CAPITOLO III
IL PROGRAMMA DI GOVERNO IN EPOCA STATUTARIA E NELLA PRIMA FASE DELLA STORIA REPUBBLICANA
«L’ideale democratico originario si basava sulla concezione che i più condividessero un ideale comune di giustizia.
Tuttavia oggi la comunanza di opinione sui valori fondamentali non è sufficiente a determinare una azione governativa programmata. Il programma specifico necessario ad unire i sostenitori del governo o a mantenere insieme un partito, deve essere basato sull’unione di interessi diversi, unione che può essere raggiunta soltanto con un processo di contrattazione. Tale programma non sarà, quindi, espressione del desiderio comune di raggiungere particolari risultati.» FRIEDRICH VON HAYEK
SOMMARIO: 1. Rilevanza dell’istituto del programma di governo nel sistema statutario - 1.1. Programma e forma di governo costituzionale pura (solo sulla carta) - 1.2. Programma ed obiettivi: questione di fatti o di persone? - 1.3. Il programma del governo fascista - 2. Il programma di governo nei lavori dell’Assemblea costituente - 3. Coalizione e programma: i governi della Repubblica nella prima fase della sua storia: 1948–1992 - 3.1. Una democrazia consensuale: l’alternativa impossibile - 3.2. I governi di coalizione: l’accordo di governo - 3.2.1. Partiti, accordo, programma - 3.2.2. Gli strumenti per superare la “corsa ad ostacoli” - 3.2.2.1. Il ruolo del Capo dello Stato tra “parlamentarizzazione” della crisi e scioglimento anticipato delle Camere - 3.2.2.2. La compressione delle spinte centrifughe: la questione di fiducia - 3.2.2.3. Verifiche di governo e rimpasti ministeriali - 3.3. Governi di coalizione e attuazione dell’accordo in Parlamento - 3.3.1. La I legislatura (1948 - 1953): i programmi del centrismo - 3.3.2. La marcia verso il centro-sinistra: divisi tra “formula” e “contenuto” - 3.3.2.1. La II legislatura (1953 - 1958): il programma come contratto tra alleati – 3.3.2.2. La III legislatura (1958 - 1963): più distanti, più precisi – 3.3.2.3. La IV legislatura (1963 - 1968): indirizzo e formula - 3.3.3. Dalla crisi del centro-sinistra alla solidarietà nazionale – 3.3.3.1. La V legislatura (1968 - 1972): la crisi di un equilibrio – 3.3.3.2. La VI legislatura (1972 - 1976): tra “monocolori” e “coalizione minima” – 3.3.3.3. La VII legislatura (1976 - 1979): prove di compromesso storico – 3.3.4. I programmi del pentapartito – 3.3.4.1. L’VIII legislatura (1979 - 1983): accordi sulle politiche – 3.3.4.2. La IX legislatura (1983 - 1987): coalizioni “di formula” per un Premier “forte” – 3.3.4.3. La X legislatura (1987 - 1992): un pentapartito “di programma”.
1. Rilevanza dell’istituto del programma di governo nel sistema statutario
«Un Gabinetto che sotto la propria responsabilità politica per ragioni di opportunità o per esigenze superiori dello Stato, chiede di rimandare a tempo più o meno prossimo, l’esposizione del suo programma, non agisce contro lo spirito del regime costituzionale parlamentare»449.
134 Come si evince facilmente dalle parole del Chimienti, la presentazione del Governo davanti alle Camere, momento necessario per la nascita del nuovo Esecutivo ai sensi dell’art. 94 della Costituzione, non era considerato un atto formalmente dovuto dallo Statuto albertino del 1848.
1.1. Programma e forma di governo costituzionale pura (solo sulla carta)
In relazione al procedimento di formazione del Governo, l’art. 65 dello Statuto era molto stringato: «Il Re nomina e revoca i suoi ministri». Di conseguenza, in mancanza di una dettagliata disciplina positiva, le modalità di instaurazione del rapporto fiduciario vennero progressivamente regolate da consuetudini, convenzioni e prassi costituzionali, direttamente legate all’evoluzione del sistema politico e di altri istituti giuridici riferibili alla forma di governo450.
