanitaria accreditata, pubblica o privata, elaborato con il supporto delle strutture o degli organismi preposti alla formazione continua che descrive il contesto, le strategie e l’insieme delle attività formative previste dall’azienda, erogate direttamente o in parte attraverso accordi specifici con provider esterni (Accordo Stato Regioni, 2008). Esso, pertanto, si configura come il principale strumento di programmazione delle attività formative erogate da un’Azienda Sanitaria e consente di declinare gli obiettivi formativi nazionali e regionali a livello locale. Ovviamente tale documento di programmazione deve essere elaborato coerentemente con il processo di budgeting e deve tener conto di una pluralità di fonti: il piano strategico aziendale; i piani sanitari e gli obiettivi

formativi regionali e nazionali; i bisogni formativi dei singoli operatori, delle equipe, delle macrostrutture aziendali, nonché del profilo di salute della popolazione insistente sul territorio di competenza. Per poter dispiegare al meglio le proprie potenzialità di strumento di governo della formazione continua degli operatori sanitari e di dispositivo per il conseguimento degli obiettivi aziendali, il PAF deve essere concepito come un processo che a partire da bisogni formativi (analisi della domanda) conduce alla costruzione di una possibile risposta (progettazione degli apprendimenti) nella prospettiva di un cambiamento o nell’attesa di un risultato misurabile nei termini di una nuova o diversa competenza professionale e/o organizzativa (valutazione delle ricadute; Presutti et al., 2010). In tale processo, l’analisi dei bisogni formativi degli operatori sanitari si configura sia come una vera e propria attività di ricerca che deve tener conto dei profili di ruolo, delle motivazioni, delle conoscenze e delle esperienze, sia come attività finalizzata all’acquisizione di dati e informazioni utili per proseguire nella progettazione dell’esperienza formativa (definizione degli obiettivi generali e specifici, individuazione dei destinatari, strutturazione dei contenuti e scelta dei metodi didattici) e, di seguito, nella realizzazione dell’intervento formativo stesso (Quaglino et al., 2004). La loro importanza implica un chiarimento concettuale poiché in letteratura non esiste una definizione univoca di bisogno formativo e non sono poche le difficoltà incontrate dai ricercatori nel presentarne una definizione omogenea. Monasta (1998) ne propone alcune che comprendono:

1. i desideri di sviluppo personale dichiarati dai lavoratori e finalizzati ad un miglior svolgimento dei loro compiti;

2. lo scarto tra i contenuti della formazione professionale di base e ciò che i lavoratori desidererebbero (o dovrebbero) apprendere;

3. lo scarto tra il modello pedagogico utilizzato dalla formazione pregressa e i desideri dei lavoratori o delle loro organizzazioni;

4. lo scarto tra risorse a disposizione per la formazione (es. centri, docenti) e le risorse necessarie;

5. lo scarto tra il ruolo teorico della formazione e il ruolo effettivamente giocato;

6. lo scarto tra i comportamenti attuati e il modello teorico, filosofico, etico e deontologico che sottende al ruolo ideale.

Da una lettura di queste concezioni emerge che, in alcuni casi si tende a privilegiare aspetti legati ad una presupposta priorità organizzativa (come ad esempio le definizioni 1 e 4); in altri casi, invece, si favoriscono aspetti maggiormente connessi alla priorità di apprendimento/cambiamento individuale (come, ad esempio, le definizioni 2 e 3).

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Un secondo dato interessante è costituito dal fatto che in ben cinque definizioni, fra quelle sovra-riportate, il bisogno di formazione è definito dal termine “scarto”. Il che di per sé potrebbe anche essere ovvio: il bisogno si riferisce infatti innanzi tutto ad uno stato di mancanza da colmare, ad una distanza tra ciò che si ha o si è e ciò che si pensa si dovrebbe avere o essere (Morelli, 1988). A tale proposito, tuttavia, Gagliardi (1991) sottolinea che una definizione di bisogno formativo accettabile deve dunque tenere conto contemporaneamente di più piani e livelli di analisi, poiché un conto è accettare tale definizione di principio, un conto è concludere che l’analisi dei bisogni viene ad identificarsi tout court con un’operazione di misurazione di uno scarto da colmare.

