Paul Morand, NLENT'ALTRO CHE LA TERRA. VIAGGIO INTORNO AL MONDO, ed. orig. 1926, trad. dal francese di Francesco Bruno, pp. 128, € 13,50, Corbaccio, Milano 2002
Paul Morand è il destinatario di una delie ultime lettere di Marcel Proust, nel novembre 1922: molto più giovane del-l'autore della Recherche, ne era grande
ammiratore e ne divenne amico negli ul-timi anni della sua vita. Decisamente lon-tana da quella proustiana, la prosa di questo volumetto di impressioni di viag-gio, che Morand scrisse nel 1926, è rapi-da, paratattica, costellata di frasi brevi come semplici appunti, eppure ricca di immagini suggestive, similitudini ardite, osservazioni acutissime. Viaggiatore di alta classe ed esperienza, diplomatico di professione, l'autore ci trasporta con tap-pe veloci dall'Atlantico al Pacifico, dall'o-ceano Indiano al mar Mediterraneo, so-stando più a lungo nei paesi orientali, in particolare nel Siam: "Paese isolato, in-tatto (...) terra di gioia assopita e di fede viva (...) è un aneddoto, ma il più affa-scinante, che sfugge a tante maledizioni odierne". Fatichiamo a riconoscervi l'at-tuale Thailandia, ma la magia di questo libretto è proprio quella di riconsegnarci intatti paesi che i viaggi organizzati, i vil-laggi turistici, la facilità di raggiungerli hanno spogliato del loro mistero, e forse anche del loro fascino. Ogni tappa si fa incontro al lettore vivida di colori, suoni, voci, paesaggi, persone, usanze e archi-tetture che si fondono in quadri che si imprimono nella memoria, anche grazie alla vigile attenzione dello scrittore, che di continuo collega la realtà di quei mon-di lontani con quella dell'Occidente a cui appartiene e a cui sa di dover tornare. Morand osserva a Pechino: "È bastato l'arrivo di qualche nave da guerra euro-pea (...) nel mar della Cina perché gli dei, gli imperatori, la corte, i riti, tutto si squagliasse. Potenza acida della nostra forza (...) Nessuno in gennaio, rende più conto al cielo delia gestione dell'anno precedente. E, del resto, nessuno sulla terra rende più conto di niente al Cielo".
GABRIELLA MEZZANOTTE
fluiscono poi, nel 1908, nella raccolta tra-dotta in questo volume. Viaggiatrice intre-pida e avventurosa - non dimentichiamo che la Panhard del viaggio del 1906 è an-cora una macchina scoperta - Wharton sa fissare paesaggi e monumenti in istan-tanee indimenticabili. Si veda, ad esem-pio, la descrizione della cattedrale in mattoni di Alby, che le si para davanti sotto un cielo di un azzurro accecante, "glabro mostro roseo appena uscito dal fiume per andare a crogiolarsi in cima al-l'altura". Ma ancor più affascinanti delle sue evocazioni di castelli, rovine e abba-zie, o della dimora di George Sand a Nohant, sono le osservazioni che Whar-ton dedica all'esperienza del viaggio in automobile in sé, alle sue peculiarità. "Quale altra forma di viaggio - si chie-de - avrebbe potuto portarci in tale co-munione di spirito con la Loira, se non la nostra liscia corsa lungo i suoi argini nella blanda atmosfera di maggio? Per-ché - aggiunge - dopotutto, se all'auto-mobilista sfuggono talvolta alcune vedute a causa della velocità, talaltra egli può stamparsele nella memoria in virtù di una provvidenziale foratura, o del 'magnete' che fa i capricci; e se, nelle giornate ven-tose, deve attraversare il paesaggio ripa-randosi gli occhi, nei pomeriggi dorati può suggere ogni goccia della sua es-senza preziosa".
MARIOUNA BERTINI
Edith Wharton, VIAGGIO IN FRANCIA. Di
CORSA, IN AUTOMOBILE, ed. orig. 1908, trad. dall'inglese di Giuseppe Bernardi, pp. 190, € 14, Editori Riuniti, Roma 2002
A più riprese, nel 1906 e nel 1907, Edith Wharton, accompagnata dal marito e da alcuni amici (tra i quali anche Henry James), esplora in automobile la provin-cia francese, dalla Normandia alla valle della Loira, dalla foresta di Fontainebleau all'Alvernia, dai Pirenei alla Provenza. Le sue impressioni di viaggio forniscono la materia per una serie di articoli che
con-"una scena di una grandezza e di una semplicità, nello stesso tempo, suprema", qui rappresentata con commossa parteci-pazione, come nei grandi affreschi epici. Ma più in generale è l'intera narrazione ad assumere, pur nella complessiva sobrietà stilistica, i tratti dell'epica, sia in virtù del-l'interesse di Dumas per gli usi e i costu-mi, sempre illustrati con un rispetto tinto di stupefazione, sia grazie alla descrizione dei personaggi e delle loro gesta. Del re-sto, quella dei caucasici, secondo lo scrit-tore - e certo ancor oggi - non è forse una "vita di lotta eterna"?
