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II. Il cuore oltre l’ostacolo

2. Imparare dalle lezioni del trauma

«Eccoci prossimi al nostro traguardo, là dove il sé riceve autorità solo dai suoi diritti come soggetto» (ivi. p. 122). E, dunque, in maniera disordinata, per approssimazione e senza nessuna pretesa di ragione, tantomeno di esaustività, vorrei chiudere questo libro “reclamando” alcuni (vecchi) nuovi diritti che il tempo convulso che abbiamo alle spalle ci ha fatto perdere di vista e che Covid- 19 ci ha, semplicemente, costretti, obtorto collo, a guardare. Non è una ricetta; è soltanto la constatazione che parte, anzitutto, da uno sguardo alla mia espe- rienza. La domanda che mi guida e che consegno anche alla riflessione perso- nale del lettore è: quali lezioni possiamo apprendere dal trauma della pande-

mia da Covid-19? Sfioro, ma soltanto per schizzare un riferimento più preciso

a quanto intendo dire, la definizione di trauma che ascrivo alla lezione del co- ronavirus. Seguendo la prospettiva culturale di Jeffrey Alexander, un trauma culturale si verifica quando una collettività sente di essere stata colpita da un

evento terribile che ha marchiato irrevocabilmente la loro coscienza di gruppo, segnato in maniera definitiva le loro memorie e modificando per sempre la loro identità futura (Alexander, 2012). Ho pochi dubbi sull’idea che la nube di ma- lattia e di morte di Covid-19 si configurerà presto come un trauma culturale. Anzi, nelle zone che più sono state esposte alla sua ondata, abbiamo assistito da subito alle prime rivendicazioni, ai primi inneschi di una rudimentale spirale della significazione agita in arene istituzionali differenti. Una delle domande, ad esempio, che si fa largo presso l’opinione pubblica nei giorni in cui concludo la stesura di questo lavoro riguarda la mancata istituzione della zona rossa in quei paesi della Val Seriana che, più che altrove, hanno subito il dilagare in- controllato della pandemia, con il suo pietoso strascico di contagiati e, soprat- tutto di morti2. Tuttavia, è prematuro immaginare la piega che questo processo prenderà e quali forme assumerà. Posso soltanto rifugiarmi dietro l’innocenza dei miei figli che, nei giorni di plateau della curva dei contagi in Lombardia, mi hanno invitato ad una conversazione alla quale nessuna delle mie teorie sa dare una risposta: – papà, ma poi faranno un monumento come quello dei ca-

duti? – No, papà, forse costruiranno una chiesa per metterci i teschi, come quella vicino al parco (una cappella eretta in città in ricordo della Grande Peste

del 1630).

Sarà interessante, e rimando ad una ricerca meno affetta dall’urgenza di que- sta, l’analisi di quanto accadrà. Nel frattempo, ciò che possiamo fare è imma- ginare creativamente le lezioni del trauma che verrà e trasformarle, forse un po’ rischiosamente, in squarci aperti sul futuro. Le propongo al lettore nella forma di diritti da riscoprire e reclamare per il tempo del dopo Covid-19 che, comun- que, verrà.

Il diritto allo spazio. Per quanto possa apparire controintuitivo e forse anche

vagamente reazionario, il dovere che ci è stato imposto da un giorno all’altro del distanziamento sociale porta con sé un vantaggio. Lasciarci globalizzare disordinatamente come è accaduto nell’età dell’oro delle interconnessioni ci ha stipati in viaggi aerei low cost dove abbiamo sperimentato, a nostre spese, il vantaggio, tutto relativo di viaggiare con le nostre ginocchia sotto al mento e quelle del passeggero dietro di noi nella schiena. Non è mia intenzione condan- nare questo modello, ma Covid-19 ci lascerà in eredità la necessità, a meno che non ci condanniamo alla chiusura di ogni socialità in attesa della salvezza che arriverà sotto le forme del vaccino o di una immunità di gregge (che amara ironia della sorte accostare l’idea del distanziamento sociale alla massa informe di un gregge), di mantenere maggiore distanza tra di noi. Reclamo di poterlo

2 https://www.corriere.it/cronache/20_aprile_06/01-interni-vircorriere-web-sezioni-

rivendicare come un diritto. Non si tratterà soltanto di mantenerci a debita di- stanza gli uni dagli altri perché questa finirebbe presto per diventare una pru-

derie meramente igienista, ma di poter godere dello spazio, di poter vivere lo

spazio aperto riconoscendolo come nostro e non soltanto come mio. Credo nella scommessa di poter riconoscere alla distanza la funzione di unione, prima e più che di separazione. Potrà essere lo spazio delle città, della natura o di casa nostra, poco importa, ma la creatività che possiamo dispiegare potrà portarci ad avere maggiore consapevolezza.