Una definizione più esaustiva è quella proposta da Quaglino (1998), secondo il quale i bisogni formativi costituiscono delle specifiche esigenze connesse alla preparazione professionale dei singoli che hanno per contenuto non solo ciò che gli individui “fanno” (la loro attività) ma anche ciò che si propongono “di fare” (i loro piani e progetti) e “come fare” (attraverso quale metodologia), in riferimento alle esigenze del contesto in cui sono inseriti. Ne emerge una prospettiva più ampia della nozione di bisogno formativo che include anche i sistemi di motivazione e di aspettative, nonché la progettualità rispetto ai loro obiettivi professionali.

A prescindere dalla concezione di bisogno formativo, l' analisi dei suoi risultati risulta determinante qualora si voglia intraprendere una programmazione formativa efficace dei professionisti sanitari (Alessandrini, 2001). Ciò è espresso chiaramente anche nell’altro strumento di programmazione formativa proposto dal programma ECM, ovvero il Dossier Formativo.

Il Dossier Formativo (DF) viene definito come “lo strumento di programmazione e valutazione del percorso formativo del singolo operatore (individuale) o del gruppo di cui fa parte (equipe o network professionale). Non è, quindi, un portafoglio delle competenze, ma può essere considerato come un precursore ed è comunque correlato al profilo professionale ed alla posizione organizzativa” (Accordo Stato Regioni, 2007). Alla luce della definizione contenuta nell’Accordo, il DF non può configurarsi quindi come una semplice raccolta di informazioni, ma deve costituirsi come uno strumento di accompagnamento del professionista in grado di: rendere esplicito e visibile il proprio percorso formativo; programmare la formazione individuale e di gruppo; valutare la pertinenza e la rilevanza delle azioni formative erogate e frequentate in rapporto al proprio lavoro. Esso, in sintesi, si pone come strumento per conseguire le seguenti finalità:

individuazione e presa di coscienza dei bisogni formativi e delle responsabilità individuali e di gruppo;

guida ai singoli e alle organizzazioni sanitarie nella scelta e nella realizzazione di obiettivi validi per una formazione appropriata;

revisione critica delle modalità di lavoro all’interno delle organizzazioni sanitarie, così da collegare direttamente la formazione al miglioramento dei processi;

crescita personale (e quindi non solo negli aspetti tecnico-professionali) capace di suscitare entusiasmo e impegno.

PAF e DF sono quindi elementi indispensabili affinché la ECM evolva verso lo sviluppo professionale continuo (CPD), sviluppo che per definizione deve durare per tutta la vita professionale.

La formazione dei professionisti sanitari e, quindi, anche dell’infermiere, non può essere pensata solo come “manutenzione tecnica”, ma come supporto allo sviluppo di “sistemi di competenze”. E' decisamente riduttivo connotare come esclusivamente “tecnico-professionali” tali competenze, dato che esse devono comprendere tutta la gamma delle attività richieste in contesti sociali continuamente mutevoli. Le professioni sanitarie, infatti, oltre a caratterizzarsi per la specifica competenza tecnico-operativa, connessa ai compiti e ai contenuti della professione, si caratterizzano anche di altre competenze, quali quelle: etiche e deontologiche, che sono sottese alla operatività quotidiana a sostegno del sistema dei giudizi e delle decisioni; analitico-intuitive, che implicano capacità di pensiero critico e analitico, capacità di immaginazione, soluzione innovativa ai problemi e di assumersi il rischio decisionale in situazioni di incertezza; relazionali e comunicative, che costituiscono il background indispensabile per il sistema delle relazioni con i pazienti e loro familiari; gestionali, che implicano la capacità di organizzare e gestire attività e gruppi di lavoro o, ai livelli più complessi, organizzazioni di lavoro e di ricerca scientifica, per il miglioramento della qualità dell’assistenza e dei risultati di salute delle persone assistite (Alessandrini, 2001). La rappresentazione della molteplicità degli aspetti delle competenze dei professionisti sanitari restituisce valore e visibilità a tutte le dimensioni sopra elencate e diventa fondamentale perché permette di dare evidenza al bagaglio dei saperi peculiari (profilo professionale), ma anche a ciò che viene richiesto dal contesto nel quale esse vengono esercitate (Alvaro et al., 2007; Di Stanislao & Bacchielli, 2009). Una formazione che alimenta la multidimensionalità delle competenze del professionista, viene pertanto a connotarsi come un processo

“efficace” poiché garantisce la continuità tra lavoro e formazione e garantisce lo scopo ultimo, ovvero quello della qualità delle cure sanitarie e dei risultati di salute (Quaglino, 2005)

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L’efficacia della formazione continua in medicina: dai concetti teorici all’esperienze empiriche

A tale proposito, in letteratura, alcuni studi hanno indagato sull’efficacia della formazione continua in medicina in ordine alla pertinenza degli obiettivi formativi, all’appropriatezza del piano di formazione, alla verifica delle performance e al contributo per il miglioramento dell’organizzazione (Alfano et al., 2003). Altri studi, invece, hanno valutato l’efficacia di particolari metodiche didattiche utilizzate nei diversi programmi formativi (Davis et al., 1999; O’ Brien et al., 2001; Bloom, 2005; Reeves et al., 2008; Cook et al.,2008; Mazmanian et al., 2009).

