• Non ci sono risultati.

Il terzo Greenberg e l’esperienza estetica

Capitolo 3: L’esperienza estetica secondo Clement Greenberg

3.4 Il terzo Greenberg e l’esperienza estetica

Dagli anni Settanta fino alla sua morte avvenuta nel 1994, Greenberg si ritirò progressivamente dalla scena critica e il suo peso effettivo sulle sorti dell’arte andava scemando. In questo periodo si dedicò alla ricerca di una linea estetica che potesse trovare una codificazione teorica più sistematica, iniziando anche a redigere un testo, “Homemade Aesthetics”, che però non riuscì a completare e che sarebbe stato pubblicato postumo nel 1999.

Nella considerazione generale del corpus di scritti lasciato da Greenberg, così frammentato e caratterizzato da molteplici sfaccettature, si può tentare a questo punto di tratteggiare il modus operandi dell’autore, che dall’analisi sin qui fatta sembra caratterizzato già dai primi scritti dai medesimi passaggi che costituiscono delle tappe obbligate nell’espressione del proprio punto di vista. Procedendo a ritroso nei ragionamenti del critico, il suo scopo ultimo era quello di esternare il proprio giudizio, valutare se qualcosa fosse giusto o 96 Greenberg C., The ‘Crisis’ of Abstract Art (1964), in O’Brian J. (a cura di), op. cit., vol. 4, p. 180.

97 Greenberg C., Post Painterly Abstraction (1964), in O’Brian J. (a cura di), op. cit., vol. 4, pp. 193-194.

150

sbagliato, buono o cattivo, e nel farlo poteva esprimersi a riguardo di una singola opera d’arte, di una più ampia manifestazione artistica, o di un fenomeno storico e sociale. Procedendo ancora all’indietro, si nota come per giungere alla formulazione della propria valutazione, il critico si servisse di alcuni strumenti che appaiono come punti di riferimento costanti che divengono i capisaldi dell’approccio formalista. Questi ultimi fungevano da metro di giudizio non solo per le manifestazioni artistiche, ma anche per gli eventi storici e sociali, perché, per quanto Greenberg affermasse che tali contingenze non avessero a che fare con la sua critica d’arte, la loro analisi prendeva sempre la direzione di una legittimazione del suo pensiero in merito all’uno o all’altro fenomeno artistico, ossia una determinata circostanza storica e contestuale era valutata positivamente se aveva dato origine a della buona arte, e negativamente se invece aveva dato vita a della cattiva arte. Tali criteri formali corrispondevano a quegli aspetti che avevano caratterizzato l’evoluzione dell’Avanguardia dalla metà dell’Ottocento fino alla metà del secolo successivo, e si identificavano nel riconoscimento da parte dell’artista del proprio medium espressivo, che determinava la piattezza della superficie della tela, e nella tendenza verso l’astrazione, processo in cui l’arte si purificava dagli influssi delle altre manifestazioni culturali e tendeva verso la pittoricità. A sua volta, il critico era pervenuto alla codificazione di questi principi formali come linee guida per poter distinguere la buona dalla cattiva arte, attraverso l’analisi di quelli che avevano avuto questo ruolo per l’arte del passato, dimostrando che la loro validità fosse duratura e che il gusto estetico, sopravvivendo al giudizio del tempo, fosse oggettivo. Ma questa analisi dell’arte del passato, come quella del presente, non prendeva la forma di uno studio teorico, piuttosto aveva un carattere pratico: l’esperienza diretta delle opere d’arte. Ecco quindi individuata l’origine di tutta la dissertazione critica dell’autore, l’esperienza estetica.

L’esercizio del proprio occhio costituiva per Greenberg l’imprescindibile punto di partenza della sua attività critica, era da lì che aveva costruito tutto il suo apparato teorico, ed era anche il suo punto d’arrivo in quanto era quello il luogo in cui traeva i propri giudizi. Sebbene l’esperienza estetica rivestisse un ruolo cruciale all’interno dell’approccio dell’autore, non scrisse mai una

151

trattazione organica in cui ne elencasse i caratteri secondo la propria concezione, piuttosto i riferimenti a essa sono disseminati in svariati scritti, come accadeva per tutti gli aspetti del suo pensiero. Per restituire un profilo dell’esperienza estetica secondo Greenberg, si rende nuovamente necessaria un’opera di ricostruzione che ne faccia emergere gli aspetti profondamente diversi rispetto alla proposta pragmatista deweyana, e che ne denoti il carattere fortemente formalista.