DANIELE ROCCA
Alexandre Dumas, LA GUERRA SANTA. VIAG-GIO TRA I RIBELLI CECENI, a cura di Antonio Coltellato, pp. 139, € 9, Rubbettino, Soneria Mannelli (Cz) 2002
Gran viaggiatore (Rubbettino ne aveva già edito il Viaggio in Calabria), uomo di
mondo, collaboratore di Garibaldi a Na-poli, Alexandre Dumas fu in Russia e nel Caucaso fra il giugno 1858 e il marzo 1859: poco prima che il leader indipen-dentista Shamii venisse definitivamente sconfitto al termine d'una rivolta trenten-nale. Come si evince da questa raccolta di passi tratti da Le Caucase (il reportage
pubblicato nel 1859), sebbene dovesse in alcune occasioni muoversi sotto scorta militare, Dumas seppe in queste pagine far luce con acutezza non solo sulle radi-ci dell'odio locale contro i russi, ma anche sull'intreccio fra il nazionalismo e i suoi eroi, i coraggiosi abreck con i loro
impavi-di capi, e sul rapporto fra queste lotte e l'i-slamismo. Com'è evidente, il titolo riferito alla "guerra santa" dei ribelli ceceni costi-tuisce una forzatura editoriale che con il contenuto del libro intrattiene rapporti piuttosto labili. L'opera merita però di es-sere letta. In particolare, tra le varie istan-tanee della guerra, ce n'è una che resta memorabile, la fucilazione del cosacco Gregor Gregorovic, definita dall'autore
Stendhal, VIAGGI IN ITALIA ILLUSTRATI DAI PITTORI DEL ROMANTICISMO, ed. orig . 1826 e 1829, trad. dal francese di Bruno Schacherl e Massimo Colesanti, 2 voli, pp. 290+418, s.i.p., Le Lettere, Firenze 2002
Esce simultaneamente in Francia (presso Diane de Selliers) e in Italia que-sta sontuosa edizione di Roma, Napoli e Firenze e delle Passeggiate romane,
ca-ratterizzata da un apparato iconografico di una ricchezza e di una qualità vera-mente inusuali. Alcune delle illustrazioni, una cinquantina, ci propongono le opere pittoriche commentate da Stendhal, co-me lo pseudo-ritratto di Beatrice Cenci dovuto a Guido Reni o le Stanze di
Raf-faello; le altre - più di trecento! - hanno invece con il testo un rapporto più indi-retto e più innovativo. Ci mostrano infatti Roma e la campagna romana, i palazzi di Firenze e di Napoli, la vita dei prelati e dei briganti, dei popolani e degli artisti, delle monache e dei militari, attraverso gli occhi di un'ampia schiera di pittori contemporanei del romanziere, celebri e meno celebri, convenuti in Italia da tutta Europa. Pittori attenti agli stessi spetta-coli che incuriosivano Stendhal, affasci-nati dagli stessi monumenti, commossi dalle stesse rovine; straordinari testimoni di un'epoca di cui queste pagine ci of-frono una ricostruzione singolarmente completa.
( M . B . )
ve narrazione di gusto sterniano, sugli amori di un esotico uccellino, il bengali,
con i calici profumati delle rose; sulle lun-ghissime capigliature delle pallide giava-nesi; sulla vita sociale delle scimmie, ca-ratterizzata dal sistema elettivo; sul più velenoso di tutti gli alberi, l'immenso
upas, circondato dagli scheletri e dai
te-schi delle sue vittime che scintillano al sole. Il direttore della "Revue de Paris", dove il testo apparve nel novembre del 1832, ritenne di dover risparmiare ai suoi lettori benpensanti e alle sue pudibonde lettrici la descrizione delle movenze feline delle giavanesi, e la tagliò: bell'omaggio indiretto alle capacità di seduzione della scrittura balzachiana, che i miraggi di un esotismo sognato rendono in queste pa-gine particolarmente scintillante e sugge-stiva. La traduzione è accurata, anche se
le petites mattresses che ungono
diligen-temente le loro fluenti capigliature a pag. 29 non sono "piccole amanti"; sono la versione femminile del "petit maitre",
dandy di raffinata eleganza.