Tuttavia, dai molti studi e revisioni condotte dai Randomized Control Trials non emergono forti evidenze sulla capacità dei programmi di formazione continua di modificare i comportamenti dei professionisti sanitari e di incidere significativamente sugli esiti di salute (Rudnick et al., 1983; Davis et al., 1992; Wutoh et al., 2004; Mansouri et al., 2007; O'Brien et al., 2007; Marinopoulos et al., 2007).

Solo in coincidenza con l’utilizzo di metodologie formative interattive o miste (Bloom, 2005;

Forsetlund et al., 2009) e di tecnologie multimediali (Mazmanian et al., 2009) o limitatamente ad alcune aree di intervento (Davis et al., 2009), sembra che i programmi di formazione continua in medicina mostrino una qualche capacità di incidere positivamente sui comportamenti dei professionisti e sui risultati di salute dei pazienti.

Anche nello specifico ambito cardiologico alcuni studi, pur prevedendo dei programmi formativi degli operatori sanitari, pongono la loro attenzione a valutare il miglioramento degli outcomes - prevalentemente clinici - dei pazienti cardiologici senza specificare le ricadute della formazione in termini di cambiamenti comportamentali dei professionisti sanitari coinvolti. Lo studio Global Secondary Prevention Strategies to Limit Event Recurrence After Myocardial Infarction (GOSPEL;

Giannuzzi et al., 2008), che ha riguardato più centri di riabitazione cardiovascolare in Italia, prevedeva un programma formativo rivolto ai professionisti sanitari (infermieri e medici di medicina generale). I contenuti riguardavano un programma breve (condensato in 2-3 sedute) di educazione alla salute dei pazienti cardiopatici, dimessi dall'ospedale, da effettuarsi in un centro di riabilitazione cardiovascolare.

Nello specifico, il programma prevedeva un supporto e rinforzo al paziente rispetto all’aderenza terapeutica, all’acquisizione e al mantenimento di corrette abitudini alimentari, nonché al controllo del peso, alla sospensione del fumo, alla gestione dello stress e allo stimolo all’attività fisica. In tale programma formativo non si evince tuttavia il modello assistenziale infermieristico proposto nella gestione dei pazienti durante il follow-up e i cambiamenti delle attività assistenziali generati dalla formazione data. Anche le fasi del processo nursing (accertamento, assistenza clinica ed educazione) in cui sviluppare il programma formativo non sono state descritte. Lo studio RESPONSE (Randomized

Evaluation of Secondary Prevention by Outpatient Nurse Specialists, 2010) presso la Società Europea di Cardiologia (ESC), pur dimostrando l’evidenza dell’efficacia di un programma gestito dal personale infermieristico per la prevenzione primaria o secondaria dei pazienti cardiologi, non specifica se i professionisti sanitari avessero o meno seguito un percorso formativo, quali fossero eventualmente i contenuti di tale programma e la metodologia assistenziale utilizzata. Infine, anche i principali risultati dello studio EUROACTION (2012), che prevedeva un programma di prevenzione secondaria cardiovascolare nurse-directed, pur mostrando che il gruppo di intervento presentava un miglioramento statisticamente significativo rispetto alle cure abituali, non hanno fatto alcun accenno rispetto alla formazione degli infermieri, al modello assistenziale infermieristico utilizzato, agli strumenti assistenziali utilizzati, alla collaborazione con altri professionisti (es. psicologo, dietologo), nonché ai cambiamenti dei comportamenti degli infermieri nel loro agito professionale.

Il quadro d’insieme in merito alla formazione continua, pertanto, è quello di uno strumento di policy la cui validità non è ad oggi sostenuta da adeguate evidenze scientifiche, ma che tuttavia ha l’innegabile merito di aver proposto e valorizzato la cultura della formazione permanente come attività sistematica dei professionisti inseriti nelle organizzazioni sanitarie.

