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Alle soglie di un inconsapevole (?) ritorno al passato ( ovvero: al miglior servizio del dominio dell’economia e contro la rappresentanza e l’emancipazione dei ceti subalterni)

1. Il “rendimento” della forma di governo parlamentare entro il “rendimento” della Costituzione vigente: i parametri rilevanti

2. Le ragioni delle riforme “difficili”

3. Sistema politico e dimensione multilivello

4. Ritorno al punto di partenza: alla ricerca della “stabilità”

5. Stabilità e “fiducia”: i molti modi di funzionare e le ambiguità dei modelli neoparlamentari

6. Assonanze (molte) e dissonanze (poche) con una storia nota: forme neoparlamentari e forme di governo precostituzionali

7. La posta in gioco

8. Il concetto di costituzione e la sua rilevanza per la forma di governo 9. Dove si annida il rischio di involuzione autoritaria

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1. Il “rendimento” della forma di governo parlamentare entro il “rendimento” della Costituzione vigente: i parametri rilevanti

Il percorso analitico-sistematico compiuto consente si focalizzare le precondizioni richieste per una consapevole azione di riforma dell’assetto costituzionale, agevolmente identificabili e nella chiarezza ed organicità degli obiettivi che si intendono perseguire; e nel peso del contesto storico (culturale e sociale) in cui le forze riformatrici sono destinate ad operare.

A monte di queste determinanti, vi deve essere l’esplicitazione delle ragioni che inducono a ritenere non procrastinabili interventi di riforma e occorre allora il rinvio almeno a tre dimensioni: in primo luogo, vi deve essere una valutazione sul rendimento storico della Costituzione vigente; in secondo luogo, occorre esplicitare a quale analisi di contesto si faccia riferimento per evidenziare i limiti del suddetto rendimento; in terzo luogo, occorre dare il dovuto rilievo al processo di integrazione europea.

Sul primo versante, si è accennato nel corso del lavoro come un giudizio sul rendimento complessivo della Carta sia suscettibile di essere valutato secondo due visioni contrapposte, per la prima delle quali la Costituzione “non avrebbe mai guidato né effettivamente orientato lo sviluppo della società e del sistema politico italiano. Il modello sarebbe stato cioè continuamente tradito dalla prassi, con la sovrapposizione di uno <<stato dei partiti>> allo <<stato costituzionale>> e di una <<democrazia bloccata>> ad una <<democrazia compiuta>> tracciata nel modello costituzionale. … la causa fondamentale dell’insuccesso del modello andrebbe, dunque, ricercata nel prevalere dei fattori della disomogeneità su quelli della democrazia, cioè nel prolungarsi di quella <<conventio ad escludendum>> che aveva proiettato nel funzionamento dei congegni costituzionali connessi al governo parlamentare le stigmate originarie della disomogeneità politica. Dal carattere <<bloccato>> della democrazia sarebbero poi derivate, secondo questa tesi, quelle patologie – come l’occupazione del potere, il consociativismo, la corruzione – che avrebbero gradualmente condotto alla decomposizione del sistema dei partiti e alla crisi degli anni ’90”. A questa visione pessimistica, se ne potrebbe opporre una ottimistica, per la quale “questa Costituzione … avrebbe invece realizzato progressivamente i suoi obiettivi storici, perché avrebbe consentito la convivenza ed il dialogo tra forze radicalmente contrapposte e favorito lo sviluppo di una prassi delle libertà, radicando gradualmente nella coscienza collettiva i valori costituzionali. La Costituzione avrebbe, cioè, storicamente operato nel senso voluto dai costituenti, come strumento di aggregazione e veicolo in grado di consentire l’evoluzione del sistema verso l’omogeneità”257

. Ciò che manca in questa sintesi è la centralità – obliterata – della questione sociale, nelle condizioni in cui essa si pone all’indomani del secondo dopoguerra, per far premio della dimensione prevalentemente politica dei rapporti di forza, non adeguatamente riferiti alla dinamica dei rapporti sociali ed economici. Seguendo questa impostazione diviene visibile solo in parte l’ampiezza dello scontro avviato sul crinale della attuazione/inattuazione costituzionale, come

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criterio (condivisibile) dirimente per la identificazione di fasi distinte della vita repubblicana, da leggersi alla luce della oggettiva attivazione di forze conservatrici contrastate dalle forze della trasformazione sociale.