( M. B . )
Honoré de Balzac, VIAGGIO DA PARIGI A GIAVA. TRATTATO DEGLI ECCITANTI
MODER-NI, ed. orig. 1832 e 1839, a cura di Graziella
Martina, pp. 121, €8, Ibis, Como-Pavia 2002
Per il pubblico italiano, che già dispone di diverse traduzioni del Trattato degli ec-citanti moderni, il vero motivo d'interesse
di questo grazioso volumetto è il Viaggio da Parigi a Giava, per il quale Balzac si
ispirò ai racconti di un conoscente redu-ce dalle Indie. È un Balzac in stato di gra-zia quello che si sofferma, in questa
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o G QNigel Barley, UNO SPORT POCO PERICOLOSO,
ed. orig. 1988, trad. dall'inglese di Marco Al-me, pp. 168, €9,50, Edt, Torino 2002
Poco serio, questo antropologo ingle-se: lo sport poco pericoloso è la stessa antropologia, a quanto scopre l'autore dalla lettura del contratto di assicurazio-ne stipulato in occasioassicurazio-ne dell'indagiassicurazio-ne che lo porterà per un paio di mesi a stu-diare la popolazione di Tana Toraja, nel-l'isola di Sulawesi, in Indonesia. Fin dal-l'introduzione Barley prende le distanze dalla figura dell'accademico onnisciente e distaccato dagli oggetti della sua inda-gine; più di una volta nel corso del rac-conto sbeffeggia la pretesa degli addetti ai lavori di decifrare culture lontanissime sulla base di indizi casuali e contraddit-tori: i graziosi mulini a vento di bambù sulle colline di Tana Toraja sono oggetto di interpretazioni completamente diverse da parte dei locali; quale sia quella vera non si scoprirà. Che cosa interessa vera-mente all'autore, visto che nutre ben po-che illusioni di riuscire a interpretare la realtà? Sono essenzialmente i rapporti umani a incuriosirlo, e in alcuni casi a coinvolgerlo in modo profondo. Il libro of-fre una galleria di schizzi divertenti, fra cui spiccano le due figure di maggiore spessore: il giovane Toraja, che diventa suo aiutante sul campo, e il nonno di lui, geniale scultore di granai per il riso. Nel-l'ultimo capitolo i due sono a Londra per costruire un granaio per il Museum of Mankind: questa volta è l'antropologo che guida i visitatori alla scoperta del mondo occidentale.
FRANCA CAVALLARIN
Victor Hugo, V I A G G I IN SVIZZERA, ed. orig. 1982, a cu-ra di Pierre-Olivier Walzer, tcu-rad. dal fcu-rancese di Paolo Vettore, pp. 157, s.i.p., Dado, Locamo 2002
Hugo si recò in Svizzera più volte: da villeggiante, con la giovane moglie e la figlia Léopoldine, nel 1825; da tu-rista, curioso e attento al pittoresco, nel 1839; come pre-sidente del Congresso della pace a Ginevra, nel 1869, e infine, a due riprese, nella vecchiaia, a scopo di cura e di riposo. Di tutti questi soggiorni, quello che ha lasciato più tracce nella sua opera si colloca nel settembre del 1839. Il poeta si era messo in viaggio in diligenza, via Strasburgo, alla fine di agosto, accompagnato dalla devotissima aman-te Juhetaman-te Drouet. Julietaman-te era felice di poaman-terlo sottrarre per qualche settimana alla famiglia legittima e riversava su di lui un'adorazione debordante e instancabile, ricam-biata, dopo gli ardori iniziali della loro liaison, con una
certa flemmatica sufficienza. A ogni tappa Hugo redigeva una sorta di diario di viaggio in forma di lettera alla mo-glie Adèle e ai figli; questo spiega la totale scomparsa
del-la povera Juliette daldel-la narrazione, poi destinata a trovar posto, accanto alle impressioni di successivi viaggi in
Ger-mania, nella splendida e monumentale raccolta Le Rhin,
che sarebbe uscita nel 1842.
