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CAPITOLO 2 O RIGINI DI UN APPROCCIO DIVERSIFICATO : E DUC A ZIONE

2.1 Individuazione delle problematiche generali

2.3 Ipotesi risolutiva

“Gli insegnamenti si incidono in modo definitivo nel comportamento nella misura in cui sono legati alla nostra vita profonda, ove essi rispondono ai nostri imperiosi bisogni (...) La scuola è tanto più efficiente, quanto più costruisce su quelle basi che sono la carne e il sangue, la mente e la vita delle persone.”

(Freinet, 1971)

Il 25 aprile 1945 il popolo italiano festeggia la liberazione dalla dittatura fascista e la fine della seconda guerra mondiale; il 25 aprile 2013 la scuola italiana festeggia la liberazione dal conservatorismo e la fine della lezione frontale. “Scuola, vecchie aule addio: nuove regole per costruire”, è il titolo dell’articolo di Anna Maria de Luca, (La repubblica) che inizia con le testuali parole: “ Per la prima volta dal 1975 si mette mano all’architettura interna delle scuole (...)” e che prosegue nella descrizione del futuro spazio educativo. Le scuole diventano “tessuto ambientale per l’apprendimento”, le aule eliminano banchi e cattedre e si trasformano in uno “spazio del fare”. Si aprono finalmente le porte all’innovazione, il “bel

paese”, vittima della sindrome di Dorian Gray , comincia a vedere la propria immagine allo specchio ed improvvisamente si accorge di essere vecchio. Inutili i continui ritocchi di colore, i restauri ed il lifting facciale; sotto alla maschera le ossa si consumano e la struttura portante minaccia di crollare. “Nel 2012 l’Italia tocca il record negativo del tasso di passaggio dalla scuola all’università degli ultimi 30 anni.”; “Italia all’ultimo posto nella UE per la spesa alla cultura”3, l’oracolo parla chiaro, il coro lo rammenda, l’eroe tragico deve compiere scelte propizie per salvare la patria. Dalla Grecia alla democrazia, dalla democrazia all’educazione, proprio come spiegava Dewey (1949), il quale affermava che “Si prepara la democrazia di domani con la democrazia a scuola”. Ebbene, forse le cose cominciano a cambiare.

Nel capitolo precedente abbiamo avuto modo di introdurre alcuni dei principi ed alcune delle ragioni che hanno motivato l’esigenza di riflettere sulle possibilità di cambiamento e di rinnovamento dei sistemi didattici. Nel corso della nostra ricerca abbiamo constatato che, per rendere effettiva la riforma dei metodi didattici, era necessario andare alle radici del sistema agendo, non nel dettaglio, ma nella mentalità da cui tutto il meccanismo si dirama. Il presupposto per l’innovazione metodologica era un capovolgimento della base teorica e una conseguente riconsiderazione di tutti i fattori coinvolti: obiettivi dell’educazione; ruolo dei partecipanti al processo; caratteristiche degli spazi consacrati all’atto didattico; materiali adatti ai nuovi scopi e, soprattutto, valutazione dell’apprendimento. Il ruolo del sistema di valutazione in ambito educativo è pari a quello del sistema giudiziario in ambito politico; un governo che si vuol definire democratico dipende, sì, dal rispetto delle sue leggi, ma soprattutto dalla coerenza di tali leggi con i principi su cui si fonda l’idea di democrazia. Se la giustizia non si occupa di far valere la democraticità delle leggi ed il rispetto delle stesse da parte di tutti qualsiasi parola, scritta a titolo di legge, si spoglia del suo significato. Un approccio didattico che si definisca umanistico-affettivo, nel rispetto dei tratti personali della persona, e della centralità dello studente all’interno del processo educativo, non potrà valutare tale studente sulla base di giudizi quantitativi legati al profitto ottenuto, ai benefici guadagnati e al livello raggiunto. Stando a questo meccanismo, si torna sempre al punto di partenza, si continua a ragionare in termini sconvenienti; le prospettive di modernizzazione vengono stroncate, le lamentele perpetuate, i responsabili didattici accusati, i professori minacciati dai

programmi ministeriali e coloro che tentano nuove strade finiscono per crearsi una propria scuola, di conseguenza privata, di conseguenza accessibile alla minoranza.

Le parole non sono etichette, le persone non sono membri di categorie, la cultura non è una raccolta di stereotipi e frasi fatte, l’apprendimento è un processo che fa parte della vita, educare significa aiutare a crescere. Come si può esaminare la pianta prima che nasca il fiore?

“Ora tu pensa: un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finiscono. Tu sai che sono 88, su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti, loro. Tu, sei infinito, e dentro quei tasti, infinita è la musica che puoi fare. Loro sono 88.

Tu sei infinito.

Questo a me piace. Questo lo si può vivere.