Il diritto al qui. Covid-19 è piombato nelle nostre strade provenendo da un

altrove indefinito che ci eravamo illusi di poter dominare e controllare. Ab- biamo ritenuto che fosse affare di altri, di un’altra parte e sarebbe bastato im- pedire a quell’altrove di varcare le nostre soglie per poterne essere immuni. E così abbiamo sentito il nostro spazio invaso, travolto e atterrito da una minaccia che non ci riguardava, ma che aveva preso a farlo tutto ad un tratto. Se c’è una lezione che possiamo trarre dal trauma che ne è derivato è che nessun luogo è un altrove e che ogni spazio è un luogo. È carico della propria storia, delle proprie vicende, delle persone che lo abitano e se ne curano. Il décalage tem- porale e spaziale che ha accompagnato la diffusione della pandemia in ogni dove ce lo ha mostrato chiaramente e, con esso, ci ha mostrato come nessuno possa essersi sentito immune. Dalle case di ciascuno di noi ai nostri comuni, dalla nostra regione al nostro paese, all’Europa, al mondo, Covid-19 ci ha mo- strato ogni sprazzo e ogni angolo dei luoghi che ha attraversato. E alla sua espansione è corrisposto il nostro ritrarci tra le mura di casa da dove abbiamo lasciato la nostra vita scorrere e abbiamo acconsentito a che gli altri venissero a farci visita nelle nostre intense attività di lavoro da remoto. Possiamo trasfor- mare questa novità inattesa in una risorsa per il nostro futuro: il qui che abitiamo resta il centro della nostra vita; ne siamo custodi e non padroni.

Il diritto alle emozioni. L’altra fondamentale lezione che il trauma di Covid-

19 ci consegna è l’esplosione di emozioni che ad esso si sono accompagnate: panico, paura, dolore, rabbia, gioia. Come ogni evento estremo, il suo accadere ha preceduto la razionalizzazione. Ci siamo accorti di quanto stava accadendo soltanto quando era già passato. Nel mezzo, non abbiamo potuto fare altro che lasciare che la nostra psiche collettiva subisse i colpi che le venivano inferti e che la grande disponibilità di comunicazione mediata ha amplificato in maniera imponente. Ricordo il pomeriggio della grande tempesta nella mia terra, quello in cui l’epicentro delle cronache era il piccolo ospedale di Alzano Lombardo, nella provincia bergamasca. Le notizie si susseguivano, sostenute da una ge- stione dell’emergenza poco meno che dilettantesca, si contraddicevano e si ac- cavallavano. Quel pomeriggio il telefono si era fatto bollente, specie nelle chat dei social network. Passavano le indicazioni più disparate e le emozioni più

contraddittorie. E poi, nei giorni a venire, le immagini che hanno fatto il giro del mondo, degli ospedali traboccanti, dei morti senza fine, delle sirene inces- santi. La paura ha abitato la mia terra e la terra di ciascuno di noi e noi abbiamo dovuto reimparare a gestire collettivamente le emozioni, anche le più intense, dopo averle serbate nello spazio chiuso delle nostre piccole comunità di riferi- mento. Poter liberare le emozioni e avvertirne l’urgenza, anche come regolatori culturali dell’agire, può essere un diritto da reclamare per il futuro; perché que- sto è il modo più immediato di creare comprensione con gli altri.

Il diritto al tempo. Chiudo con l’ultima lezione che il trauma di Covid-19 ci

potrà insegnare. Quelle settimane ci hanno mostrato quanto il tempo sia una risorsa fondamentale pe la vita individuale e per quella collettiva. Per la mag- gioranza di noi, per i quali la pandemia è stata una notizia al notiziario, il tempo è stato una risorsa ritrovata; per i molti che hanno avuto bisogno di un ricovero è stata una corsa contro di esso; per i pochi, comunque troppi, che non ce l’hanno fatta, il tempo è stato troppo poco. Per tutti è stato ritrovare un bene irrinunciabile e una realtà che non possiamo piegare alla nostra volontà. Riap- propriarsene significa anche fare i conti con il senso della nostra finitezza.