E fu proprio in forza di una consuetudine, nata nei primi anni di vigenza dello Statuto albertino, che il Governo, dopo la nomina (ma senza un termine preciso), iniziò a presentarsi alla Camera ad esporre il suo programma451. Era ovviamente il Re a nominare i membri del Gabinetto, in via autonoma e con proprio giudizio discrezionale, sebbene tenesse conto degli orientamenti parlamentari. A seguito del giuramento, prestato nelle mani del sovrano, i ministri entravano nel pieno dei poteri e permanevano nelle loro funzioni sino alla revoca o all’accettazione delle loro dimissioni da parte del Re: non era quindi previsto alcun passaggio parlamentare per la formale assunzione della carica.
Facendo riferimento ad antiche consuetudini costituzionali europee452, fin dall’inizio dell’esperienza statutaria, i governi nominati dal monarca comunicavano al Parlamento la propria entrata in carica. Tale comunicazione avveniva solitamente entro un intervallo
450 V. CALZOLAIO, Programma di governo e rapporto di fiducia nello Stato liberale (1848 - 1922), in Annuario di diritto comparato e di studi legislativi, LIV, 1981, p. 159.
451
V. CALZOLAIO, op. ult. cit., p. 163, sostiene che la storia costituzionale italiana ha visto emergere la consuetudine della rapida comunicazione alle Camere della nomina del nuovo Governo: sarebbero infatti «presenti sia l’elemento oggettivo della ripetizione che l’elemento soggettivo della convinzione, in quanto le comunicazioni erano ritenute obbligatorie dal Governo». Ad esempio, Perrone e Rattazzi, rispettivamente, il 19-10-1848, ed il 7-3-1862, parlarono di “debito riconosciuto”.
452 A. TODD, Il Governo parlamentare in Inghilterra, in Biblioteca di Scienze politiche, vol. III, Torino, UTET, 1886, p. 974, a cura di A. Brunialti, fa menzione di “spiegazioni ministeriali” sui motivi delle crisi e sugli inizi (“principi”) del nuovo Esecutivo.
135 di tempo contenuto (spesso entro i dieci giorni attualmente previsti dall’art. 94 Cost.)453, e solamente in quattro occasioni, a Camere sciolte o sospese, la nomina venne resa pubblica attraverso il “giornale ufficiale del Regno”454
.
D’altra parte, il fatto che tale comunicazione venisse effettuata nulla dice sul suo contenuto e sulla sua valenza. Ė stato dimostrato che un programma veniva effettivamente discusso, collegialmente, dai componenti del Governo prima della presentazione in Parlamento. V’era, insomma, la necessità di convergere, in Consiglio dei ministri, su di uno schema di programma; un accordo sulle «massime politiche da seguirsi»455: tutto ciò appare coerente con quanto sarà disposto dall’art. 5 del R.D. n. 3623 del 1867, per il quale il Presidente del Consiglio avrebbe dovuto garantire «l’uniformità dell’indirizzo politico e amministrativo di tutti i Ministeri». Altro indizio dell’emersione di un indirizzo politico e della sua rilevanza giuridica è dato dalla convinzione, condivisa in dottrina, delle necessarie dimissioni del ministro dissenziente dalla linea concordata dall’insieme del governo456: le dimissioni sono considerate indispensabili quando il contrasto è «sulla base del Programma di governo del Gabinetto»457.
L’accordo era raggiunto all’interno del potere esecutivo considerato nel suo complesso: il sovrano (cui solo apparteneva il potere esecutivo, ex art. 5 s.a.) lo definiva concordemente al Consiglio dei ministri. In particolare, merita ricordare l’esistenza di una consuetudine costituzionale che si sostanziava nelle consultazioni informali del Re con il Presidente incaricato; inoltre, il “partito di corte”, vero e proprio “governo-ombra” regio458
, contava sempre degli esponenti tra i ministri, partecipando, così, all’accordo iniziale; infine, il Re mantenne sempre l’ultima e definitiva parola in merito alla designazione dei ministri della guerra e della marina.