Sul secondo dei versanti proposti, l’idea è che l’obiettivo costituzionale di preservare l’assetto democratico in presenza di contrasti ideologici irriducibili sia sostanzialmente stato conseguito, producendo un contesto politico fondamentalmente omogeneo anche per il venir meno (dopo l’89) delle basi del contrasto ideologico a livello planetario. Venuta meno la pregiudiziale ideologica, non sono più rilevabili ragioni radicali di disomogeneità sul piano delle dinamiche politiche, in ragione delle quali si è optato per un assetto proporzionale della rappresentanza, anche a scapito di stabilità e governabilità del sistema ed è questa la ragione per la quale alla piena valorizzazione della rappresentanza politica conseguita su base proporzionale è stato sostanzialmente agevole sostituire il principio maggioritario, mediante l’uninominale prima e il premio di maggioranza poi. Ma, ancora una volta, la valutazione di omogeneità non si estende dalla dimensione politica a quella economica e sociale, la sola dove è necessario misurare il rendimento atteso della costituzione, per verificare se la generalizzazione dei modelli di consumo possa realmente assumersi come indice di omogeneità più avanzata, in luogo della qualità dei rapporti sociali fondati sui medesimi rapporti di produzione, dal punto di vista del principio dell’eguaglianza sostanziale nella prospettiva della emancipazione economica sociale e quindi politica dei ceti subalterni, perché esclusi dalle decisioni economiche, sia a livello di singola impresa, sia a livello di poteri pubblici

Sul terzo dei versanti richiamati, va, infine, verificato il modo in cui un processo di integrazione continentale imponga un percorso di aggiustamento economico qualificato come obiettivo di integrazione, degradando il percorso di aggiustamento al rango di variabile dipendente della moneta unica, per realizzare un canale che dal rango europeo consenta al deficit democratico di quel livello di governo di transitare alla dimensione interna, per ottenerne l’allineamento ai canoni delle democrazie politiche occidentali di impianto liberale. Rilevare a suo tempo il deficit democratico delle istituzioni europee è servito ad offrire il destro ad argomentazioni tutte sbilanciate alla ricerca di soluzioni di democratizzazione di esse, ma non ha consentito di sottolineare adeguatamente come quel parametro di forma di governo rifluisca in realtà entro il circuito nazionale ed operi sotto l’egida del principio di prevalenza dell’ordinamento europeo derivato in relazione a quello originario nazionale.

Con una inversione metodologica che esprime tutta la carica ideologica di costruzioni giuridiche organizzate intorno all’idea di processo costituente europeo e di costituzione (economica) europea, si sono sostanzialmente poste le basi per il “rifacimento” della costituzione italiana, secondo i lineamenti offerti del neocostituzionalismo, per precipitare in una delle varianti neoparlamentari della forma di governo ed ottenere, come ultimo passaggio logico e storico ma come obiettivo finale sin dall’inizio, la disarticolazione della forma di stato di democrazia sociale, originalmente fissato nel cuore dell’Europa.

Un governo debole è il riflesso dell’impostazione garantista, espressa in forma proporzionale, in presenza di conflitto ideologico, con ciò che ne consegue in termini di una forte frammentazione nella rappresentanza. Venuto meno il fondamento ideologico del contrasto, il grado di omogeneità politica si alza e consente di riflettere sulle condizioni per il superamento della originaria debolezza del governo, verso l’acquisizione di condizioni istituzionali più favorevoli alla stabilità e alla efficienza delle decisioni. Con questa lettura (cheli, 122) tutta sbilanciata sul piano politicistico, si può affermare che proprio il rendimento netto positivo della Carta ne consente il superamento in quei punti più esposti al conflitto ideologico e agli effetti della disomogeneità, mentre, misurando i rapporti reali tra forze sociali ed economiche si può rilevare la sostanziale incompiutezza del percorso emancipatorio e, per questo ordine di ragioni, l’inesistenza della base sociale della

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affermata omogeneità, che è puramente e semplicemente “politica”. Le soluzioni che a livello politico appaiono perciò possibili, non sembrano coerenti con la base dei rapporti sottostanti, proprio perché nel frattempo – mediante la ridefinizione delle regole della rappresentanza – si adottano tecniche più o meno lontane dal proporzionale con risvolti maggioritari più o meno incisivi, ma tutti accomunati dall’aver disarticolato l’assetto degli interessi sociali dalla loro rappresentanza, per generare una rappresentanza eterogenea in ciascun contenitore forma-partito, nella versione leggera che da quel momento in poi sembra affermarsi.

