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L’IMPERIO DI TAICOSAMA

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Chi fosse Taicosama, e come salisse all’imperio del Giappone. Solenni esequie fatte a Nobunanga.

[1] Ridotto in cenere Nobunanga e spentane seco ogni memoria (peroché tutti arsero in pochi dì que’ superbi edificî, ne’ quali la sua gloria e ’l suo nome, come egli si prometteva, doveano sopravivere immortali), la signoria del Giappone, da un re cadde in un tiranno cioè da Nobunanga in Fasciba. [2] Di costui, che fu il primo, che per sua valentia riunì in un corpo e tornò in piedi la monarchia giapponese, già da molti secoli addietro smembrata e divisa per più chiara notizia delle cose che sieguono a dire, mi fa bisogno metterne qui avanti in iscorcio la figura, accennandone in poche linee quel che di poi ci converrà, a’ suoi luoghi, distendere a parte a parte. [3] Fasciba dunque Cichidono, naturale del Regno di Mino fu, per origine, di finissimo sangue plebeio e campava sua vita facendo legna al bosco e recandone i fasci in ispalla a vendere nella città vestito o più tosto ammagliato in una stuoia, poiché altro non avea con che nasconder le carni e ripararsi dal freddo ed egli poi solea raccordarlo provando che dovea tutto alla sua virtù niente alla fortuna. [4] Era piccolo di persona, eziandio fra’ giapponesi che poco s’alzano in istatura, ma compresso e membruto da reggere a ogni fatica, e in una mano avea sei dita. [5] Di fattezze in volto sozzissime e orribili a vedere, tal che appunto pareva scoppiato da una quercia e uomo salvatico, se non che avea poca barba e gli occhi bruttamente sporti in fuori. [6] Annoiato di quel suo mestiere di fare e vendere legna, cambiò vita e tutto insieme fortuna peroché, passato dalla scure alla spada, soldato in servigio del re di Mino, come era uomo di gran forze e di gran cuore, colà, dove le battaglie si conducono più che altramente al menar delle scimitarre, fece della sua persona maraviglie e cominciò a montare a salti dall’imo al sommo de gli onori e de’ carichi in guerra. [7] Capitano condottiere d’esercito, generale dell’armi di Nobunanga e per lui era in battaglia con Achino Moridoro re d’Amangucci e di tredici regni, cinque già ne avea conquistati e dava su gli altri, quando gli venner corrieri coll’annunzio della morte di Nobunanga. [8] Or, come altre volte ho detto, che in Giappone i signori di qualche polso or sia in istato or in armi, non cominciano a pensar d’avanzarsi a grado maggiore quando s’apre loro la via da poterlo eseguire, ma come fin da fanciulli ne concepiscono il desiderio e sel covan nel cuore, così fin d’allora ne ripensano il come e quando il tempo e l’occasione ne dà loro buon punto alle mani, vi si mettono come a cosa già da gran tempo studiata, Fasciba, anch’egli un di questi, mentre era tutto in vincere per Nobunanga, era anche tutto in pensare come di poi vincere Nobunanga. [9] E fu ben tratto da quel savio uomo ch’egli era, ma savio alla giapponese, cioè tutto arte e simulazione da fingersi quel che non era, il non accorrere a Meaco subito che ne intese la morte di Nobunanga. [10] Anzi, si diè a fare più che mai grandi mostre di volersi rimanere in Farima a proseguirvi la guerra fino a mettere in ultima distruzione il re d’Amangucci con la quale apparenza, in pochi dì, il condusse a quel che solo avea in disegno di costringerlo col timore a venir seco in accordo di pace e giurarglisi tributario de gli otto regni che gli rimanevano franchi. [11] Allora un poco più tardo, ma molto più forte si rivolse con l’esercito a Meaco, difilato, diceva egli, a vendicar la morte del suo signore, ma già l’aveano prevenuto in ciò l’armi di Giusto Ucondono che ruppero, come dicemmo, e quelle de’ villani che uccisero il traditore. [12] Perciò tutto si diede a nuovi ufficî di fedeltà e d’amore mostrandosi spasimare del suo Nobunanga e di volerne mantener nel suo sangue la signoria de’ regni che s’avea acquistati e per farlo s’intitolò tutore del pupillo erede, ch’era un fanciullino di tre anni, figliuolo del primogenito di Nobunanga e ’l mandò allevare nella fortezza d’Anzuciama, in guardia del secondo genito di Nobunanga, scemo di cervello e più da catena che da corona. [13] A Sanscicidono, il terzo, diè in sua parte il Regno di Mino, poi gli levò tutto insieme la corona e la testa. [14] Il quarto, per nome Vocucci, se l’adottò per non provederlo come principe mentre finge di volerlo suo erede come figliuolo. [15] Tutte apparenze di pietà e mostre di gratitudine alla memoria e al merito di Nobunanga e allora gli erano necessarie per guadagnarsi l’amore de’ popoli e dar sembiante di giustizia alla guerra, che subitamente bandì contro a’ più possenti re e capitani che gli si potevano