Le riflessioni emerse dall’analisi della letteratura qui presa in rassegna hanno quindi guidato la progettazione del programma formativo degli infermieri che si è concretizzata nello Studio 2^ della ricerca.

4.2 Articolazione dello studio

Come accennato (Cap. 2), lo Studio 2^, ha previsto un approccio multi metodo e si è composto di 5 fasi; alcune di esse di natura descrittiva ed esplorativa. E’ stato utilizzato il Dossier Formativo di gruppo, quale strumento per implementare un efficace intervento formativo che potesse svilupparsi su più livelli: un livello relativo alla valutazione della coerenza tra la formazione programmata/realizzata e i bisogni dei professionisti, un livello relativo alla valutazione delle performance e un ultimo livello in termini di ricadute della formazione dei professionisti sull’agito professionale e sui risultati di salute del paziente che sono stati analizzati nello studio 3. Le fasi dello Studio 2^ hanno nello specifico riguardato:

Fase 1^ - l’analisi del fabbisogno formativo - ha avuto l’obiettivo di indagare il contesto specifico di riferimento (cardiologico), nonché le esigenze formative dei professionisti infermieri dell’U.T.I.C.;

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Fase 2^ - la definizione del modello assistenziale narrative nursing integrato e i relativi strumenti assistenziali -ha avuto l’obiettivo di dettagliare la struttura del percorso assistenziale, di descrivere i contenuti specifici del modello narrative nursing integrato del paziente con SCA e di descrivere gli strumenti assistenziali.

Fase 3^ - la progettazione del percorso formativo – ha avuto l’obiettivo di progettare l’intera programmazione formativa rivolta a tutti i professionisti infermieri.

Fase 4^ - la valutazione delle conoscenze/competenze acquisite dai professionisti infermieri – ha avuto l’obiettivo di valutare le conoscenze e le competenze degli infermieri apprese durante il percorso formativo

Fase 5^ - la valutazione delle competenze dei professionisti agite sul campo – ha avuto l’obiettivo di valutare se le competenze apprese durante il percorso formative sono state trasferite nell’operato degli infermieri

Le fasi sopra citate verranno descritte di seguito in maniera dettagliata.

4.3 Fase 1^ - L’analisi del fabbisogno formativo

L’analisi del fabbisogno formativo si qualifica in primo luogo come un’attività di ricerca finalizzata all’acquisizione di dati e informazioni utili ed attendibili per proseguire nelle tappe successive del processo formativo: progettazione dell’esperienza formativa, individuazione degli obiettivi didattici, dei contenuti e dei metodi di insegnamento da adottare e la realizzazione di tale esperienza attraverso un evento formativo (Quaglino, 1998). Essa, inoltre, è la prima componente essenziale di un processo formativo che evidenzia le “competenze” che un professionista deve sviluppare rispetto alla gestione di una tipologia di paziente, nel nostro caso, che presenta una SCA.

Ai fini della presente ricerca è stata utilizzata una concezione ampia di bisogno formativo (Quaglino, 1998) poiché, in linea con gli obiettivi dello studio, essa prende in considerazione anche le motivazioni, le aspettative dei professionisti infermieri, nonché gli elementi clinici e psico-sociali necessari per garantire risultati di salute ai pazienti con SCA.

La fase 1^ dello studio 2^ ha avuto, quindi, come obiettivo quello di individuare una serie di elementi mancanti ad arricchire il modello assistenziale tradizionale esistente con quello integrato, a partire dalla letteratura specifica in ambito cardiologico e dalle esperienze dei professionisti infermieri. La metodologia utilizzata per l’analisi del fabbisogno formativo ha riguardato un’accurata consultazione delle Linee guida Europee di prevenzione cardiovascolare e una attenta revisione della letteratura

specifica della patologia cardiovascolare (in merito soprattutto ai fattori di rischio) e un’indagine sulle esperienze professionali degli infermieri che operano in U.T.I.C.

Revisione della letteratura

La malattia cardiovascolare, in passato ritenuta una naturale conseguenza dell’invecchiamento, è attualmente considerata una patologia con delle precise cause favorenti o fattori di rischio (FR). Le manifestazioni cliniche della malattia cardiovascolare vanno dalla SCA (angina instabile e infarto), allo scompenso cardiaco fino alla morte; in questa ricerca è stata presa in considerazione la SCA dove l'incidenza di recidive può arrivare fino al 20% per anno (Linee Guida europee sulla prevenzione delle malattie cardiovascolari nella pratica clinica, 2012).