Se da un lato, dunque, sembra non ricevibile che le esigenze di riforma emergano da una insufficienza degli assetti originariamente presenti nella Carta del ’47, vanno rilevati tutti i limiti di argomentazioni che fanno seguire la necessità di revisioni costituzionali proprio al successo e al rendimento positivo della Carta stessa. È questo un parametro condivisibile, a condizione che il suo contenuto non sia quello derivabile del mero livello dei rapporti politici, ma si estenda – ed anzi, inizi – dai rapporti reali nella società in relazione alla dislocazione del potere sociale.

Ancora una volta, dunque, quella paranza argomentativa non enuclea l’asse analitico rilevante, che si colloca al livello delle esigenze di omologazione che lo spazio economico europeo, sotto le mentite spoglie di una integrazione politica appena accennata in via di principio, impone agli assetti istituzionali di tutte le componenti nazionali, tra le quali le più problematiche sono quelle i cui ordinamenti contengono principi di democrazia sociale, per la pretesa di estendere la sovranità popolare alla determinazione delle decisioni economiche.

Per questo appare riduttivo assegnare alla crisi del sistema politico degli anni novanta la causa della domanda di riforme, poiché collocandosi sul piano dei “comportamenti” radicatisi nel sistema dei partiti, in conseguenza del venir meno della forma-partito come chiave della partecipazione sociale organizzata, in presenza pertanto di un assiduo controllo della base sull’operato della dirigenza e nella determinazione delle linee politiche complessive, non si coglie la dimensione reale dei processi in atto, etichettati sotto l’egida della crisi della morale pubblica.

Se non si chiarisce questo passaggio, l’intero percorso riformatore degli ultimi trent’anni e segnatamente le proposte più recentemente elaborate rischiano di apparire avulse dal contesto di una crisi economica e finanziaria sistemica, mentre ne rappresentano il tratto qualificante.

In altri termini, proprio la pressione del rango europeo per riforme strutturali e costituzionali segna esplicitamente il percorso imposto ad una dirigenza istituzionale e politica nazionale che può unitariamente ed indistinguibilmente essere misurata nella sua capacità di rispondere con aderenza alle linee ricevute e che può al tempo stesso alternarsi al comando degli apparati di governo data la sostanziale irrilevanza delle differenze degli orizzonti valoriali e, più prosaicamente, delle tattiche contabili messe inopinatamente in campo.

2. Le ragioni delle riforme “difficili”

Ma se le condizioni sono quelle ricostruite, per quale ragione le riforme, auspicate trasversalmente da tutti gli schieramenti politici, non si compiono? Se vi sono condizioni di omogeneità politica, comunque conseguite sulla scia della disarticolazione della rappresentanza a base proporzionale, con una frammentazione e ricomposizione degli interessi in chiave neocorporativa che parrebbe preludere a condizioni favorevoli per una revisione costituzionale, perché questa non trova sbocco?

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Non giova in tal senso il vetusto ricorso al paradosso riformatori-riformati, che spiega troppo sul piano sociologico di quanto lascia irrisolto sul piano dell’etica pubblica e, comunque, non centra il tema della qualità degli interessi in campo, tra quelli rappresentati con le varianti maggioritarie. Si sconta, peraltro, l’eterogeneità neocorporativa nella composizione degli attuali contenitori-partito, suscettibile di produrre fenomeni di frammentazione parlamentare secondo lo schema ben noto del trasformismo ottocentesco, cui appare utile rifarsi sul piano del rapporto tra rappresentanza e definizione dei ruoli parlamentari, anche per spiegare come mai non funzioni alcuno dei meccanismi di stabilizzazione frattanto messi in campo.

Ancor più paradossale appare poi il derivare dalla instabilità a base maggioritaria l’esigenza di una più netta definizione maggioritaria della rappresentanza, senza che alcuno ponga in evidenza come le radici della instabilità di qualsiasi maggioranza di governo non si annidi nel residuo di proporzionalismo ancora esistente, bensì nella eterogeneità che proprio i meccanismi maggioritari inducono nelle istituzioni per due ragioni concorrenti: perché in un contesto maggioritario, le estreme sfumano programmi e candidati, orientandosi a intercettare la “pancia” della distribuzione di voto; e perché in un assetto uninominale o maggioritario a liste bloccate, prevale il personalismo del vertice politico su qualsiasi contenuto di programma.