Ma se tu/ Ma se io salgo su quella scaletta, e davanti a me/

Ma se io salgo su quella scaletta e davanti a me si srotola una tastiera di milioni di tasti, milioni e miliardi/ Milioni e miliardi di tasti, che non finiscono mai

e questa è la verità, che non finiscono mai e quella tastiera è infinita/

Se quella tastiera è infinita, allora/ Su quella tastiera non c’è musica che puoi suonare. Ti sei seduto su un seggiolino sbagliato:

quello è il pianoforte su cui suona Dio.”

(Alessandro Baricco, Novecento)

2.1 Individuazione delle problematiche generali

Abbiamo individuato il contesto in cui si inserisce la nostra riflessione, abbiamo parlato dei presupposti e delle esigenze da cui partire; a questo punto è arrivato il momento di stringere il campo di osservazione e definire gli aspetti specifici della proposta di azione. Cominceremo riassumendo le problematiche generali per poi concentrare la riflessione sulle difficoltà di apprendimento.

Il punto di partenza è l’ordine di acquisizione: stando al concetto di lingua esposto ed alla teoria di apprendimento linguistico discussa, imparare una lingua straniera o seconda non si

discosta dal processo di acquisizione della lingua materna. Pertanto, l’esposizione alle regole grammaticali, alla comprensione e produzione scritta prima che orale non rispetta la sequenza della fasi naturali di apprendimento. In conformità a quanto detto, proponiamo di invertire le dinamiche, delineando un percorso che abbia come primo obiettivo la padronanza della lingua orale, la fluidità espressiva a scapito della correttezza grammaticale. In quest’ottica si predispone una prima fase di esposizione alla lingua: ci si concentrerà sull’ascolto, sull’osservazione e sulla capacità di fare affidamento agli aspetti globali della comunicazione (prosodia, intonazione, circostanze dell’atto comunicativo) allo scopo di accedere all’essenza del messaggio. L’oggetto di studio si discosta in questo modo dal modello astratto e intangibile di codice, per divenire materiale concreto e accessibile a tutti; l’abilità richiesta allo studente non si limita alla lingua ma si apre a tutti gli elementi coinvolti nella comunicazione (gestualità, sonorità, intenzione espressiva) andando a promuovere l’idea di repertorio linguistico, compresa nella definizione di plurilinguismo.

Liberandosi dai limiti imposti dall’artificialità del modello, si riscopre la semplicità della natura, alle cui leggi universali partecipa la vita dell’uomo. Chiamiamo in causa Rousseau (1781) il quale, nel “Saggio sulle origini delle lingue”, fa appello al regno della legge naturale come modello e potere funzionante in cui ogni forza si equilibra spontaneamente con le altre. Chiamiamo in causa Freinet (1971) il quale, nell’applicazione del “Metodo naturale”, osserva i bambini imparare a leggere leggendo, a scrivere scrivendo proprio come imparano a camminare camminando. Di fronte a questi esempi di rispetto assoluto per i processi spontanei di acquisizione, sentiamo la necessità di afferraci alle circostanze reali ed al contesto in cui vorremo agire: la res pubblica, l’istruzione pubblica. In questa dimensione, l’ideale diviene sinonimo di utopico e il sognatore è costretto a rimettere i piedi per terra; le esigenze, le possibilità, le condizioni non sono neutre, il campo d’azione non è libero, l’itinerario di viaggio si deve adeguare ai mezzi di trasporto disponibili. Il volo è ancora troppo rischioso,si viaggia in treno su vagoni di seconda classe, in un sistema di linee che collega tutto il paese. La natura è ,sì, un ordine da rispettare ma questo non significa che non si possa intervenire badando al terreno che si desidera coltivare. “La natura offre i germi che l’educazione deve sviluppare e perfezionare”, sosteneva Kant riaffermando lo scopo dell’istruzione. Ciò che le strutture e gli organi offrono in termini di condizioni, l’educazione ha il compito di trasformarli in fini, in obiettivi di sviluppo.

Arriviamo dunque al secondo punto della questione generale: l’orientamento educativo. Nel volume dedicato alla funzione veicolare della lingua straniera in ambito didattico, Coonan (2009) sintetizza la storia dello sviluppo dei metodi e degli approcci per l’insegnamento delle lingue straniere in un quadro molto chiaro che vede due orientamenti principali: l’orientamento sul prodotto e l’orientamento sul processo. La differenza è sostanziale così come le conseguenze metodologiche. Si passa dall’insegnamento, all’apprendimento della lingua; da un ruolo passivo, ad un ruolo attivo dello studente; da un processo deduttivo, ad un processo induttivo delle regole grammaticali; da un uso meccanico e fittizio, ad un uso contestualizzato della lingua legato a scopi comunicativi reali infine da una valutazione legata all’oggetto dell’insegnamento, ad una valutazione legata all’esperienza di apprendimento che privilegia i bisogni di chi apprende e si applica nella formazione di strategie di azione piuttosto che nel completamento dei programmi ministeriali. Su questo secondo modello tracciamo le linee guida del nostro approccio, convinti dell’esigenza di formare persone dotate di spirito critico, capaci di scegliere e di proseguire autonomamente la propria carriera. Persone dotate di un metodo di lavoro, partecipi e interessate nei confronti di un percorso che si adatta all’infinita varietà di individui pur perseguendo un obiettivo di gruppo. Un compromesso tra lo sviluppo libero della personalità e la subordinazione alle esigenze della comunità di cui ognuno è parte indispensabile. La libertà dell’io finisce dove comincia la libertà dell’altro, compito dell’educazione è quello di guidare lo sviluppo individuale all’interno di uno spazio condiviso.