La causa della SCA è una malattia delle arterie, detta aterosclerosi, che consiste nella formazione di placche ricche di colesterolo che quando si formano nelle coronarie tendono ad ostruirle. Se le placche si rompono si determina la formazione di trombi che occludono improvvisamente e completamente la coronaria, provocando così l’infarto. Ricerche di base e studi clinici hanno significativamente ampliato le nostre conoscenze sulla fisiopatologia dell'arteriosclerosi, con conseguente chiarimento dell’impatto che i fattori di rischio cardiovascolari possono avere sullo sviluppo, sulla progressione e sulla recidiva della malattia (EUROASPIRE Study Group, 2009).

In questa revisione della letteratura verranno trattati i principali fattori di rischio cardiovascolari modificabili “classici” (dislipidemia, fumo, ipertensione, diabete, obesità), con uno sguardo particolare ai fattori di rischio cardiovascolari “additivi” (sedentarietà e fattori di rischio psicosociali), oggetto di crescente interesse da parte della comunità scientifica internazionale.

La dislipidemia, intesa come aumento delle quote di lipidi nel sangue (colesterolo, trigliceridi) è un riconosciuto FR per lo sviluppo di atetreosclerosi e malattie cardiovascolari (Mensik et al., 2003).

Molti studi clinici hanno mostrato che il trattamento delle dislipidemie previene la malattia coronarica.

A conferma di ciò la più recente metanalisi “Cholesterol Treatment rialists’ Collaboration" (2011) ribadisce la riduzione dose-dipendente di malattia cardiovascolare che si ottiene con la riduzione di colesterolo LDL. Per ogni calo di circa 40 mg/dL di colesterolo LDL si ottiene, infatti, una riduzione di mortalità e morbidità cardiovascolare pari al 22% (Baigent et al., 2010). Numerosi trials (4S9, 1994;

CARE, 1998 & MIRAC, 2002) hanno evidenziato il ruolo favorevole della statina nella riduzione dei livelli di colesterolo e, quindi, prevenzione secondaria degli eventi cardiovascolari. Lo studio 4S9 (1994) è il primo grande studio di prevenzione secondaria (piu di 4000 pazienti trattati per circa 5 anni)

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totale. Lo studio CARE (The Cholesterol and Recurrent Events Trial, 1998), valutando gli effetti della terapia con pravastatina in pazienti anziani (1283 pazienti, tra i 65 e i 75 anni, con valori di colesterolemia inferiori a 240 mg/dL) che avevano già avuto un infarto miocardico, ha mostrato una riduzione del rischio relativo (RR) di eventi coronarici maggiori. Lo studio MIRAC (2001), ha mostrato invece in modo prospettico l’importanza della somministrazione precoce delle statine. Le Linee Guida Europee (2012) raccomandano l’utilizzo delle statine in prevenzione secondaria in tutte le tipologie di pazienti. Fondamentale è il ruolo di una corretta alimentazione nella prevenzione delle malattie cardiovascolari. Numerose sono, infatti, le evidenze che mostrano come la dieta possa influenzare la malattia aterosclerotica sia direttamente sia attraverso la sua influenza sui principali fattori di rischio (livelli glicemici, livelli lipidici, valori pressori).

Nei fattori di rischio classici cardiovascolare appartiene anche il fumo di sigaretta. L’abitudine al fumo di sigaretta, come ogni dipendenza, rappresenta una condizione caratterizzata dalla ricerca di una sostanza, nel caso specifico il tabacco, al fine: a) di riprodurre il piacere dato da quella sostanza b) di mitigare la sintomatologia astinenziale data dalla privazione della sostanza stessa.