La risposta ai quesiti va ricercata, diversamente, proprio nella crisi di legittimazione della sfera politica che opera sul piano della rappresentanza a causa dell’abbandono della proporzionale, capace di riflettere aderentemente la pluralità di tutti gli interessi presenti nella società. In tal senso, proprio in una fase di scomposizione e ricomposizione degli interessi in relazione a processi di riorganizzazione del tessuto economico, renderebbe esplicita la filiera della rappresentanza in ordine alla assunzione di responsabilità di governo.

Su questo piano analitico, la cesura dei referendum elettorali degli anni 91-93, che introducono un sistema maggioritario negli esiti, apre all’impiego di nove categorizzazioni politiche nella analisi istituzionali, per il passaggio dall’arco costituzionale nel quale opera la conventio ad escludendum, ad un assetto tendenzialmente bipolare destinato a funzionare (nelle intenzioni di larga parte dei promotori della semplificazione della rappresentanza) secondo lo schema dell’alternanza.

Per effetto della “diretta legittimazione politica” del candidato premier, surrettiziamente introdotta con le nuove norme elettorali, “I governi così legittimati hanno avuto l’ambizione di costituire, come nei sistemi parlamentari di gabinetto, quel comitato direttivo della maggioranza cui prima accennavo, ma non sempre sono state presenti le condizioni politiche e gli strumenti normativi necessari”258. I poteri e la posizione del PCdM sono formalmente rimasti quelli del 1948, in condizioni per le quali “il sistema non è più a tendenza assembleare, ma non può ancora dirsi un governo parlamentare di gabinetto”259. Per andare in questa direzione, basterebbe modificare i regolamenti parlamentari.

Questo filone analitico propone aggiornamenti costituzionali nella convinzione che i principi costitutivi della “omogeneità politica” di matrice anglosassone siano penetrati a fondo nella società italiana e perciò sia venuta meno larga parte delle ragioni di diffidenza e non-legittimazione reciproca tra schieramenti politici alternativi, essendo peraltro mutato il contesto internazionale per il venir meno delle distinzioni ideologicamente radicate.

Si ritiene, cioè, che una svolta autoritaria non sia possibile e che vi siano le condizioni per rendere più efficiente una democrazia decidente.

Il problema di queste analisi e delle proposte che sono ad esse connesse è che non appare appagante l’analisi delle condizioni di fondo che asseriscono l’omogeneità delle condizioni della struttura politica, estendendone le implicazioni agli assetti sociali e politici, con una operazione intellettuale

258 BARBERA, Dattiloscritto, cit., p. 21 259

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che assume come risolte questioni strutturali degli assetti sociali, col risultato di conseguire dall’alto l’esito di una normalizzazione politica capace di estendere i propri effetti stabilizzanti alla dimensione sociale.

Se, diversamente, nel quadro di un approccio sistemico, con un punto di vista rovesciato che parte dalla perdurante disomogeneità sociale, nonostante gli inequivocabili mutamenti culturali, anche desumibili dai modelli prevalenti di consumo standardizzato, si comprende meglio l’impronta neocorporativa cui – oggettivamente – tutte le soluzioni di riforma convergentemente alludono e che non paiono adeguate a risolvere progressivamente la strutturale questione sociale della emancipazione delle classi subalterne.

In sostanza, quel che si propone è che la difficoltà di realizzare una riforma condivisa sta nella crisi di legittimazione della rappresentanza e non in un difetto di stabilità delle decisioni. E ciò, in quanto appare rovesciata l’analisi del rapporto causale tra condizioni dell’assetto politico e condizioni degli assetti economici e sociali, secondo una visione che trasferisce sui rapporti sociali una pretesa omogeneità politica, mentre all’opposto si dovrebbe proiettare negli assetti istituzionali una profonda e persistente disomogeneità sociale.