Introduciamo quindi il terzo punto della discussione: l’integrazione. Quando parliamo di integrazione intendiamo ribadire che l’insegnamento della lingua è inscindibile dalla trasmissione di un attitudine morale ed etica di tolleranza, apertura e disponibilità di confronto verso l’altro. La prima esigenza non è quella di esprimersi, ma quella di capire, l’atteggiamento deve corrispondere a quello di un esploratore che si mette in discussione, piuttosto che di un colonizzatore che vuole imporre il suo modello culturale. Brook (1987) descriveva il rapporto con l’alterità come una danza in cui bisogna lasciarsi condurre per non andare fuori tempo: “The only way to get close to any people different from your own is to

enter into their rhythm ». Lingua e cultura non rappresentano l’unica coppia inseparabile della

sensibile e mente razionale, ambiente sociale e ambiente scolastico, obiettivi personali ed obiettivi comuni.

Prima di tutto percezione fisica e attività intellettiva non sono attività separate; trascurare il valore dell’intelligenza corporea significa ostacolare l’apprendimento. Qualsiasi impulso rimosso si trasforma in una scarica turbolenta priva di significato, che si scatena in reazioni non controllate. “Stai fermo. Non dondolarti sulla sedia. Non giocare con l’astuccio. Lascia stare il tuo compagno. Non battere con la matita sul tavolo”; l’attenzione si perde in tante piccole azioni inutili, l’adolescente perde la naturale carica di energia che lo alimenta sino ad arrivare ad una passività purtroppo comune, per quanto insolita, caratterizzata dal “non ne ho voglia”. Coinvolgere gli aspetti sensoriali, il movimento e l’uso degli organi di percezione e stimolazione motorea significa convogliare tale energia a vantaggio dell’esperienza istruttiva. Avremo modo di affrontare questo argomento in più occasioni, per ora ci limitiamo ad accennarlo e passiamo alla seconda frontiera da abbattere, quella che separa la vita dalla scuola, gli interessi reali e gli obiettivi didattici.

Gli scopi educativi devono essere fondati su attività e bisogni intrinseci della persona, lo studente che persegue uno scopo agisce con un significato e non come una macchina. “Platone ha definito lo schiavo come uno che accetta da un altro gli scopi che determinano la

sua condotta. Questa condizione si ha anche là dove non esistono giuridicamente schiavi. La si trova dovunque gli uomini sono occupati in attività che sono, sì, socialmente utili, ma di cui essi non capiscono l’utilità e per cui non provano interesse personale.”. Con tali parole

Dewey (1949) paragona l’attività disinteressata dello studente alla catena di montaggio in cui l’operaio che lavora sulla parte ignora l’entità del tutto e termina considerando l’isolamento come causa di rigidità ed istituzionalizzazione. La scuola che si separa dalla vita, dalla comunità, dalle famiglie e dalla quotidianità dello studente contrasta i principi di apprendimento che sosteniamo e che la glottodidattica difende da ormai 50 anni.

Parlare di educazione in contesto glottodidattico non significa andare fuori tema, al contrario. La glottodidattica nasce nel tentativo di collegare scienze teoriche e soluzioni pratiche e promuove l’inserimento dell’apprendimento linguistico all’interno di un contesto più ampio di educazione, a cui partecipa ogni forma di conoscenza o sapere. L’ “educazione linguistica”, coniata da Radice (1971) esprime l’esigenza di creare dei ponti tra materie scolastiche altrimenti isolate, preparando il terreno per il nostro tentativo sperimentale in cui teatro,

musica e lingua si incontrano in uno scenario scolastico, sulla linea di un approccio integrativo.

Non ha importanza quello che si fa, diceva mio nonno, purché si cambi qualche cosa da ciò che era prima

in qualcos’altro che porti la nostra impronta. La differenza tra l’uomo che si limita a tosare un prato

e un vero giardiniere sta nel tocco, diceva.

Quello che sega il fieno poteva anche non esserci stato, su quel prato; ma il vero giardiniere vi resterà per tutta una vita.

( Ray Bradbury, Fahrenheit 451)

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