Come accennavo sopra, non intendo questo come un elenco significativo e, meno ancora, esaustivo delle lezioni del trauma che Covid-19 ci ha fatto speri- mentare, quanto piuttosto come un primo spunto attorno al quale organizzare la nostra esperienza di quanto è accaduto, Qualcuno dice che nulla sarà mai più come prima. È possibile. Ma, certamente, noi saremo diversi da quelli di prima.

Conclusioni

Ho scritto questo libro sull’onda emotiva della pandemia da Covid-19 che ha assediato il mondo intero tra la fine dell’inverno e la primavera 2020. Per molti giorni il nostro paese è stato secondo soltanto alla Cina per diffusione del contagio e, in esso, la mia terra, ne è divenuto il disgraziato e inconsapevole epicentro europeo.

Da un giorno all’altro, il mondo che conoscevamo, le routines della nostra vita quotidiana e la vita a cui eravamo abituati sono state letteralmente scon- volte e travolte. Il nuovo orizzonte della quotidianità è diventato casa nostra, le sole persone che abbiamo incontrato la nostra famiglia, le uniche notizie del mondo che abbiamo appreso, quelle sulla pandemia. Come un inatteso e repen- tino vortice il coronavirus ha letteralmente travolto il mondo.

Tutti abbiamo imparato qualche rudimento di epidemiologia, come, ad esempio, il significato del famigerato erre con zero, il fattore di riproduzione del virus. Invece, quasi nessuno si è interessato alla comprensione delle dina- miche sociali e culturali che questo inopinato fenomeno ha dischiuso. Del resto, eravamo stati ammoniti da Peter Berger già molti anni fa: «un sociologo [che venga presentato ad un party] non suscita in genere maggior interesse di un agente delle assicurazioni: deve guadagnarsi l’attenzione con fatica, come tutti» (Berger, 1970: 11). Questo libro non ha nessuna ambizione, se non quella di avermi consentito di raccapezzarmi in quanto stava accadendo. Come tutti, ad un certo punto, ho avvertito il bisogno di comprendere, di incasellare – certa- mente anche di ammansire – e di lenire quanto accadeva intorno a me e cresceva così tumultuosamente e vorticosamente da non lasciarmi il tempo di digerire oggi quanto era accaduto ieri.

È un libro scritto di getto e le riflessioni che provo ad avanzare non hanno nulla dalla quiete posata della riflessione distesa. È un libro al grezzo, realizzato nell’urgenza di dotare, anzitutto me stesso, di qualche punto di riferimento per comprendere quel mondo che, ancora questa mattina mentre scrivo, è là fuori.

Però una piccola pretesa questo lavoro ce l’ha. Il pensiero sociologico af- fonda le sue radici nel tumultuoso e disordinato tempo di radicale trasforma- zione determinato dall’avvento della modernità industriale. Nell’epoca in cui le società d’ordine cedevano il passo ai mutamenti moderni, i padri fondatori della sociologia provavano a mettere ordine e a definire categorie nuove per l’economia di sussistenza che veniva soppiantata dall’economia di mercato, per la borghesia industriale che sostituiva l’aristocrazia terriera, per la coscienza individuale che cessava di essere coestensiva alla coscienza collettiva, per la razionalizzazione che sottraeva peso alla tradizione, per la coscienza di classe che spalancava le porte al superamento delle identità ascritte. Insomma, la so- ciologia è nata esattamente per osservare, descrivere e, soprattutto, compren-

dere il terremoto che ha sconvolto il piccolo mondo antico sulle cui macerie si

è affermata la Los Angeles che cresce. Allora, questa è la mia rivendicazione, pochi saperi, forse nessuno, più del nostro hanno inscritto nel proprio DNA epistemologico la possibilità di leggere il mutamento che attraversa le società, talvolta atterrendole. L’epidemia da Covid-19 è (stato) uno di questi momenti e, mentre imperversava, ho visto prendere forma molte delle teorie che impa- riamo sui banchi dell’università. È un privilegio di cui avrei fatto volentieri a meno, ma a cui, come tutti noi, non mi sono potuto sottrarre. E allora ho cercato, semplicemente, di leggerlo con alcune parole che la peculiare forma di cono- scenza in cui sono specializzato ha elaborato nel corso degli ultimi trent’anni che, incidentalmente, sono stati tempi, ancora una volta, di radicale, tumul- tuoso, disordinato mutamento. C’è chi l’ha definita liquida, chi radicale, chi