453
V. in V. CALZOLAIO, Programma di governo e rapporto di fiducia nello Stato liberale (1848 - 1922), op. cit., l’esauriente tabella a p. 161, che reca sede, data, distanza (in giorni) dalla nomina e dalla crisi, delle comunicazioni del Governo.
454
Si tratta del terzo Gabinetto statutario presieduto da Alfieri (1848); del II Governo D’Azeglio (1849); del II Governo La Marmora (1859); del I Governo Crispi (1887).
455 Di “linee politiche” ebbe a parlare Cesare Balbo in un discorso alla Camera dei deputati del 28-7-1848. Cfr. E. PASSAMONTI, La formazione e il programma del ministero Balbo, in Rassegna storica del Risorgimento, VI, 1958, pp. 873-892.
456
M. MANCINI e U. GALEOTTI, Norme e usi del Parlamento italiano: trattato pratico di diritto e procedura parlamentare, Roma, Camera dei deputati, 1887, pp. 691 ss.
457 F. CONTUZZI, Diritto costituzionale, Milano, Hoepli, 2 ed., 1895, p. 250.
136 Solamente dal 1919 si ebbe un cambiamento di tale assetto: nel dopoguerra, infatti, iniziò il lungo processo che portò all’affermazione dei partiti politici; alla modificazione del ruolo dei gruppi parlamentari nella determinazione del programma e, quindi, dei rispettivi esponenti che, da ministri, agivano nel Gabinetto459.
Da un punto di vista giuridico, il programma concordato nell’ambito dell’Esecutivo sembrava presentare, oltre ad una natura collegiale, una rilevanza eminentemente “interna”: esso, infatti, si sostanziava in un accordo che vincolava il Governo in relazione ad uno specifico indirizzo politico, ma solo al suo interno, senza cioè che vi fosse la necessità di renderlo pubblico460.
Peraltro, sin dal 1887, Mancini e Galeotti si interrogarono sulla rilevanza “esterna” del programma di governo461; programma che, in questo senso, poteva assumere una doppia veste formale: esso poteva sostanziarsi in un discorso della Corona, ovvero concretarsi nelle comunicazioni rese dal Presidente del Consiglio alle Camere nel momento della presentazione ad esse del nuovo Gabinetto462.
Per quanto riguarda la prima ipotesi, l’iter della comunicazione del discorso della Corona alle Camere si rifaceva alla procedura che il Parlamento britannico aveva predisposto per il Sovereign Speech: gli intellettuali e giuristi piemontesi ritenevano il sistema di Westminster il principale modello parlamentare e, quindi, sembrava opportuno trarre da esso ispirazione. Il discorso della Corona era così letto dal Re, in occasione dell’inaugurazione della sessione parlamentare, dinanzi al Parlamento riunito in seduta comune. Il testo del discorso veniva consegnato personalmente al sovrano ad opera del Presidente del Consiglio, durante la cerimonia; questo gesto simbolico evidenziava il ruolo che il Governo ricopriva nella redazione del discorso: il suo contenuto veniva preventivamente deliberato dal Consiglio dei ministri che, come tradizionalmente avviene a Londra, faceva esporre al Re «le riforme e i provvedimenti
459
G. AMBROSINI, La trasformazione del regime parlamentare e del governo di gabinetto, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, XIV, n. 1, 1922, pp. 187 e 197.
460V. CALZOLAIO, Programma di governo e rapporto di fiducia nello Stato liberale (1848 - 1922), op. cit., p. 166.
461
Cfr., M. MANCINI e U. GALEOTTI, Norme e usi del Parlamento italiano: trattato pratico di diritto e procedura parlamentare, op. cit., p. 742, per i quali v’era uno stretto collegamento fra comunicazione della nomina e comunicazione del programma, sebbene quest’ultimo avesse un carattere esclusivamente governativo
462
A. RUSSO, Programma di Governo e regime parlamentare, Milano, Giuffrè, 1984, p. 101. Per una puntuale ricognizione sulle origini funzionali del Gabinetto nell’esperienza istituzionale italiana, v. C. BARBIERI, Le origini del gabinetto italiano come istituzione politica di governo, in Quaderni di scienza politica, XV, n. 2, 2008, pp. 179-205.