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attraversare e rompergli il salire alla monarchia, dove aspirava. [16] E sì gli venne fatto che in brieve tempo, tra per fortuna e per valore, piantò nuove fortezze intorno a Meaco e conquistò le possedute da gli altri. [17] De’ suoi avversarî, parte n’ebbe a pie’ supplichevoli e renduti alla sua mercé, parte presi a forza, condannò ad obbrobriosi supplicî oltre a non pochi, eziandio re, che condusse a quell’ultimo atto della disperazione e della generosità giapponese, di segarsi in croce la pancia e ardersi mezzi vivi. [18] Costrinse Moridono a donargli tre regni se non volea perderne otto. [19] Altri, prima che loro li togliesse, glie li donarono. [20] In men d’un anno, parte d’acquisto e parte di spontanea suggezione n’ebbe trenta in signoria. [21] Allora cominciò a non aver più bisogno di fingersi amministratore dell’imperio e se ne dichiarò alla scoperta padrone.

[22] E quanto al debito che pure avea con Nobunanga, come uomo di coscienza ch’egli era, ne saldò le partite con l’anima sua pagando a’ del monistero di Marazaschi, ch’era un quarto di lega fuor di Meaco, dieci mila ducati da spendere in celebrargli solennissime esequie. [23] Per ciò, tre mila si adunarono secondo varie sette in varie divise d’abito, tutti con dall’una spalla all’altro fianco attraversata una stola di drappo d’oro broccato. [24] Dopo essi le lor dignità, i lor prelati in pontificale con in mano ciascun di loro una corona di pallottole di cristallo. [25] Appresso ogni ordine e grado di nobiltà, fino a’ principi e re, non in gramaglia come a mortorio, ma addobbati alla solennissima come ad una canonizzazione. [26] Finalmente la bara, per materia e per lavoro cosa a vedere maestosissima in cui si portava (poiché altro non ne rimaneva) la gloriosa memoria di Nobunanga e le andava innanzi Fasciba a piè tutto divoto, se non che teneva in una mano la scimitarra di Nobunanga mostrandola ignuda, non si sapeva bene se per cerimonia o per minaccia, con l’altra si conduceva a lato il picciol Vocucci, quello che dicemmo aversi adottato in figliuolo. [27] Giunta che fu questa lunghissima processione con passi contati e lenti al luogo destinato per l’ufficio funerale, ciascuna setta de’ mise mano a’ suoi libri e cominciarono a salmeggiare e, poiché ne furono essi stanchi e Fasciba sazio, il fanciullo Vocucci con una facellina dorata in mano e con bellissimo garbo, s’avvicinò alla catasta delle legne su le quali i portatori aveano posata la bara e vi mise sotto il fuoco, ed ella arse e portò in fumo la memoria di Nobunanga, tal che Fasciba mai più non se ne raccordò. [28] Indi per farsi un imperio si diede a disfare i regni, riducendo a miseri vassallaggi quegli ch’erano assoluti dominî. [29] Cominciò da quell’altissimo grado ch’era la dignità di Cubosama e spianollo cassandone fino il titolo e Voiacata, che l’avea, si recò a gran ventura poterne far getto con le sue proprie mani rinunziandolo, e così campare ignudo, ma vivo. [30] Sedici anni signoreggiò il Giappone e furono sedici miracoli colà mai più non veduti, durando sì lungamente in vita e in istato un tiranno che tolse e diede a chi e ciò che volle, fino a digradare e diporre in un sol dì, tra principi e re, trentadue gran personaggi, sustituendone altri in lor vece, più suoi amici, benché non più sicuri della sua grazia, ma trecentomila scimitarre ignude in pugno ad altrettanti suoi soldati in guerra e carnefici in pace e non oziose, peroché sempre minacciavano e spesso colpirono facendo macello di popoli e allagamenti di sangue, il renderono sì terribile e sì temuto che, per molto che fosse odiato, troppo più era ubbidito. [31] Tre volte con tre titoli l’un maggiore dell’altro salì sopra se medesimo. [32] Fino all’anno 1585 durò coll’antico e proprio suo nome di Fasciba, ma parendogli che il nominarlo qual era nato fosse raccordargli le bassezze ond’era salito, ebbe il suo nome a rimprovero e sel cassò di fronte coprendo la macchia della sua primiera ignobiltà col famoso titolo di “cambacu”, che vuol dire “arca di tesoro”. [33] E percioché niun onore in Giappone è legittimo se nol concede il «dairi», che anticamente era l’imperadore, poi spogliato dell’imperio da’ suoi medesimi sudditi, si rimase con questa sola autorità di dar titoli e fogge d’abiti loro convenienti; Fasciba, per averne come in dota quel di cambacu, prese donna una parente del «dairi» e seco la fece imperadrice di cinquantasette regni ch’egli già possedeva. [34] Così durò a nominarsi fino al 1592 quando rinunziò al nipote il titolo di cambacu ed egli da se medesimo si chiamò Taicosama, cioè a dire supremo signore e così anche a noi converrà, secondo questa diversità di tempi, diversamente nominarlo. [35] In fine non gli rimanendo dove più alto salire che a farsi Iddio, si fece Iddio e morì, quella bestia d’uomo ch’egli era, l’anno 1598 nel meglio de’ suoi pensieri di soggiogare il Corai e la Cina. [36] De’ vizî di costui, assai più mostruoso