Proprio da Le Rhin Pierre-Olivier Walzer ha tratto la
maggior parte delle pagine che formano questo volume; le ha inoltre integrate con altre pagine coeve, pubblicate sol-tanto dopo la morte di Hugo, e con qualche appunto più tardivo. Ne risulta una bella documentazione d'insieme su Hugo e la Svizzera, con il viaggio del 1839 come momen-to centrale. Proprio il resoconmomen-to di quesmomen-to viaggio è un esempio particolarmente felice di narrazione a più registri: vi incontriamo, accanto al fascino e all'abbigliamento del-le fanciuldel-le, il francese maccheronico dei menù e degli al-bergatori, la poesia delle città viste dall'alto, il fascino dei ponti coperti affrescati e delle fontane sormontate da sta-tue medioevali, la bellezza selvaggia delle montagne e la melanconia delle cattedrali intonacate di grigio e spogliate di ogni ornamento dal "cattivo gusto puritano". Tra le im-magini più suggestive, quella di Berna vista da una collina
dopo il tramonto, e dall'occhio del poeta visionario inopi-natamente trasformata in una "città cinese": "il quarto di luna poggiato esattamente di fronte, in fondo al cielo, co-me una fiaccola che desse luce a quello spettacolo, diffon-deva su tutto quell'insieme un chiarore così dolce, così pal-lido, così armonioso, così ineffabile, che non era più una città quella che vedevo, era un'ombra, il fantasma di una città, un'impossibile isola aerea ancorata in una valle ter-rena e illuminata da spiriti". In un'altra pagina molto cu-riosa le rocce scoscese del paesaggio alpino perdono la loro identità per assumere uno strano carattere marino, proprio come accadrà nei quadri di Elstir, il pittore immaginario della Recherche; "Queste montagne sono onde, ma onde
gigantesche. Ci sono i cavalloni verdi e cupi, che sono le groppe ricoperte di abeti, i marosi, che sono le pendici di granito dorate dai licheni e, sulle ondulazioni più alte, la neve si lacera e ricade a brandelli entro forre nere, come fa la spuma. Sembra di vedere un mostruoso oceano raggela-to durante una tempesta dal soffio di Geova".
4 L'INDICE
' ' • • D E I LIBRI D E L M E S E B I k s o s o s o • i orfì
o
L . CD o COSergio Porta, DANCING STREETS. SCENA PUB-BLICA URBANA E VITA SOCIALE, pp. 235,
€21,69, Unicopli, Milano 2002
L'ipotesi è interessante: alcuni testi so-litamente trascurati possono essere rilet-ti insieme per il contributo che forniscono alla ridefinizione dello spazio pubblico urbano: a partire dagli anni sessanta è dunque possibile ricostruire una storia (di chiara matrice anglosassone) su un aspetto che è stato costitutivo del farsi dell'urbanistica moderna nel XX secolo. Una storia che si può definire, sostiene Porta, di vera alternativa all'approccio eroico della tradizione modernista, ben più di quanto non si sia mostrato capace di esserlo il
formali-smo postmoderno. I suoi protagonisti sono Jane Jacobs, Raquel Remati, Jan Gehl, Oscar Newman, William Whyte, Clare Coo-per-Marcus, Allan Jacobs e Peter Bosselmann. L'in-segnamento che può trarsi da que-sta "storia altra" ri-guarda la possibi-lità di una rilettura dello spazio pub-blico al di fuori di ogni tentazione di ricerca di un ordi-ne formale o di qualcosa di
assimi-labile a una struttura interna: indagare lo spazio non serve solo a capirne costitu-zione e valori, quanto a coglierne il con-tributo nella definizione dei comporta-menti. Lo sfondo è quello del rinato or-ganicismo su base ecologico-sistemica, entro il quale divengono rilevanti le no-zioni di complessità, sensibilità (alle con-dizioni ambientali), rifiuto (dei modelli specialistici di conoscenza), equilibrio e cooperazione nell'evoluzione dei sistemi. Tutto bene, verrebbe da dire, tranne che per un punto: la società contemporanea da tempo non è più quella descritta da Jane Jacobs.
CRISTINA BIANCHETTI
derio di realizzazione e della sua riusci-ta. Che poi tutto ciò sia, se pure nella sua forma migliore, anche espressione gene-rale di speranza, appare piuttosto rifles-so dì un'utopia costantemente seguita.
(C.B.)