137 legislativi di maggiore importanza, che si propone di presentare al Parlamento durante la sessione, per richiamare specialmente su di essi l’attenzione e le cure dei rappresentanti della Nazione»463.
L’indirizzo reale era articolato in paragrafi numerati, così da poter essere oggetto di discussione e di votazione. Infatti, dopo la seduta inaugurale della sessione, le Camere si riunivano separatamente per deliberare una risposta alla comunicazione del sovrano464. Invero, secondo un primo orientamento, il Parlamento non avrebbe dovuto sindacare in via preventiva il programma di governo contenuto nel discorso della Corona: l’indirizzo delle Camere doveva costituire «un omaggio di riverenza e di affetto a Sua Maestà»465, piuttosto che un atto di natura politica; per questo motivo la comunicazione regia doveva essere approvata all’unanimità e solamente con parole di rispettosa circostanza, relegando ogni possibilità di valutazione dell’operato del Governo, in corso o al termine dell’opera.
Diversamente, una seconda impostazione considerava l’indirizzo parlamentare come «una risposta politica al programma di governo contenuto nel discorso della Corona»466. Esso rappresentava, quindi, sulla falsariga dell’esperienza britannica, lo strumento di analisi critica ed eventuale modificazione del programma contenuto nella comunicazione regia da parte del Parlamento; conseguentemente, era ritenuto necessario discuterlo e votarlo a scrutinio segreto, dopo aver consentito la presentazione di emendamenti e finanche la proposizione di indirizzi alternativi a quelli della maggioranza467.
Ad ogni modo, dato che nessuno dei due orientamenti, circa il contegno che il Parlamento avrebbe dovuto tenere nei riguardi del discorso della Corona, riuscì ad affermarsi a discapito dell’altro, la prassi si mostrò ondivaga: l’orientamento delle Camere virò verso l’uno o l’altro approdo in ragione della maggiore o minore rilevanza politica degli obiettivi indicati dal programma comunicato dal sovrano. Quindi, non
463 M. MANCINI e U. GALEOTTI, op. ult. cit., p. 619. Gli Autori, ivi, riportano l’affermazione del deputato del Regno Clemente Corte (1826-1895), secondo il quale: «i discorsi della Corona sono il programma, sono, direi, l’ordine del giorno del Ministero, che deve prevalere durante la sessione e formare il soggetto dei lavori parlamentari».
464 Come riportato da M. MANCINI e U. GALEOTTI, ibidem, p. 625, il progetto di indirizzo di risposta era elaborato, come stabilito dai regolamenti parlamentari dell’epoca, da una Commissione ad hoc, presieduta dal Presidente del rispettivo ramo del Parlamento.
465 M. MANCINI e U. GALEOTTI, ibidem, p. 624.
466 A. RUSSO, Programma di Governo e regime parlamentare, op. cit., p. 103.
138 essendosi formata una consuetudine costituzionale sul punto, è possibile concludere che il Parlamento fosse titolare di una semplice facoltà di discutere, emendare e dunque modificare l’indirizzo ed il programma presentati dal Governo attraverso il discorso regio.
Come anticipato, oltre a trasfondersi nel discorso della Corona, il programma di governo poteva essere comunicato alle Camere all’atto della presentazione del Gabinetto alle stesse.
In forza della ricordata consuetudine, il Governo regio iniziò a presentarsi alle Camere, sin dagli albori dell’esperienza statutaria, a seguito della nomina da parte del sovrano. La pubblicazione dei diversi programmi nella Gazzetta Ufficiale del regno, ben rappresenta l’importanza, perlomeno formale, che a tale atto veniva riconosciuta dall’ordinamento.
Un’importanza che, a ben vedere, è andata aumentando di pari passo con l’evoluzione del sistema parlamentare. In una prima fase, identificabile con la quasi totalità del XIX secolo, quantunque fosse considerato opportuno, se non doveroso, per il Governo comunicare il proprio programma in Parlamento, si riteneva che le Camere non potessero esprimersi su di esso attraverso un voto di fiducia468: un voto sul programma del nuovo Gabinetto nominato dal Re si sarebbe risolto in un sindacato sulla scelta operata da quest’ultimo; una valutazione, seppure indiretta, sui criteri di esercizio della prerogativa regia avrebbe costituito un affronto alla Corona.