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e laido nell’anima che nel corpo, non mi prendo qui a scrivere, peroch’ella è materia troppo puzzolente che a mestarla ammorberebbe. [37] Basti sol dire ciò che assai meglio si vedrà nel racconto delle cose avvenire, ch’egli nell’una e nell’altra parte del suo vivere e del suo governare, fu il Tiberio del Giappone. [38] Quanto alla religione ebbe di bene il non essere idolatro, ma nato da un mal maggiore del non credere in Dio. [39] Perseguitò i «bonzi» e gl’idoli, poi li favorì. [40] Favorì i cristiani e la fede, poi li perseguitò, né questa varietà fu incostanza ch’egli sempre andò a regola d’un medesimo e solo principio che avea, di valersi di tutte le cose quanto ben gli tornavano all’interesse.

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Disposizione a gran conversioni nel Gochinai. Fasciba ama la fede e i fedeli e gli onora e perché.

Chiesa e casa, conceduteci in Ozaca e in Sacai. Il seminario trasferito da Anzuciama a Tacatzuchi.

[1] Or mentre egli durò propizio alla cristianità, che furono i primi cinque anni del suo principato, ella andò in un sì gran crescere e dilatarsi eziandio colà nel Gochinai (che sono i cinque regni che si attengono a Meaco e d’essi in prima ragioneremo) che il p. Organtino che, quivi già da tanti anni faticava in opere da uomo apostolico, scrisse al generale Aquaviva con tanta espressione di giubilo, ch’ella par lettera d’un beato in terra chiedendogli la metà di tutta la Compagnia ch’era non solamente in Italia ma in Europa. [2] E darebbela s. paternità tanto sol che di presenza vedesse, com’egli faceva, le preziose anime ch’eran quelle de’ giapponesi il commun desiderio di conoscere la verità nelle cose dell’eterna salute, la sottigliezza dell’ingegno per ben interderla, la prontezza in abbracciarla, la costanza in seguirla, senza atterrirsi né di povertà né di morte e, quel che di presente faceva il bisogno di tanti nuovi operai, l’universal disposizione di tutto quell’imperio a convertirsi. [3] Quaranta e più mila idolatri che, in quel solo distretto del Gochinai s’erano battezzati ne’ dieci anni addietro (e per cagion di Meaco difficilissimo a cambiar legge valeano per dieci tanti), esser nulla rispetto a quello che di presente si offeriva. [4] Ben aspri essere i patimenti e continui i pericoli di morte in che i nostri menavan la vita colà, dove tutto era in rivolta e sottosopra, i regni in armi, i popoli in battaglia ma pari anch’essere la consolazione dell’animo veggendo che quelle guerre non servivano tanto a distruggere gli avversarî di Fasciba, quanto i nemici di Cristo. [5] Ciò erano i «bonzi» congiuratisi co’ suoi ribelli e usciti a combatterlo a pieni eserciti in campo. [6] Averne Fasciba oramai quasi del tutto spente quattro delle maggiori sette e con essi i lor monisteri e i lor tempi con gl’idoli, assegnate in pagamento e rimunerazione de’ soldati le loro rendite annovali e fatti de’ lor corpi orrendo macello. [7] De’ monisteri della setta che chiamano di Nengori, multiplicati a sì gran numero che ne aveano insieme una città più che quanto è Sacai, ch’è delle maggiori di tutto il Giappone, non erano avanzati all’incendio più che solo due tempi e, l’un d’essi, Fasciba l’avea donato a’ padri perché il consacrassero a Dio facendone chiesa. [8] Or come i «bonzi», tanto possenti in autorità e in forze erano un insuperabile ostacolo che si attraversava innanzi alla fede e le rompeva il corso al gran dilatarsi che avrebbe fatto, uccisane una sì gran parte, un’altra non punto minore disfattasi da se medesima coll’abbandonare la professione e l’abito, tutto il rimanente in odio a Fasciba, in