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in Emilia-Romagna

Nel documento Emilia Romagna cose nostre (pagine 27-52)

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IL GIOCO D'AZZARDO IN EMILIA ROMAGNA

tronde storicamente radicata, che perde 14 miliardi di euro l’anno.

Ma non sono solo i giochi tradizionali e le video-slot a riempire il fattura-to del setfattura-tore, negli ultimissimi anni è in forte crescita il gioco online. Da gennaio 2014 un ulteriore concessione alle agenzie di scommesse ha per-messo la diffusione ormai capillare delle ”Virtual Race”, la nuova frontiera del gioco d’azzardo legalizzato.

Sono eventi sportivi sui quali scommettere: partite di calcio, match di ten-nis, gare d’automobilismo, corse di cavalli (trotto, galoppo e ostacoli) e altri spettacoli più ”esotici”, dallo speedway alle corse di levrieri. La loro peculia-rità? Questi eventi non esistono. Simulati in modo raffinato hanno le stesse caratteristiche degli eventi sportivi reali dai quali traggono i profili e la ter-minologia già nota. Si può puntare ogni 5 minuti. Questa ”area virtuale”

nella quale spendere denaro è del tutto legale e studiata dettagliatamente dai gestori. Le società di scommesse vendono questo servizio, a giocatori già abituati e ai quali si chiede soltanto di continuare a farlo. Veloci e simula-te non importa che esse siano vere purchè siano disponibili. Sempre più svincolati dal merito e dall’abilità, l’unica richiesta sembra quella di giocare sempre più spesso, senza competenze, sull’idea di una scommessa dato che l’evento effettivamente non esiste.

Mentre il governo centrale da mesi discute degli eventuali rischi che il gio-co d’azzardo legale può avere sulla (enorme) popolazione di giocatori, non solo favorisce il mercato del gioco non regolamentandolo in maniera più rigi-da e non riesce a prevedere fondi per la prevenzione e la cura, ma permette che sia possibile vendere questo nuovo tipo di ”scommesse”. Perché?

A rispondere e spiegare alla perfezione il meccanismo ”perverso” ci pen-sava, già nel 2010, la relazione sui profili del riciclaggio connessi al gioco lecito e illecito resa nota dalla Commissione parlamentare antimafia. Il settore del gioco costituisce il punto di incontro di ”plurime, gravi distorsioni dell’as-setto socio-economico quali, in particolare, l’esposizione dei redditi degli italiani a rischio di erosione; l’interesse del crimine organizzato; la vocazione truffaldi-na di taluni concessiotruffaldi-nari che operano, sovente, in regime di quasi monopolio; il germe di altri fenomeni criminali come usura, estorsione, riciclaggio; infine, la sottrazione di ingenti risorse destinate all’erario.

La diffusione estesa sul territorio delle più fantasiose forme di tassazione

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indiretta (derivanti dal cosiddetto gratta e vinci, dal lotto e sue varianti, dalle slot machine, dalle sale bingo, dal gioco via internet, dal videopoker), in veri-tà alimentano la malattia del gioco, invece di curarla. ”Nei periodi di crisi economica si denota ancor più tale fenomeno degenerativo – afferma la Commissione antimafia nella sua relazione – in quanto, nella impossibilità di un aumento della tassazione, si accentua il ricorso ad incentivazioni della malat-tia del gioco, un meccanismo che, quanto più cresce, tanto più è destinato a fa-vorire forme occulte di prelievo dalle tasche dei cittadini, mascherando tale prelie-vo con l’ammiccante definizione di gioco, divertimento e intrattenimento”.

La Commissione parlamentare antimafia riteneva già necessario fermare questa deriva e segnalare con forza quanto possano risultare effimere le en-trate da tassazione indiretta e quanto, invece, siano progressivamente deva-stanti i danni ed i costi per i singoli e per la collettività.

Parallelamente a questo settore legale esiste un mondo infinito di attivtià al limite della legalità o totalmente illegali, gestite in gran parte dalla crimi-nalità organizzata. Mentre sono oltre 161000 gli ”sportelli per il gioco” tra tabaccherie e altri esercizi commerciali in cui è reso disponibile il gioco e ol-tre 400000 le macchinette installate, esiste una quota di mercato, circa il 20% delle giocate, che non viene intercettato perché deviato in bische, alli-bratori, macchinette manomesse.