Invero, era opinione diffusa che il Governo dovesse essere giudicato alla luce degli obiettivi raggiunti in concreto: il Parlamento poteva così esprimere un giudizio solamente ex post, e non anche in via preventiva sulla base del solo programma469.
Alla luce di tali considerazioni è possibile comprendere la reale valenza, in quel contesto, della presentazione del programma: poiché non v’era l’esigenza, per il Governo, di ottenere la fiducia iniziale, in quanto presunta a fronte della nomina regia, la comunicazione in parola costituiva un formale atto di deferenza nei riguardi del Parlamento; deferenza che riposava sulla necessità di cooperare con le Camere, conservando un rapporto di fiducia.
468 A. RUSSO, Programma di Governo e regime parlamentare, op. cit., p. 105.
469 Così, M. MANCINI e U. GALEOTTI, Norme e usi del Parlamento italiano: trattato pratico di diritto e procedura parlamentare, op. cit., p. 743.
139 Si comprende, così, il motivo per cui nei primi quarant’anni di vigenza dello Statuto albertino, una sola volta si giunse ad un voto su un programma di governo: il 7 marzo del 1868, alla presentazione del programma del Gabinetto Rattazzi (peraltro l’unico, dopo il programma del Governo Perrone del 19 ottobre del 1848, ad analizzare con giudizi chiari e precisi le politiche specifiche delle diverse amministrazioni statali470), il deputato Gallenga con una interpellanza chiese che l’Aula esprimesse in modo netto la sua fiducia o sfiducia: la Camera decise di non votare la fiducia al Governo, ma un semplice ordine del giorno, «non reputando essere conveniente giudicare il Ministero altrimenti che per i suoi atti»471.
Il cambio di rotta si ebbe a cavallo tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX: quantunque non giuridicamente obbligatorio, il voto di fiducia iniziale al Governo venne ritenuto costituzionalmente corretto. Tra i primi ad accogliere pubblicamente tale orientamento, suscitando forti critiche, fu, nel 1885, Agostino Depretis il quale, da Presidente del Consiglio, dichiarò alla Camera che: «quando un Ministero annunzia alla Camera la sua formazione, niente impedisce che nella Camera stessa si faccia una mozione e si dichiari che essa non ha fiducia nel Ministero»472.
La vera svolta nella prassi, tuttavia, si verificò ad opera del Presidente del Consiglio Giolitti che, nel 1892, richiese un voto di fiducia da parte del Parlamento473: l’ottenimento della fiducia parlamentare sortì, oltre che un sostanziale quid pluris per l’autorità del Gabinetto, anche un rafforzamento del ruolo costituzionale e della rilevanza politica del programma.
Il tentativo giolittiano però rimase isolato per molti anni: la fine del secolo fu testimone dell’infuocarsi di un revanchismo “monarchico” e filo-governativo. L’esortazione, da parte del deputato conservatore Sidney Sonnino, ad un “ritorno allo Statuto”474
, costituiva una denuncia dello sconfinamento del potere legislativo in quello
470
Cfr. V. CALZOLAIO, Programma di governo e rapporto di fiducia nello Stato liberale (1848 - 1922), op. cit., p. 171.
471 M. MANCINI e U. GALEOTTI, op. ult. cit., pp. 743-744.
472
M. MANCINI e U. GALEOTTI, ivi. Contra, L. PRETI, Il Governo nella Costituzione italiana, Milano, Giuffrè, 1954, p. 168, per il quale «l’affermazione dello statista lombardo fu incidentale, nel corso di una discussione sopra un altro argomento, e non si può pertanto sopravvalutarne la portata».
473 L. PRETI, ivi.
474 S. SONNINO, Torniamo allo Statuto, in La Nuova Antologia, 1 gennaio 1897. «Dalla progressiva usurpazione del potere esecutivo per parte della Camera elettiva sono derivate non solo la confusione tra le funzioni del Governo e quelle del Parlamento; ma ancora la effettiva usurpazione è per parte del Ministero dei poteri di esclusiva spettanza del Principe, riducendo questi ad una parte negativa ed inattiva, e considerando il potere esecutivo come legalmente e realmente posseduto dal Ministero, non dal Re.