dispregio del popolo, convertitine anche gran numer, tal che nelle sole terre d’un cavaliere cristiano se ne battezzarono oltre a duecento; i predicatori dell’Evangelio aveano innanzi la strada libera e spianata da portare il nome e la fede di Cristo in molti regni intorno a Meaco, dove per anche non si era fatta sentire. [9] E già alcuni re, molti principi e gran signori, de’ quali le lettere di colà registrano oltre a duecento eziandio di que’ lontanissimi del Bandò, convenuti alla corte in servigio di Fasciba, domandavano padri che predicassero ne’ loro Stati; compiute le guerre essi medesimi ve li condurrebbono, in tanto alcuni d’essi si battezzarono, altri erano catecumeni.

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[10] Fasciba poi se non abbracciava la fede almeno riveriva la virtù de’ cristiani. [11] E quanto alla fede egli ne dicea quel medesimo che già Nobunanga ch’ella, a quel che ne avea più volte udito da’ nostri, gli pareva cosa santissima di principî in tutto confacevoli alla diritta ragione di gran misteri e gran promesse ma troppo indiscretamente severa e alla debolezza della natura umana impossibile ad osservare che, s’ella fosse più mite e più arrendevole in questo solo di concedere alla carne il dilettarsi come glie ne torna in piacere, egli l’abbraccerebbe. [12] Né è da maravigliare che così ragionasse un Fasciba che si teneva trecento concubine in palazzo e cento venti altre giovani che il servivano per sicurezza e per diletto e, come ciò fosse nulla oltre a quel peggio che né pur’è da nominarsi, quante altre o vedeva o udiva lodar di bellezza di cui ch’elle si fossero o di quantunque alta condizione eziandio se reine, così subito le volea. [13] Talché nello scorrere ch’egli fe’ tante volte su e giù per tutto il Giappone dal Bandò fino allo Scimo, conducendo eserciti in battaglia, alle tante femine che si rapiva parea non avere altro maggior nemico che l’onestà. [14] Quanto poi alle virtù de’ cristiani, egli pur seco medesimo le ammirava e lodavale e più quelle che più gli tornavano ad utile come la giustizia e la lealtà. [15] Perciò godea vedendo diffondersi la fede nostra massimamente ne’ nobili, parendogli con averli cristiani averli sicuramente fedeli. [16] Essi in ogni fatto d’arme erano i più arrischiati e in assalti e in battaglie con la croce di Cristo spiegata nella bandiera conducevano le più malagevoli imprese e sempre n’ebbero vittorie sì gloriose e delle proprie vite fecero maraviglie sì grandi che pareano da recarsi più tosto a miracolo della lor fede, che a merito del lor valore. [17] Per ciò anch’essi erano i sollevati a’ più onorevoli e vantaggiosi carichi di preminenza e ufficî di comando. [18] Il capitan della guardia e custode della persona dell’imperadore, il segretario, il tesoriere, il generale della cavalleria, l’ammiraglio del mare, il viceré di Voari, il governator di Sacai, il castellano d’Ozaca e altri, in gran numero, portati dalla propria virtù e dall’amor di Fasciba alle più eminenti dignità e nella corte e nel campo, erano non solamente cristiani ma santi uomini che di colà su alto facean risplendere Cristo a tutto il Giappone e la sua legge tanto crescere quanto essi ingrandivano. [19] E diasi il primo luogo e la maggior lode al merito di Giusto Ucondono, capitano della guardia di Fasciba. [20] Egli con l’esempio della sua vita e con l’efficacia del suo zelo guadagnò alla chiesa di Meaco più principi e signori di Stato che qualunque si fosse de’ nostri che faticavano in que’ Regni. [21] Peroché soavemente li conduceva a udir predicare i padri ed essi, predicando, li traevano al conoscimento della verità e alla profession della fede.