Kenneth Frampton e David Larkin, CAPOLA-VORI DELL'ARCHITETTURA AMERICANA. LA CASA DEL X X SECOLO, ed. orig. 2002, trad. dall'inglese di Carla Malerba, pp. 234, € 24, Rizzoli, Milano 2002
La classica residenza familiare ameri-cana ha subito pochissime variazioni nell'ultimo cinquantennio. Non è da que-sta che possa prendere avvio, a giudizio degli autori, un ragionamento sulla casa moderna. Almeno su quella che sta loro a cuore. Da qui la scelta di praticare una diversa angolazione, privilegiando pro-gettisti di "grande levatura" e opere di "complessità e profondità poetica", ricer-cando entro il confine degli Stati Uniti e quello (più labilmente praticato) del No-vecento. È chiaro che il punto cruciale di un tale progetto è la selezione: per argo-mentarla si fa riferimento a immagini e valori culturali connessi alla nozione di casa moderna. Nella breve introduzione del testo (revisione di uno studio del 1995) l'impianto cronologico e tematico dell'indice si sfalda entro una più com-plessa geografia delle tradizioni di lavo-ro che si alternano sulla costa orientale e occidentale degli Stati Uniti, ridefinendo legami plurimi, differenti permeabilità ai nuovi stili di vita o, al contrario, nuove chiusure. La rassegna non si limita alle case, alla loro capacità di rifrangere va-lori e visioni della modernità, ma si allar-ga alla comprensione dei clienti: prìncipi laici, esigenti e sofisticati. La casa mo-derna diviene affermazione del loro
desi-Mildred Friedman e Michaela Sorkin, FRANK
O. GEHRY, pp. 240, € 24, Rizzoli, Milano
2002
Gehry scrive che fare architettura è costruire qualcosa tirandolo fuori da qualcosa d'altro: tirare fuori un'idea, la sua energia, la sua forza e renderla
an-cora percepibile attraverso il pro-cesso di realizza-zione che coinvol-ge numerosi sog-getti, interessi, sa-peri, comunicazio-ni. Tirarla fuori da qualcosa d'altro, cioè da materiali che possono esse-re i più diversi, i metalli innanzitutto per la consistenza liscia e la riflessio-ne della luce: la la-miera grecata (co-me nella fattoria O'Neill), il rame piombato (Toledo Center for the Vi-sual Arts), il titanio (nel celeberrimo Guggenheim di Bilbao), ma anche la disprezzata rete metallica, l'intonaco a spruzzo grezzo e ruvido del-le autostrade. L'aspetto interessante del celebrato e criticato lavoro di Gehry se ancor più della modellazione di for-me, tesa a stupire e resa possibile dalle tecnologie informatiche, è la sorpren-dente capacità di realizzare, come ope-ra d'arte, un atteggiamento comune: "Non si è mai sicuri di quello che era in-tenzionale e di quello che non lo era", di-ce l'architetto in riferimento a Casa Gehry (1979) e alla sua capacità di sfi-dare il falso status piccolo-borghese del-la tipica casa di periferia. "Se si osserva l'edificio da vicino è difficile dire se si tratti di un rudere in stato di abbandono o di un edificio in corso di costruzione". Anche in un'architettura residenziale la densità dei luoghi retorici è molto alta. Tanto più lo è in altri progetti degli ultimi quattordici anni raccolti nel volume e commentati con note di Gehry sulle oc-casioni da cui traggono origine, sulle sue idee e quelle dei suoi clienti.
(C.B.)
Contro il riduzionismo geometrico del moderno sono giocate le linee prive di in-terruzioni (Renzokutai), le linee curve piegate a costruire oggetti permeabili che scatenando l'immaginazione: certe case dal tetto di lamiera ondulata ricor-dano terribilmente da vicino (e nel con-tempo negano nel connubio studiato con il vetro, il legno, il cemento armato) certi alloggi di fortuna friulani dell'immediato dopoguerra. Endo ricorre a materiali di fabbrica senza celebrare la civiltà indu-striale, usa i nastri di lamiera come co-perture, pareti, solai, rivestimenti a ridi-segnare spazi privi di simmetria che non alludono ad alcun punto di vista privile-giato, ma mescolano dentro e fuori, inde-boliscono delimitazioni e soglie come sempre più spesso accade di osservare nella città contemporanea.
(C.B.)
SHUHEI E N D O ARCHITETTURA
PARAMODER-NA, a cura di Hiroyuki Suzuki, pp. 216, € 38,
Electa, Milano 2002
C'è un evidente contrasto tra la legge-rezza delle forme, il senso di mancanza di peso delle lamiere ondulate a formare pensiline ferroviarie, padiglioni, studi, abitazioni e la pesantezza delle argo-mentazioni, la ridondanza terminologica messa in atto per illustrare le proprie scelte. Da un lato, l'uso immaginifico del-la del-lamiera ondudel-lata in continuità con una tradizione della quale Hiroyuki Suzuki, nell'introduzione, ricostruisce la storia: l'utilizzo di nastri continui e indifferenzia-ti a mescolare interno e esterno e ridise-gnare spazi privi di simmetria e di deli-mitazioni tra parti. Dall'altro, l'invenzione di un linguaggio: skintecture, springtec-ture, rooftecture. Endo definisce la
pro-pria architettura "paramoderna" per ren-dere esplicito come essa non rinneghi il