Già nel 1939, in “Avant-Garde and Kitsch”, il critico faceva un primo riferimento all’esperienza estetica quando metteva a paragone quella vissuta da uno spettatore colto con quella di uno che non avesse invece ricevuto un’educazione al gusto. In questa considerazione Greenberg aveva evidenziato l’esistenza di due momenti dell’esperienza: il primo era quello dell’impressione immediata dell’opera; quest’ultima non rivelava già tutto il suo valore, forniva piuttosto la causa che spingeva lo spettatore a giungervi durante il secondo momento, quello riflessivo. La constatazione del valore dell’opera apparteneva al cosiddetto “‘reflected’ effect”98, che si delineava

come uno svelamento della qualità artistica e quindi come il compimento dell’esperienza estetica. Questi due momenti non andavano percepiti come disgiunti, si trattava piuttosto di una reciproca compenetrazione, che avveniva nello stesso istante, ovvero quello dell’esperienza dell’opera nella sua “interezza immediata”. In base alla constatazione della qualità estetica dell’opera, il critico poteva quindi esprimere il proprio giudizio: se in essa aveva riconosciuto i più alti valori estetici, allora si trattava di buona arte, in caso contrario invece si sarebbe trattato di arte cattiva. Quest’ultima non si rivelava nella sua “interezza immediata” perché era prodotta per un pubblico che non aveva le capacità di compiere quello sforzo riflessivo necessario per coglierne i valori estetici, e che la esperiva semplicemente in base a come “recognizes and sees things outside of pictures”99. Questo tipo di esperienza

non era secondo l’autore definibile come veramente estetica, si trattava piuttosto di un’esperienza surrogata, frutto della tendenza della cattiva arte,

98 Greenberg C., Avant-Garde and Kitsch (1939), in O’Brian J. (a cura di), op. cit., vol. 1, p. 16.

152

quella kitsch, a non imitare i processi artistici, ma i suoi effetti, ottenendo un risultato “predigerito”. Il fatto che l’osservatore non notasse discontinuità fra esperienza estetica e ordinaria durante la visione dell’opera, era avvertito da Greenberg come un campanello d’allarme sulla bassa qualità di quella manifestazione artistica, perché non richiedeva uno sforzo riflessivo, prerogativa invece della buona arte. Il ruolo che l’esperienza estetica andava a rivestire nella concezione del critico era del tutto separato rispetto alla vita ordinaria, si caricava solo di qualità formali e diventava l’occasione dell’esercizio della facoltà di giudizio: “Value judgments constitute the substance of aesthetic experience. […] To experience art as art is […] to evaluate, to make, or rather receive, value judgements, consciously and unconsciously”100. In tale giudizio non c’era spazio per tutto ciò che fosse

extra-estetico, perché questi fattori esulavano dalla critica, Greenberg non metteva in dubbio che fossero importanti per fare delle valutazioni di altro genere, “but it’s not criticism”101. In questo senso il critico si inseriva nella

tradizione formalista che, come già accennato in precedenza, nell’analisi dell’opera si basava esclusivamente sulle informazioni formali che derivavano univocamente da essa, che includevano la linea, il colore, e la composizione nel complesso. Nemmeno le dichiarazioni degli artisti in merito ai propri lavori potevano interferire nel giudizio del critico, al punto che più volte confrontandosi con loro aveva richiesto: “Don’t talk to me about your art, I just want to look at it. Talk to me about something else”102, come se

avesse temuto che le loro parole avrebbero potuto condizionarlo. Si trattava di una concezione dell’esperienza artistica come fine a se stessa, l’arte per l’arte: l’arte doveva essere slegata dal contesto, dunque dalla vita, che altrimenti l’avrebbe contaminata, e rivolgersi solo al proprio fine estetico che ne giustificava l’esistenza. Era implicito in questa posizione che l’unico ruolo dell’arte fosse quello di dare corpo alle migliori qualità estetiche, non aveva alcun tipo di rilevanza a livello sociale ed educativo, e con questo Greenberg si poneva in una dimensione diametralmente opposta all’impostazione

