UN DIRITTO INTERNAZIONALE PER L’ACQUA
4.2 L’inefficienza delle dottrine esistent
Le tre dottrine giuridiche citate, non sono state riconosciute dalla giurisprudenza internazionale e non sono menzionate nei numerosi trattati stipulati a livello mondiale76. A ciò si aggiunge anche il fatto che ogni stato, a seconda dei propri interessi, tenderà a far propria una dottrina piuttosto che un’altra, rendendo ulteriormente complicata la risoluzione delle dispute.
Alcuni dei trattati firmati, hanno risolto almeno provvisoriamente, alcune situazioni di tensione, come ad esempio quello firmato nel 1944 tra Stati Uniti e Messico, con il quale i primi hanno abbandonato la dottrina Harmon.
Anche tra India e Bangladesh, si è giunti alla stipulazione di un trattato per risolvere un contenzioso iniziato a causa della volontà dell’India di deviare le acque del Gange (con la costruzione della diga di Farakka), con lo scopo di contrastare l’interramento del porto di Calcutta. L’India, essendo un paese situato a monte del fiume, invocava il principio della sovranità territoriale assoluta, mentre il Bangladesh, situato a valle, difendeva a sua volta l’integrità territoriale assoluta.
La tregua è arrivata con la decisione dello stato indiano di accettare il principio secondo cui ciascuno stato situato sulle rive di un corso d’acqua, ha diritto ad utilizzare in modo equo parte delle sue acque.
Questo trattato però, già nel 1991, si è rivelato insufficiente a placare le proteste del Bangladesh, escluso dagli accordi presi tra l’India e il Nepal, riguardo alla gestione delle acque dei rispettivi fiumi, che alimentano la maggior parte della portata del Gange.
75
Serge Pannetier, La protection des eaux douces, Le Droit International face à l’étique et à la politique de
l’environnement, Geog Editeur, 1996. Nota presente nel testo di Frédéric Lasserre, op.cit., pag. 107.
76
Fa eccezione il trattato firmato tra l’Egitto e il Sudan nel 1959 che ribadisce in modo esplicito i “diritti storici” che l’Egitto detiene sulle acque del Nilo.
Altri trattati hanno causato ulteriori problemi, anziché risolverli ed altri ancora non vengono più applicati da anni.
Si deve sottolineare anche il fatto che questi, sono per lo più trattati bilaterali che impegnano due stati e, in genere, si riferiscono ad un singolo corso d’acqua.
Una gestione globale dell’acqua, che prenda cioè in considerazione una prospettiva di gestione integrata (che comprenda le domande di tutti e tre i settori dell’economia), non viene presa in considerazione.
Infatti, questi trattati solitamente hanno un raggio d’azione limitato: il 39% di essi si occupa di elettricità e il 37% della domanda interna d’acqua.
Infine, la maggioranza di essi, non comprende nessun meccanismo di controllo della gestione e di distribuzione della risorsa e l’80% non possiede protocolli per l’attuazione delle disposizioni del trattato.
Alla luce di tutto ciò, si può così comprendere come questi trattati non siano una base giuridica credibile per risolvere le situazioni problematiche nella gestione dell’acqua a livello internazionale.
Il trattato stipulato nel 1959 tra l’Egitto e il Sudan, riguardo all’uso delle acque del Nilo, è un esempio di come le dottrine esistenti non siano in grado di regolare in modo pacifico e definitivo i rapporti tra gli stati che si affacciano sullo stesso bacino fluviale.
Il Nilo, con i suoi 6,671 km., nel suo scorrere attraversa ben dieci nazioni africane le quali, nel corso degli anni, hanno visto aumentare notevolmente la domanda di acqua, soprattutto conseguentemente al rapido aumento della popolazione.
Ciò non fa che aumentare le tensioni che si creano tra gli stati a valle e gli stati a monte del Nilo, in particolare tra l’Egitto, il Sudan e l’Etiopia. Più di una volta, tra l’Egitto e il Sudan è mancato poco che scoppiasse un conflitto armato, dal momento che il primo si oppone a qualsiasi tentativo di deviazione delle acque da parte delle altre nazioni a monte.