Ma non solo macchinette, le mani delle criminalità organizzata sono da sempre nel settore. Storicamente abbiamo assistito alla gestione delle cor-se ippiche, dove l’illiceità delle attività può riguardare sia la gestione delle scommesse sia la gestione delle stesse corse che possono essere influenzate da accordi occulti tra scuderie, da atteggiamenti minatori verso i fantini o dalla pratica del doping sugli animali. Negli anni 2000 l’apertura delle sale Bingo fu un assist per le mafie locali che trovarono maggiori possibilità di ri-ciclaggio del denaro e di diversificazione delle attività. Suggerisce un Rapporto Antimafia: ”A tale riguardo fa riflettere la circostanza che le conces-sioni per la gestione di sale Bingo, attraverso l’acquisizione diretta del controllo della casa da gioco, provochino importanti effetti indotti, quali tra l’altro l’ac-quisizione delle strutture legate ai Casinò (alberghi, ristoranti, locali notturni) o mediante l’abusiva concessione di prestiti ad alti tassi di interesse da parte dei cosiddetti cambisti, per finanziare i clienti in perdita e ormai invisi agli uffici dei

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casinò stessi; o infine ricorrendo a giocate fittizie, cambiando rilevanti somme di denaro (in più tranche per sfuggire alle segnalazioni di legge) e ottenendo poi a fine serata un assegno emesso dalla casa di gioco che attribuisce la liceità di una vincita alle somme provenienti da attività delittuose”.

Anche l’aumento delle giornate in cui giocare al Lotto, il Superenalotto e le decine di nuovi Gratta e Vinci sono stati sfruttati dalle mafie come strumenti per riciclare il denaro acquistando i tagliandi vincenti pagando un che va dal cinque al dieci per cento. In questo il reale vincitore ha la convenienze economica di vincere di più e ricevere immediatamente i soldi, mentre la criminalità organizzata potrà utilizzare i biglietti vincenti per giustificare l’ac-quisto di beni o addirittura di attività commerciali.

A fianco alle attività dirette sul gioco d’azzardo nascono, poi, altre attivi-tà molto redditizie per le mafie nostrane, prime tra tutti usura ed estorsioni.

È la Direzione nazionale antimafia a elencare i due principali modelli estorsi-vi utilizzati dai clan:

1. imposizione ai gestori di locali pubblici o privati di installare nei propri spazi apparecchi elettronici di intrattenimenti – i c.d. videogiochi, non ne-cessariamente alterati nel loro funzionamento – pretendendo poi di introita-re tutti i introita-relativi ricavi o imponendo la consegna di una larga percentuale

2. imposizione ai gestori e noleggiatori che già hanno ottenuto la licenza per l’installazione degli apparecchi elettronici nei loro locali di una tangente sui guadagni. Per non parlare dell’aumento della microcriminalità che si re-gistra in tutte le province, da Rimini fino a Piacenza, attorno a bar o locali in cui sono presenti video-slot.

Sono tante le inchieste che hanno dimostrato la presenza e gli interessi della criminalità organizzata nel gioco d’azzardo in Emilia-Romagna dagli anni

’80 fino ai giorni nostri, ma il caso più emblematico è sicuramente il proces-so ”Black Monkey” partito con l’arresto di Nicola Femia detto ”Rocco ’u cur-tu” il 23 gennaio 2013 in Romagna.

Terreni edificabili, ville con piscina intestate a società immobiliari di comodo e persino un hotel preso in affitto a 130mila euro l’anno nel cuore di Punta Marina.

Così Femia stava cercando di investire e ripulire gli incredibili flussi di denaro che arrivavano da ogni parte d’Italia verso i conti e le società della sua galassia (Joy to Play, Italia Games, Las Vegas Game, New slot, Arcade, Astor, Slot point e altre

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ancora) che gestivano in tutta Italia sale giochi e video poker. Società intestate a terzi, come i figli Nicholas e Guendalina, ma interamente riconducibili al pre-sunto leader dell’organizzazione a delinquere . Novanta milioni di euro tra so-cietà e beni mobili e immbili sequestrati, una mole di denaro imponente quella che il calabrese di Gioiosa Jonica stava cercando di ”ripulire” in Romagna attra-verso un complicato dedalo di società, spesso immobiliari, che servivano a ripu-lire quegli incassi, allontanando il nome di Femia da eventuali indagini.