Analogamente a quanto dimostrato gia per altre malattie (quali tumori del polmone, della laringe, del cavo orale, BPCO sono per citarne alcune) esiste una relazione causale anche tra fumo di sigaretta e malattie cardiovascolari. Se è in linea di massima comprovato che maggiore è il numero delle sigarette fumate, maggiore e il rischio che si verifichi un evento cardiovascolare, la relazione non appare tuttavia lineare: sono infatti ad alto rischio anche soggetti che fumano meno di 10 sigarette al giorno, i cosiddetti “light smokers (Godtfredsen et al., 2003). Il rischio dato dal tabagismo è ancora più alto nei soggetti che continuano a fumare dopo una sindrome coronarica acuta, mentre coloro che smettono hanno una riduzione degli eventi cardiovascolari e della mortalità. Il beneficio della cessazione del fumo, infatti, vale anche per coloro che sono sopravvissuti ad un primo evento cardiovascolare. A questo proposito, numerosi studi hanno dimostrato che, nei pazienti con sindrome coronarica acuta che smettono di fumare ,il rischio relativo di mortalitàsi riduce di circa la metà nel giro di due anni (Wilson et al., 2000; Critchley et al., 2003). Nessun altro intervento di prevenzione secondaria, preso isolatamente, determina un beneficio di questa entità (Yusuf S, 2002) .Coloro che continuano a fumare, hanno un aumento del rischio di morte che e stato stimato tra il 22 e il 47%. In altre parole, e ragionevole pensare che il paziente che smette possa rientrare nel giro di poco tempo in una fascia di rischio paragonabile a quella dei non fumatori (Gerber et al., 2009). Tutte le linee guida sono d’accordo nell’affermare che un obiettivo primario delle misure di prevenzione secondaria cardiovascolare deve essere la cessazione completa e immediata dell’abitudine al fumo. Tutti i pazienti che fumano devono

essere incoraggiati a smettere e deve essere fornito loro l’aiuto necessario per farlo. Gli interventi più efficaci sono quelli che individuano quanto il paziente è motivato e pronto a smettere e quelli volti a fornire informazioni (counseling), sostegno e - quando necessario - un supporto farmacologico adattato ai bisogni e alle caratteristiche individuali (Hamm et al., 2011). Alcuni soggetti particolarmente dipendenti possono necessitare di un riferimento specialistico presso un centro antifumo.

Un altro fattore di rischio cardiovascolare è rappresentato dall’ipertensione arteriosa, intesa come un aumento dei valori pressori nel sangue al di sopra della norma, anche se in letteratura non esiste una netta linea di demarcazione tra pressione arteriosa normale ed elevata in quanto la relazione tra rischio cardiovascolare e pressione arteriosa ha in realtà un andamento continuo a partire da valori sisto-diastolici pari a 115-110 mmHg e 75-70 mmHg (Lewington et al., 2003). Tuttavia, molteplici studi, tra cui il FEVER (2005), hanno dimostrato che, nei pazienti in cui si raggiungeva un obiettivo pressorio inferiore a 140/90 mmHg, vi era una significativa riduzione dell’incidenza di ictus, eventi coronarici e mortalita cardiovascolare rispetto a coloro che mantenevano valori pressori superiori.

Una storia di ipertensione arteriosa è di frequente riscontro nei pazienti con sindrome coronarica acuta ed i valori pressori basali presenti prima che si verifichi un evento coronarico correlano con un outcome peggiore ed una maggiore mortalità (Vasan et al., 2001). Lo studio INVEST (2006) ha confermato l’importanza della riduzione pressoria. I pazienti che hanno avuto un evento coronarico richiedono pertanto l’immediato impiego di interventi finalizzati ad uno stretto controllo dei valori pressori ed ad una drastica riduzione del profilo di rischio globale poichè spesso coesistono altri fattori di rischio cardiovascolare (dislipidemia, fumo di sigaretta, diabete mellito, obesità) che contribuiscono ad incrementarlo esponenzialmente. Rispetto al trattamento farmacolgico, diversi studi hanno dimostrato che l’assunzione di farmaci come i beta-bloccanti (Shekelle et al., 2003) e gli ace-inibitori (Fox , 2003) determinano una riduzione della mortalità e delle recidive infartuali del 20-25% nei pazienti sopravvissuti ad un infarto.

Un altro fattore di rischio cardiovascolare è il diabete mellito, una malattia del metabolismo causata da un difetto (assoluto o relativo) dell’ormone insulina, cioè dell’ormone che fa entrare nei tessuti il glucosio presente nel sangue, permettendone quindi l’utilizzo come substrato energetico da parte delle cellule (Norhammar, et al., 2003). L’iperglicemia provoca conseguenze gravi nel medio-lungo periodo a carico di tutti i vasi sanguigni, sia piccoli, sia grandi (aterrosclerosi). L’aumento dell’aterosclerosi rende il diabete mellito uno dei fattori di rischio cardiovascolare di maggiore impatto tra i fattori di rischio cardiovascolare (Norhammar et al., 2004). Persino la condizione di cosiddetta intolleranza

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