100 Greenberg C., States of Criticism (1981), in Morgan R. C. (a cura di), op. cit., pp. 86-87. 101 Ivi, p. 89.

153

estetica di Dewey, e a tutte le istanze progressiste che dall’inizio del secolo avevano combattuto la loro battaglia contro l’elitarismo culturale. Malgrado gli obiettivi inconciliabili, il critico era comunque debitore di questa tradizione per quanto riguarda il ruolo centrale dell’esperienza estetica, che Dewey per primo aveva posto in luce in questi termini. Greenberg sosteneva che l’esperienza fosse l’unica “court of appeal in art”, l’unico modo per capire se si fosse davanti a buona o cattiva arte: “Quality in art can be neither ascertained nor proved by logic or discourse. Experience alone rules this area – and the experience, so to speak, of experience”103. La qualità dell’arte

emergeva e si svelava nel corso dell’“esperienza dell’esperienza”, e il giudizio nei suoi confronti era “immediate, intuitive, undeliberate, and involuntary”104, non si poteva scegliere se farsi piacere o meno un’opera

d’arte. Il critico dunque affermava che la presenza o meno dell’alta qualità estetica fosse un dato fatto, non si poteva affermare che ci fosse se non era così, non si trattava di una scelta, ma di constatare una realtà. Ciò non significava che qualsiasi spettatore fosse in grado o dovesse esprimere liberamente il proprio giudizio, la facoltà di valutazione doveva essere costantemente coltivata e solo lo spettatore esteticamente educato era in grado di cogliere le qualità dell’opera nel corso della sua esperienza. Per quanto la facoltà di giudizio fosse involontaria, il critico sosteneva che il proprio gusto estetico potesse evolversi grazie al suo continuo esercizio attraverso un’esperienza reiterata e riflessiva delle opere. L’esperienza estetica quindi acquisiva anche il ruolo di unico luogo di affinamento delle capacità critiche, quindi in un certo senso anche Greenberg le attribuiva una prerogativa educativa, ma anche in questo caso ciò che intendeva affermare andava in una direzione diversa rispetto alle istanze deweyane che lo avevano preceduto.

Nel riesame delle proprie teorie in chiave estetica che Greenberg operò per “Homemade Aesthetics” dagli anni Settanta in poi, emerge più chiaramente dove egli collocasse l’origine dell’esperienza estetica. All’interno del testo,

103 Greenberg C., The Identity of Art (1961), in O’Brian J. (a cura di), op. cit., vol. 4, p. 118. 104 Greenberg C., Complaints of an Art Critic (1961), in O’Brian J. (a cura di), op. cit., vol. 4, p. 265.

154

nell’articolo “Intuition and the Esthetic Experience”, il critico, andando a fondo nella questione della natura immediata e involontaria dei giudizi estetici, giunse a enfatizzare la loro natura intuitiva, in un’accezione in cui:

Intuition is perceptive: it is seeing, hearing, touching, smelling, tasting; it is also registering what goes on inside your own consciousness. No one can teach or show you how to intuit. If you can't tell for yourself what heat or cold is like, or the color blue, or the sound of thunder, or remembering – if you don't know these things by yourself and for yourself, nobody else can tell you105.

Si nota dunque che l’intuizione, elemento che Greenberg aveva mutuato dallo studio dell’estetica crociana, assumeva un carattere centrale all’interno dell’esperienza estetica, in quanto ne andava a costituire il momento fondante. Croce fondava sull’intuizione non solo il giudizio, ma l’arte stessa, che considerava costituita del complesso di immagini del loro sentimento animatore; questi aspetti facevano dell’arte un’intuizione “lirica” o “pura”, che non era un sentimento immediato, ma contemplato106. Greenberg si

discosta da questa lettura e concepisce l’intuizione come puramente sensibile, aveva a che fare con il modo in cui gli esseri umani percepivano l’ambiente che li circondava, e si manifestava in due modalità: l’intuizione primaria o ordinaria, e quella secondaria o estetica, “but there is a crucial difference between the way ordinary or primary intuition – which is necessary to existence, experience, knowledge – makes itself felt and the way esthetic intuition, which is not necessary to anything at all, does”107. L’intuizione

ordinaria aveva lo scopo di orientare i soggetti nell’ambiente, di informarli, e nel farlo puntava sempre verso qualcosa di esterno, al di fuori dell’atto stesso dell’intuire: “even when furnishing data for pure knowledge, for knowledge valued for its own sheer sake; even here the act points to something other than itself: that is, to data”108. Nel momento in cui l’atto intuitivo primario si

105 Greenberg C., Homemade Aesthetics. Observations on Art and Taste, (a cura di) Van Horne Janice, New York, Oxford University Press, 1999, p. 3.