Con l’accordo per “il pieno utilizzo delle acque del Nilo”, firmato nel 1959 tra i due stati, il Sudan vide aumentare le sue quote di allocazione delle acque del fiume da 4 miliardi di m³ (come stabilito nel Nile Waters Agreement del 1929) a 18,5 miliardi.
In cambio l’Egitto avrebbe potuto procedere all’erezione della diga di Assuan che fu ultimata nel 1970 e produsse lo sgombero di 100.000 sudanesi dalle loro terre.
In base a questo patto bilaterale, che peraltro escludeva l’Etiopia, l’Egitto ribadiva in modo esplicito i diritti storici che deteneva sulla acque del Nilo, stabilendo che non poteva essere intrapresa alcuna opera che avrebbe ridotto il volume di acqua che raggiungeva l’Egitto.
Nel giugno del 1978 iniziò la costruzione del canale di Jonlei, che avrebbe permesso di ridurre l’evaporazione delle acque del Nilo Bianco sottraendole alle paludi. Nel 1984 però i lavori vennero sospesi a causa delle incursioni ad opera dei guerriglieri dell’Esercito di Liberazione Popolare Sudanese (Sudanese People’s Liberation Army, SPLA) e l’opera venne abbandonata.
Oltre al Sudan, a preoccupare il governo egiziano sono anche i progetti dell’Etiopia sul Nilo Azzurro e i suoi affluenti. L’Etiopia infatti, che non era stata consultata in merito al trattato del 1959, reagì dichiarando che il paese “si riserva il diritto di utilizzare le acque del Nilo a vantaggio della propria popolazione, indipendentemente dalla quantità di acqua desiderata dagli altri stati bagnati dal fiume”77.
Anche le altre popolazioni che vivono nel bacino del Nilo, nella regione dei Grandi Laghi, hanno estremamente bisogno delle risorse idriche del fiume, avendo una media di accesso all’acqua potabile del 52% della popolazione complessiva.
In questa regione infatti, sebbene le fonti di approvvigionamento siano vicine fisicamente, mancano le infrastrutture e, di conseguenza la popolazione vive in condizioni estreme di miseria e povertà, senza contare il fatto che la maggior parte di essi è già devastata da guerre civili interne o da guerre di confine.
Nel 1999 in Tanzania, con l’appoggio della Banca Mondiale, si è svolta una conferenza regionale che aveva come oggetto la questione della distribuzione delle acque del Nilo, alla quale hanno partecipato tutti e dieci gli stati interessati. In questa occasione fu lanciata la Nile Basin Iniziative, con la quale si cerca di superare i conflitti, coinvolgendo gli stati in una prova di cooperazione.
A tale scopo, fu creata anche la International Consortium for Cooperation on the Nile, un’autorità internazionale di bacino che avrebbe vigilato sulla messa in opera di un piano progettato per “ottenere uno sviluppo socio-economico sostenibile mediante l’utilizzo equo delle risorse idriche, riconoscendo i diritti di tutti gli stati costieri all’utilizzo delle risorse del Nilo per promuovere lo sviluppo dentro le proprie frontiere”78.
Nonostante l’esistenza della Nile Basin Iniziative però, le tensioni sembrano difficili da spegnere: di recente il Kenya e la Tanzania hanno ripetutamente affermato che considerano illegale il trattato del 195979 e che quindi riterrebbero opportuno rinegoziarne i termini; lo stesso vale per l’Etiopia che da sempre lo ritiene iniquo e impraticabile.
77
Marq De Villiers, op.cit., pag. 282.
78
Marco Bersani, op.cit., pag. 30.
79
Il trattato del 1959 tra l’Egitto e il Sudan, riconfermava il contenuto del Nile Water Agreement del 1929, un accordo generale sulle acque del Nilo firmato dall’Egitto e dall’Inghilterra, poiché le altre nazioni interessate all’epoca non avevano ancora ottenuto l’indipendenza.
Nel caso del Nilo, è evidente come il principio dell’integrità assoluta invocato dall’Egitto, venga a scontrarsi con gli interessi degli stati a monte che, come l’Etiopia fanno invece riferimento alla dottrina Harmon.
La criticità della gestione del sistema idrico del Nilo, spinge a ricercare altre soluzioni, basate sulla collaborazione tra le nazioni, sull’uso equo delle risorse e sullo sviluppo sostenibile.