La prima volta che si sente parlare di Nicola Femia in Regione è nel di-cembre 2009, quando a 48 anni viene arrestato a S.Agata sul Santerno per associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti. Femia, però, aveva conosciuto arresto e carcere fin dall’ottobre del 2002. Evidentemente la lezione non gli era servita, dato che i carabinieri lo hanno tratto in arresto per essere stato uno delle figure centrali di un giro di centinaia di chili di eroi-na, cocaina e marijuana. Dalle poche pagine di cronaca locale che si occupa-rono del caso si apprende che dopo il processo celebrato a Catanzaro, in cui è stato chiamato a rispondere di narcotraffico ed altre frivolezze ancora, Nicola Femia è stato condannato a 30 anni di cella in primo grado. Ma pro-prio sul settore del gioco d’azzardo poneva l’attenzione la DIA già nel 2003:

”Il comune di Santa Maria del Cedro vede il predominio della cosca Femia, vicina ai clan camorristici campani, secondo quanto emerso dall’operazione Anje. La compagine criminale gestisce, fra le altre tradizionali attività dilettose, il mercato dei videopoker... Geranio Graziella, moglie del capo Nicola Femia, ha retto le fila dell’organizzazione criminale nel periodo di detenzione del marito. I due sono stati colpiti da un provvedimento restrittivo nell’ambito della citata operazione”.

Oltre alla preoccupazione della DIA sempre nei primi anni 2000 Nicola Femia viene inserito nell’indagine Anje, che riguardava enormi quantitativi di droga spinti lungo l’asse calabro-pugliese.

Per gli inquirenti esisteva un business gestito da narcos albanesi che avreb-bero provveduto al costante rifornimento dei ”fratelli” calabresi con cocaina eroina e marijuana. Traffici che sarebbero stati preceduti da contrattazioni telefoniche ”criptate”. Da un capo all’altro della cornetta i compari avreb-bero trattato l’acquisto di slot machines e pecore. Macchinette ed ovini inesi-stenti, secondo l’accusa. L’espediente sarebbe servito per celare l’enorme smercio di sostanze stupefacenti. L’organizzazione di albanesi avrebbe

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to una guida unica e una gestione verticale per riuscire a rifornire diversi mercati calabri. Ogni area avrebbe avuto un referente che si sarebbe occu-pato di organizzare una rete locale di spaccio. In particolare nel crotonese il riferimento sarebbe stato Francesco Mellino (poi condannato all’ergastolo per l’omicidio di mafia di Gabriele Guerra avvenuto proprio in Romagna) con l’aiuto di Ariania, Cardamone, Pupa, mentre dell’approvvigionamento nell’area del Tirreno cosentino si sarebbe occupato proprio Nicola Femia.

Nonostante fosse un personaggio conosciuto agli inquirenti Femia è riu-scito a mettere in piedi un impero basato sul gioco d’azzardo, correndo sempre sul filo tra la legalità e l’illegalità, mantenendo forti legami con le co-sche milanesi dei Valle-Lampada. In un’intercettazione uscita durante le indagini milanesi Giulio Lampada chiede l’aiuto dell’amico imprenditore

”romagnolo”, Nicola Femia, per l’installazione delle slot: ”170 macchine complete sarebbe a dire 2500 € più Iva senza mettere i modelli né niente... alla cortese attenzione di Milano Games (una delle società del Lampada)”. Nicola Femia effettuerà l’operazione saldando questo ordine con la ditta di Massa Lombarda ”Las Vegas Games”, intestata alla figlia.

Secondo le indagini Rocco Femia controllava e gestiva, attraverso modali-tà tipicamente mafiose (estorsioni e sequestro di persona), un’intensa attivimodali-tà illecita dedita allo sfruttamento del gioco d’azzardo on-line e delle video-slot manomesse. Le indagini, coordinate dalla Dda di Bologna, e che hanno visto impegnati sul campo i finanzieri del comando provinciale di Bologna, hanno preso il via nel 2010, quando una delle vittime della cosca, un marocchino re-sidente a Bologna, trovò il coraggio di denunciare (l’unico tra tutte le vittime) il pestaggio che aveva subito dagli uomini di Femia per un presunto debito non onorato. È così che viene alla luce un’organizzazione radicata in Italia e all’estero e che coinvolge addirittura esponenti delle forze dell’ordine e commercialisti. Infatti emerge che a a curare i meccanismi societari e fiscali erano due commercialisti, uno di Reggio Calabria (Salvatore Virzì) e uno di Massa Lombarda, Ettore Negrini, anche presidente della squadra di basket lo-cale di cui una delle società di Femia era sponsor e nella quale collaborava (co-me allenatore delle giovanili) un finanziere in servizio alla Tenenza di Lugo, Giuseppe Lo Monaco. Proprio colui che è considerato dagli investigatori co-me la preziosa fonte che li avrebbe co-messi in guardia in caso di accertaco-menti