avanzata, chi post-qualchecosa. In ogni caso, la sensibilità sociologica ha mo-

strato da tempo come la società contemporanea si trovi nuovamente in mezzo ad un guado e alle prese con la necessità di capire e comprendere.

Covid-19 è (stato) anche una specie di concentrato temporale di un terre- moto globale. È accaduto tutto nello spazio di qualche mese: esplosione, ca- duta, gestione, lenta uscita, transizione. E, dunque, per quelli come noi che hanno il vizio di spiare dal buco della serratura del sociale, è stata anche una ghiotta occasione per dare forma ai nostri ragionamenti. Ho così cercato di gui- dare il lettore nella lettura del peculiare momento che abbiamo vissuto salendo sulle spalle dei giganti e guardando dall’alto ciò che accadeva sotto. Attraverso Ulrich Beck, forse il più fine osservatore della globalizzazione in chiave so- cioeconomica, abbiamo compreso e operativizzato la nozione di rischio glo- bale, comprendendone le linee di sviluppo, le caratteristiche e le conseguenze sulle persone. Mi esprimerei volentieri dicendo che se dovessi trovare la più sintetica definizione di Covid-19 in chiave sociologica, questa farebbe neces- sariamente riferimento alla globalizzazione del rischio che Beck ci ha inse- gnato.

Zygmunt Bauman ci ha guidati nell’universo della paura liquida contempo- ranea. Le sue definizioni icastiche e l’acume del suo sguardo ci hanno fatto buon gioco nel definire quanto è accaduto intorno a noi, il senso di spaesamento e di terrore che sta racchiuso nella bolla di esperienza che è andata dalla sco-

perta del paziente 1 di Codogno alla pietosa fila di mezzi militari che hanno

attraversato la mia città con il loro carico di morte.

Le serene parole di Norbert Elias ci hanno fatto comprendere le andate e i ritorni dell’esperienza della morte nelle settimane della tempesta. Abbiamo così avuto accesso all’universo del dentro, del punto di vista interno di chi ha visto Covid-19 passare tra le mura di casa propria e lasciare il suo carico più pesante, la scomparsa di persone care. Frastornati e attoniti, abbiamo potuto osservare come il processo di civilizzazione e di emancipazione dalle passioni divoranti del passato sia stato interrotto di colpo dalla pandemia e quali strategie abbiamo potuto mettere in campo nell’immediato per non farcene sopraffare.

Con Alain Touraine abbiamo, infine, messo a punto una possibile chiave di lettura e di azione per il futuro che ci attende. Non sono tra quelli che ritengono che nulla sarà mai più come prima; anzi, non prendo partito per nessuna schiera di novelli apocalittici o integrati perché, semplicemente, non so cosa ci si riservi il futuro. Tuttavia, ciò che possiamo rilevare è la possibilità che ci è offerta di fermarci, quantomeno, a riflettere sul senso di quanto ha attraversato le strade delle nostre comunità. E, forse, riappropriarci di quanto è in nostro potere per agire la vita piena e creativa di cui siamo fautori.

Il lettore accorto lo sa. Le parole e gli autori a cui mi sono accompagnato sono quanto di più diverso esista nel piccolo mondo della sociologia per estra- zione, sensibilità e tradizioni di pensiero. Non è infrequente imbattersi nelle felpate critiche dell’uno verso l’altro e viceversa. Talvolta, ci si diverte pure perché capita che non se le mandino a dire. Ma tutti sono accomunati dalla passione per il mondo là fuori. Prego, dunque e ancora una volta, questo lettore sensibile e informato di perdonare lo scarso rigore teorico che accompagna il testo in questo peculiare senso. Agli altri, quelli a cui assomiglio di più, spero di aver offerto uno spaccato sul mio mondo: lo stesso che condividiamo tutti; quello che ho il privilegio di osservare con i piedi dentro e gli occhi fuori.

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