Da questo punto di vista, pertanto, insistere su forme di razionalizzazione tutte facenti perno e sulla semplificazione del sistema politico e sul rafforzamento dell’esecutivo, ponendo peraltro il primo a condizione-presupposto del secondo, mediante una connessione tanto “artificiale” quanto politico- ideologica, vincola alla riproposizione della ricerca delle ragioni per le quali ad una crisi di sistema si cerca la risposta in riforme costituzionali e tuttavia queste non si concretizzano, si da indurre al dubbio secondo il quale il quesito appaia, in realtà, mal posto e richieda di essere riformulato in termini differenti: non si può affidare alla sola dimensione politica la soluzione di una crisi che è sociale, donde la necessità di ricostruire le connessioni tra sfera politica e sociale che le scelte maggioritarie hanno reciso, per riattivare un circuito di rappresentanza aderente alle attuali dinamiche sociali, nella prospettiva di riattivare la partecipazione organizzata alle decisioni.

Si può dunque convenire con quanti sostengono la necessità di una riforma elettorale di rilevanza costituzionale come premessa a condizioni favorevoli per una ipotesi di riforma, ma non si può accondiscendere alla prevalente opinione imperniata sulla necessità che detta “prima” riforma debba mirare alla (ulteriore) “riduzione” della rappresentanza, per arginare la frammentazione partitica in parlamento, per depotenziare il potere di veto di gruppi marginali, poiché seguendo questa linea per portarla alle estreme conseguenze si giungerebbe a perorare la causa del bipartitismo in luogo del bipolarismo e, in ultima analisi, del partito unico in luogo del bipartitismo, come peraltro già prefigurato dalle dottrine politiche, che propugnano sistemi in cui agiscano partiti “a vocazione maggioritaria”, che, nel caso di sistemi bipartitici, siano suscettibili di configurarsi come concrete articolazioni distinte ma reciprocamente coessenziali di un unico partito, prodotto da una rappresentanza parziale degli interessi sociali ed economici rilevanti.

3. Sistema politico e dimensione multilivello

Va dato il dovuto rilievo alla osservazione secondo cui, dati gli attuali assetti multilivello, che vedono allocati in sede UE alcuni dei contenuti delle scelte relative ai singoli sistemi, qualunque compagine governativa trova dei vincoli.

Questo assetto multilivello riduce alla marginalità le scelte allocative interne residue e sposta tutta l’attenzione politico-ideologica sulla opzione dentro o fuori UE. In parallelo, poiché il centro decisionale è la UE, chi decide a quel livello è il consesso dei capi degli esecutivi, ciascuno in funzione della propria legittimazione definita della specifica forma di governo.

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Nel caso italiano, la forza formale del Presidente opera dal livello UE verso il livello nazionale in misura inversamente proporzionale alla sua forza sostanziale, quando questa è piccola; quando la forza sostanziale nazionale è più solida, la probabilità che essa sia incisiva a livello UE dipende da “coalizioni” tra esecutivi su temi definiti. E la forza politica dell’esecutivo dipende dalla natura della coalizione che lo sostiene: maggiore è l’omogeneità e maggiore la quantità di consenso che lo supporta, maggiore la forza; se invece, alla quantità non si associa la qualità omogenea, il governo è debole.

Per altro verso, un governo “debole” è più remissivo verso UE, ma anche più inaffidabile sotto il profilo della instabilità e della natura delle decisioni; e più è debole, più la sua legittimazione trova in UE una fonte diversa da quella politica nazionale, che deve poi snodarsi in decisioni organiche. Dal punto di vista della coerenza delle scelte nazionali alle linee UE, il “meglio” è avere un governo politicamente debole ma sostanzialmente stabile: come condizione ideale per far passare il dominio UE nei contenuti delle scelte nazionali, sino al limite della rottura dei vincoli UE. Questo limite quantitativo alle politiche possibili garantisce in ogni momento l’irrilevanza degli orientamenti specifici dei singoli governi.

Dal punto di vista UE ciò che conta è che i conti siano nei parametri: poi se il singolo stato adotta politiche organiche all’assetto delle produttività relative, il suo percorso di aggiustamento sarà più rapido e anche più doloroso socialmente; all’opposto, sarà più lento, meno doloroso, ma con minori probabilità di successo.

In relazione a questo quadro di riferimento, l’assetto costituzionale e la prassi mostrano un presidente i cui poteri decisionali sono proporzionati alle funzioni.

Le istanze di rafforzamento del governo sono state sempre presenti e in quanto ciò è vero, esse furono contrastate in assemblea costituente e nella stessa prospettiva vengono oggi riproposte, al prezzo e con l’obiettivo di far saltare l’intera costituzione democratico sociale, per uniformarla ad