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scali. L’altra fonte in divisa, utile alla causa di Femia, era invece in servizio alla Squadra Mobile di Reggio Calabria dove lavorava l’ispettore Rosario Romeo, colui che, stando all’accusa, avrebbe ricevuto vaglia da 700 fino a 3mila euro per ogni informazione carpita dai computer del Ministero.

Il modus operandi dell’attività di Femia per la produzione e distribuzione di schede informatiche per le ”slot machine” affiancava al noleggio e vendita di schede normali, la commercializzazione di schede contraffatte (ne sono sta-te sequestrasta-te 1500). Si tratta di schede il cui software contiene un program-ma inforprogram-matico (diverso da quello esibito all’amministrazione Finanziaria in sede di omologazione) già predisposto affinché, durante l’utilizzo, avvenga una trasmissione solo parziale all’Amministrazione Finanziaria dei dati del vo-lume di gioco, cosi da occultare una parte rilevante dei guadagni realizzati dai gestori delle sale. Costoro pagano ovviamente ciascuna scheda modificata ad un prezzo notevolmente superiore a quello ordinario, garantendo così al gruppo criminale un’altra rilevante fonte di guadagni illeciti.

Durante le indagini vengono a rilevarsi numerosi rapporti di Femia con altre organizzazione criminali a dimostrazione del fatto che la gestione e gli accordi sul territorio fossero senza spargimenti di sangue e che l’organizzazio-ne fosse trasversale a più organizzazioni: oltre i casalesi e ad altri espol’organizzazio-nenti del-la cosca reggina Mazzaferro (cui era affiliato da giovane), del-la cosche di Siderno (comune della locride sciolto per mafia nel marzo 2013); il clan Alvaro di Sinopoli (gestore delle attività del porto di Gioia Tauro e dei lavori sulla Salerno-Reggio Calabria); in Lombardia come già detto noti sono i rapporti con i Valle-Lampada, originari di Reggio Calabria ed espressione del clan Condello.

Il 25 ottobre 2013 si chiude l’operazione ”Black Monkey” con l’invio da par-te della Dda di Bologna di 34 avvisi di fine indagine (24 delle quali con l’ipo-tesi di associazione per delinquere dii stampo mafioso); agli inizi di dicem-bre, per lo stesso numero di indagati e con gli stessi capi di imputazione, il pm della Dda Francesco Caleca chiede il rinvio a giudizio. Il Gup Andrea Scarpa, dopo quattro udienze preliminari a porte chiuse, conclusesi ieri 21 gennaio, ha emesso la sua sentenza: 23 rinviati a giudizio. Per 13 di questi è stata accolta la contestazione del reato di associazione mafiosa; per altri, imputati a vario titolo, è stata mantenuta l’aggravante del metodo mafioso.

Il 23 marzo degli imputati che avevano richiesto e ottenuto il rito

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viato, due sono stati assolti; agli altri il Gup ha comminato condanne da un anno e sei mesi a sette anni e sei mesi, riconoscendo l’associazione a delin-quere semplice e non quella, come richiesto dal Pm, di stampo mafioso.

Mentre per tutti gli altri imputati il processo sta continuando nelle aule dei tribunali con Nicola ”Rocco” Femia sempre ad attaccare Giovanni Tizian, il giornalista che aveva scoperto e raccontato le vicende del presunto boss e che per quelle sue inchieste è finito sotto scorta. ”No, c’è un giornalista che rompe le balle a una persona che mi sta aiutando (...) sto giornalista se ci ar-riviamo o la smette o gli sparo in bocca e è finita lì.” A parlare era Guido Torello, faccendiere piemontese di Femia, in una telefonata del dicembre 2011 con lo stesso Femia, acquisita in un’intercettazione agli atti d’indagine.

Mentre procedono i dibattimenti alcuni degli indagati sono stati scarcera-ti e hanno ripreso la loro atscarcera-tività di sempre. Guendalina Femia, la figlia di don Rocco scarcerata dal tribunale del Riesame perché madre di un bambino pic-colo ha dato vita all’ennesima società di famiglia, la ”Starvegas” con sede a Conselice proprio nella villa in cui è agli arresti domiciliari. Si tratta di un’im-presa individuale nel settore del gioco con data di apertura il 6 settembre 2013. Praticamente, da indagata, ha ripreso l’attività legale del padre, noleg-giando e vendendo video slot. Un cortocircuito del nostro sistema legislativo.