106 Croce Benedetto, Aesthetica in nuce, Bari, Editori Laterza, 1969, pp. 7-8. 107 Greenberg C., Van Horne J. (a cura di), op. cit., p. 3.

155

fermava in se stesso e cessava di rivolgersi verso qualcosa di esterno, allora si trasformava in estetico, o secondario: “An esthetic intuition is dwelled on, hung up on, relished – or dys-relished – for its own sole sake and nothing else”109. Si trattava di un atto di “intuizione per l’intuizione”, e avveniva nel

momento in cui l’atto intuitivo nei confronti di qualcosa rinunciava a fornire un’informazione in merito a quel qualcosa, e si concentrava solo sul puro piacere contemplativo del suo valore intrinseco, ad esempio: “The intuition that gives you the color of the sky turns into an esthetic intuition when it stops telling you what the weather is like and becomes purely an experience of the color”110. In sostanza, l’intuizione estetica era rivolta verso di sé, verso quei

valori estetici che la costituivano: “In short, esthetic intuition is never a means, but always an end in itself, contains its value in itself, and rests in itself”111. In base a questa distinzione, Greenberg diversificava il tipo di

esperienza a cui davano origine: da intuizioni ordinarie emergevano esperienze ordinarie, e da intuizioni estetiche esperienze estetiche. Il passaggio dall’una all’altra intuizione, così come dall’una all’altra esperienza, implicava un certo salto mentale o psichico, che induceva il soggetto a distanziarsi da tutto ciò che gli stava accadendo intorno per concentrarsi solo sull’oggetto del proprio interesse, senza pretendere da esso altro che “its own immediate sake”112. Secondo Greenberg questo significava che, dal momento che tutto potesse essere intuito ed esperito esteticamente, allora tutto potesse essere intuito ed esperito artisticamente: “Art, coinciding with esthetic experience in general, means simply, and yet not so simply, a twist of attitude toward your own awareness and its objects”113. In questo senso l’arte era, o

poteva essere, realizzata ovunque e da chiunque. Queste ultime affermazioni sembrano contraddire la nozione esclusiva di arte che il critico aveva proposto fino a questo momento, ma procedendo con l’analisi del testo, si scopre che in questa concezione ampia di arte facesse una sostanziale differenza fra: “art that is presented in forms that are conventionally recognized as artistic and

109 Greenberg C., Van Horne J. (a cura di), op. cit., p. 4. 110 Ibidem.

111 Ibidem. 112 Ivi, p. 5. 113 Ibidem.

156

art that is not fixed in such forms. On the one side there is unformalized, fleeting, ‘raw’ art, and on the other there is art that is put on record, as it were, through a medium that is generally acknowledged as artistic”114. Questa distinzione nulla toglieva allo status artistico di entrambe le espressioni, ma fra queste, solo l’arte che si esprimeva attraverso un medium che era generalmente considerato artistico, era consapevole del proprio processo artistico ed era in grado di comunicare con altri oltre il proprio creatore. Di fatto quindi si trattava dell’unica arte che poteva essere considerata in un’ottica critica. Il valore estetico era l’unico tipo di valore che non era mai strumentale o relativo, era invece al tempo stesso intrinseco, fine a se stesso, e totalmente e immediatamente presente. Offrendo un valore di questo tipo, l’esperienza estetica si costituiva “as what it uniquely, irreplaceably, is”115. In

questo senso Greenberg sosteneva che tale valore estetico emergesse necessariamente in modo involontario nel corso dell’esperienza estetica, e quindi l’espressione di un giudizio non si connotava tanto come “[a] verdict- delivering – even though it so often has to sound like a verdict”116, ma piuttosto come una constatazione della sua qualità. Era in base a questo ragionamento che il critico giustificava le sue affermazioni sull’involontarietà del giudizio estetico: “Your esthetic judgment, being an intuition and nothing else, is received, not taken. You no more choose to like or not like a given item of art than you choose to see the sun as bright or the night as dark”117. Il