140 monarchico: i governi sembravano non trarre più la loro legittimazione (anche sostanziale) dal sovrano, ma dal sostegno di mutevoli ed inaffidabili maggioranze parlamentari.
L’evoluzione liberale a partire dai primi anni del XX secolo fu segnata dal ritorno al governo, nel 1903, di Giolitti che, coerentemente a quanto avvenuto nell’esperienza del suo primo Gabinetto, chiese un voto iniziale di fiducia alle Camere. Come sottolineato dal Preti475, la condotta in parola divenne consuetudine costituzionale, dato che tutti i governi successivi (ad eccezione del Gabinetto Sonnino, nel 1909) fino al 1922, ne seguirono l’esempio476
.
Ciò detto, occorre rilevare come, in regime statutario, lo sdoppiamento di natura formale del programma, sotto forma di discorso della Corona e di comunicazioni del Governo, volgesse, in via sostanziale, a favore del secondo477: la fiducia parlamentare viene ritenuta compatibile con il programma di governo ma non con il discorso inaugurale della sessione.
Non è un caso, inoltre, che Vincenzo Miceli arrivasse a definire il discorso della Corona una «periodica formalità», poiché «per mezzo di esso si trasforma palesemente il Monarca in un organo di partito, gli si fanno fare promesse che il più delle volte non possono venir mantenute, a causa dei frequenti mutamenti nelle correnti politiche e nella composizione delle maggioranze parlamentari»478. Infatti, a differenza di quanto avveniva (ed avviene) nell’ordinamento costituzionale britannico, ove si assiste alla nascita del Governo direttamente dalle elezioni, per una durata in carica che coincide normalmente con l’intera legislatura, il sistema statutario era caratterizzato da Esecutivi che permanevano in carica, mediamente, per un anno. Per tale ragione, spesso v’era un avvicendamento di più Ministeri nel corso della medesima sessione, il che comportava l’impossibilità di far coincidere il discorso del Re di inizio sessione con vari e diversi programmi. Tale mancata coincidenza, rinvenibile nel Regno Unito, svuotava di significato il discorso del sovrano, «poiché la sussistenza delle potenzialità attuative dei
L'esorbitare della Camera elettiva dalle sue funzioni e la sua invasione dei poteri della Corona si sono effettuate e sono state rese possibili mediante la dottrina che faceva dei ministri del Re i ministri della Camera, cioè li sottoponeva alla diretta dipendenza delle mutevoli maggioranze parlamentari».
475 L. PRETI, Il Governo nella Costituzione italiana, op. cit., p. 169.
476 A. RUSSO, Programma di Governo e regime parlamentare, op. cit., p. 107.
477
In questo senso, A. RUSSO, Programma di Governo e regime parlamentare, op. cit., p. 109.
478 V., G. NEGRI, Il discorso programmatico dei Presidenti del Consiglio dei Ministri nell’esperienza statuaria e repubblicana, in I programmi dei governi repubblicani dal 1946 al 1978, a cura di S. Simoni, Roma, Centro romano editoriali, p. IX.
141 suoi contenuti è condizionata alla recezione di essi nel programma del nuovo Governo»479.
E se il nuovo Gabinetto non ritiene di obbligarsi per gli impegni del precedente? E se il Ministero subentrante presenta un programma difforme o finanche in antitesi con quello comunicato pochi mesi prima? A fronte di tali interrogativi tutt’altro che peregrini, in dottrina si propendeva decisamente per le comunicazioni del governo, piuttosto che per il discorso della Corona, dato che «il programma della sessione può ben essere espresso direttamente dal Ministero, senza compromettere inutilmente la dignità della Corona»480.
Fatta salva, ovviamente, l’ampia prerogativa del Capo dello Stato di nominare e revocare il Presidente del Consiglio ed i ministri, ex art. 5 s.a., e di sciogliere le Camere