Ma il processo Black Monkey non è il primo processo e nemmeno la pri-ma indagine nel settore dell’azzardo in Regione. Almeno dal 1994 compare sulla scena romagnola un altro personaggio attivo nel controllo del gioco d’azzardo a Rimini: Gabriele Guerra, questa volta un romagnolo, era in rapporti con Luigi Di Modica e proprio in quell’anno fu arrestato e finì in carcere per la prima volta. Luigi Di Modica che fu, tra l’altro, nominato da Giuseppe Madonia a capo della famiglia mafiosa di Niscemi ma che fu lega-to anche ad Angelo Epaminonda, concluse la sua latitanza a Rimini dove venne arrestato nel 1993 in possesso di un vero arsenale di armi.

Guerra, ottenuta la semilibertà nel 2001, venne coinvolto nel progetto di apri-re una nuova bisca a Pinaapri-rella di Cervia, che avapri-rebbe dovuto esseapri-re fapri-requenta- frequenta-ta da gente bene. Il circolo venne inaugurato alla fine del maggio 2003, senza però che avesse avuto inizio il gioco d’azzardo. Lo stesso Guerra si era posto di risolvere i problemi con chiunque si fosse fatto avanti con delle pretese circa il funzionamento del circolo e, secondo quanto riferito da un testimone, il

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se pretendeva di ricevere il 50% degli introiti per la sua protezione al locale.

Ma sul circolo si erano già concentrate le attenzioni dei clan calabresi che da qualche anno controllavano il ”business” nella zona attraverso intimidazioni e minacce ai gestori, e tramite il pagamento del ”pizzo” (fino al 40% degli incassi).

E i calabresi gliel’hanno fatta pagare, crivellandolo di colpi, il 14 luglio del 2003, a Cervia. Dalle indagini su quest’omicidio si è ricostruita la trama di rapporti che dall’inizio del nuovo millennio gestiva le bische clandestine nei nostri territori. Il 12 luglio 2005 il primo importante risultato di questa inda-gine: quindici ordinanze di custodia cautelare, tredici in carcere e due ai do-miciliari, più di venti perquisizioni e il sequestro preventivo di tre bische clandestine mascherate da circoli. I sigilli furono messi al ”circolo Del Mare”

di Riccione, al Fotoamatori di Rimini e al ”Giochi divertenti” di Bologna.

Queste bische erano direttamente gestite dai membri dell’organizzazione. Il crotonese Francesco Mellino era già in carcere, per reati legati al traffico di stupefacenti (ricordate l’operazione Anje citata nelle vicende legate a

”Rocco” Femia?), dal novembre del 2003. Era lui, secondo gli investigatori (Direzione distrettuale antimafia, Squadra mobile di Ravenna, Sco della po-lizia di Bologna, Reparto operativo dei Carabinieri di Ravenna) l’esecutore materiale dell’assassinio di Guerra.

Una parte del denaro raccolto in Romagna da questa organizzazione crimi-nale veniva inviato in Calabria ai vertici dell’organizzazione. Vertici che, all’occorrenza, inviavano propri emissari in Romagna per controllare l’attivi-tà. Dalle intercettazioni telefoniche ambientali si è potuto dimostrare come nelle province di Ravenna, Forli, Rimini e Bologna l’organizzazione riuscisse a imporre la propria egemonia compiendo estorsioni e intimidendo chiun-que osteggiasse in vario modo il loro operato. A conferma delle indagini è poi arrivata anche la confessione del collaboratore di giustizia Buonaventura:

”So che l’omicidio di Ravenna è scaturito per conflitti nella gestione delle bische clandestine. I mandanti furono Masellis Saverio e Lentini Giovanni e l’esecutore fu Mellino Francesco che utilizzò una 7.65 modello Skorpion”.

Alla fine saranno tre gli ergastoli comminati dalla Corte d’Assise di Ravenna: a Saverio Masellis, il ”re delle bische”, in qualità di mandante, al suo braccio destro Giovanni Lentini, e al killer Francesco Mellino. La decisio-ne dei giudici, vergata decisio-nero su bianco, non lascia spazio ad altre

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