[22] Per lui anche Fasciba ci diè luogo a fondar chiesa in Ozaca, sua nuova città e fortezza tre leghe lungi da Sacai, cacciatone dopo sei anni d’assedio un fraudolente «bonzo» che l’avea ribellata a Nobunanga e, in pena del misfatto, spiantatala ed arsa, indi rifatta con cinquanta e più mila artefici che tutti a un tempo adoperavano a rifabricarla e condotta in ampiezza di circuito in magnificenza di palagi fondativi da tutti i re e principi del Giappone, a troppa più maestà e grandezza che la famosa Anzuciama di Nobunanga. [23] Quivi Fasciba disegnò a baluardi di pietra viva una real fortezza ch’era la chiave mastra di tutto il Gochinai e quivi dentro piantò il suo palagio e collocò il suo tesoro in un’altissima torre, tutta di fuori invernicata d’azzurro e messa ad oro, opera, allora, senza pari in tutto il Giappone e di poi non vinta, se non dalla sua nuova Fuscimi e dal castello che, indi a non molto, edificò in Meaco, lavoro di sessanta mila uomini comandati. [24] Or quivi in Ozaca egli ne scelse e donò a’ padri, per mettervi chiesa, un poggetto negato fino allora alle dimande d’ogni altro eziandio re sì come di troppa gelosia per essere in dosso alla città e naturalmente in difesa, tutto svelto dal piano per un fiume che il tagliava da un lato da gli altri, scosceso e dirupato, agevole a salire solo per una stretta via che poteva guardarsi a mano di pochi, e Fasciba, concedendolo a’ cristiani per farvi chiesa, l’ebbe ad altrettanto che s’egli per se medesimo vi piantasse un castello. [25] Or percioché come altrove si è detto gli edificî de’ giapponesi che son di legname, quantunque di grandissimo corpo, palagi e torri han tutte le membra snodate e messe su arpioni e cardini, talché si scompongono agevolmente e si portano in fasci dovunque altri vuol traspiantarli, Giusto Ucondono, consigliatone dal p. Organtino, mandò a sconficcare e recar su le spalle d’uomini suoi vassalli da dodici miglia lontano la chiesa di Vocaiama, maestosa e degna di quella nuova Ozaca e

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di quell’eminente luogo ond’ella era in veduta della città e vi pareva signoreggiare i tempi de’ gl’idoli che, con le cime, non le arrivavano a’ piedi. [26] Quivi ricommessa in brevissimo tempo, organizzata e fattone un corpo apparì tutta intera, prima che gl’idolatri sapessero doversi incominciare, onde cadde loro il volto e la parola né più s’ardirono a contrastare a’ padri, come aveano in pensiero, la grazia di quel luogo. [27] Ancor nella famosa Sacai avevamo casa bastevole a un numeroso collegio fondatovi dal p. Organtino con sopra il comignolo una gran croce dorata, a cui tutta la casa serviva come d’altare perché i cristiani, da lontano veggendola, l’adorassero, scoppiandone di rabbia quattro monisteri di «bonzi» che le stavano all’intorno. [28] In tanto se ne apparecchiava la chiesa, contesaci fino a tanto che fu quivi governatore un possente idolatro ma poiché Fasciba, per fidare ancor quella troppo importante piazza alle mani de’ cristiani, cassò vergognosamente d’uffizio l’idolatro e gli sustituì Gioachimo Riusa, questi, che era una delle colonne di quella cristianità, ne ordinò subitamente la fabrica e, per cominciarla, il figliuol suo Agostino, allora Jacurodono, poscia come vedremo a suo luogo, detto Tzunocamidono, cavaliere di

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