fatto che il giudizio estetico fosse involontario, “received”, metteva il soggetto nella condizione di potersi abbandonare alla sensazione di piacere derivato dalla contemplazione, cosa che non sarebbe stata possibile se invece il giudizio fosse stato assunto deliberatamente, perché quel piacere sarebbe stato infettato dai dubbi. Se nella concezione kantiana “the ‘judgment of taste’ always ‘precedes’ the ‘pleasure’ gained from the esthetic ‘object’”, in quella di Greenberg i due momenti coincidevano: “If the judgment of taste precedes the pleasure, it’s in order to give the pleasure. And the pleasure re-gives the

114Greenberg C., Van Horne J. (a cura di), op. cit., p. 6. 115 Ibidem.

116 Ivi, p. 7. 117 Ibidem.

157

judgment” 118. Questo tipo di piacere andava oltre la semplice emozione: “The pleasure of esthetic experience is the pleasure of consciousness: the pleasure that it takes in itself. To the extent that esthetic experience satisfies, consciousness revels in the sense of itself […]”119. Dunque attraverso l’esperienza estetica era possibile raggiungere questo stato sublimato di coscienza e cognizione, manifestazione della qualità estetica.

Emerge da questa disamina sullo sviluppo del concetto e del ruolo dell’esperienza estetica nell’impianto teorico e pratico greenberghiano, come essa rappresentasse effettivamente lo stimolo e il compimento della sua attività critica. Quella che appare come la miglior chiave interpretativa è suggerita dallo stesso critico, quando, riferendosi all’unità compositiva come qualità suprema in un’opera astratta, affermava che lo spettatore arrivasse a identificarsi interamente con la manifestazione artistica che stava osservando, e che nel farlo riuscisse a coglierla nella sua “interezza immediata”. Quella dell’interezza immediata sembrerebbe essere anche la qualità principale dell’esperienza estetica che prende corpo non unicamente come esperienza in quanto tale, ma come convergenza e convivenza nello stesso momento e nello stesso luogo di esperienza, intuizione e giudizio estetico. Quindi il critico non solo aveva iniziato e concluso la sua attività entro i limiti dell’esperienza estetica, ma l’inizio e la fine si trovavano a coincidere in un unico istante e in un’unica qualità, quella estetica.

118 Greenberg C., Van Horne J. (a cura di), op. cit., p. 8. 119Ivi, p. 9.

158

Conclusioni

Nel corso di questo lavoro si sono profilate le personalità di due dei protagonisti del panorama culturale americano del secolo scorso, quella del filosofo pragmatista John Dewey e quella del critico formalista Clement Greenberg, e si è potuto osservare quale sia stata la risonanza a livello sociale e politico delle loro proposte estetiche, in particolare durante la decade che intercorse fra l’inizio della crisi economica nel 1929 e lo scoppio della Seconda guerra mondiale. La riflessione si è concentrata sulla definizione del concetto di esperienza estetica in quanto presente nell’approccio di entrambi gli autori in veste di criterio metodologico per l’analisi dei processi estetici, anche se finisce nel confluire in due concezioni quasi antitetiche. Il primo elemento da porre in evidenza è che essi si riferirono all’esperienza estetica partendo da due ottiche molto diverse: la proposta critica di Greenberg era fine a se stessa e prendeva avvio dall’osservazione delle opere d’arte, giungendo alla formulazione di una rigida teoria estetica che ne legittimasse il giudizio qualitativo; diversamente, l’indagine filosofica di Dewey muoveva dall’uomo e dalle sue esigenze, mirando alla riconciliazione fra esperienza estetica ed esperienza vitale ordinaria, perché era fermamente convinto che questo processo avrebbe permesso lo sviluppo di vite qualitativamente più piene e soddisfacenti. Alla base del pensiero di Dewey, c’era la tesi di ispirazione darwiniana secondo cui gli organismi umani, al pari degli altri organismi viventi, non fossero innanzi tutto coscienze o menti, ma esseri corporei che si sviluppano e si determinano in continua interazione con

Documenti correlati