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81 Nell’intervento che ha tenuto a Bologna il 3 dicembre 2015, in occasione della giornata di studio svoltasi nell’università felsinea dal titolo ‘Manoscritti autografi e tradizione dei classici nel Medioevo’ (titolo dell’intervento:

Addenda a un possibile codice dilplomatico dei poeti del ‘200 (Puccio Bellondi e Lambertuccio Frescobaldi), il Piciocco

avanza le sue osservazioni su questa corrispondenza e, in parte, sull’agone tra Monte e Lambertuccio Frescobaldi in cui sfocia la Sonettkampf. Poiché gli atti sono in corso di pubblicazione, mi avvalgo in questa sede della bozza del discorso tenuto dal collega, di cui mi ha gentilmente fatto partecipe (da ora citato come PICIOCCO 2015*).

82 Una sintesi biografica in D’ADDARIO 1960.

83 Si cambia la punteggiatura rispetto all’edizione Minetti. Nella prima quartina, infatti, si sta descrivendo il dragone, mentre nella seconda il soggetto è costituito dagli interlocutori di Puccio, di cui Monte è una sorta

37 contro di lui non avrebbon bastanza! Ma l’una a l’altra si mostra stranera, sì che ’l dragone perde sua possanza. Tener vogliate di cor de· leone, con un volere che punga pungente, com’ altre pietre pungon li diamanti. C’a lo neiente giunge lo dragone, di ciò ch’e’ molto poria star tenente, perché le teste non sono accordanti.84

In questo sonetto strutturato parallelamente – il legame tra quartine e terzine è garantito dall’opposizione tematica dell’altrimenti identica espressione Tener volete (è la realtà da rifiutare)/tener vogliate (esortazione ottativa), mentre fronte e sirma si dividono tra una prima parte descrittiva (vv. 1-4 del dragone; vv. 9-11 del leone) e una seconda parte esplicativa (vv. 5-8 la discordia del dragone; vv. 9-10 la necessità di comportarsi come il leone) – Puccio starebbe accusando Monte e i suoi di non essere efficaci nella loro azione, per l’assenza di una volontà unanime: sarebbero insomma come un dragone, le cui sette teste non trovano un accordo. Il dragone, forte animale reso innocuo dalla discordia interna, è evocato in identica semantica da Monte in Donna, di voi si rancura [V 303] vv. 43- 47 per esprimere l’impossibilità dell’innamorato di difendersi di fronte alla durezza della donna e alla sua trasnaturata natura:85 «ché nullo [cioè nessuno degli amanti] avria difenza,

/ ma ïn tutto perdenza, / incontro a lo dragone, / se d’uno oppenïone / e di vera arditez[z]a / fossor le teste, tant’avria fortez[z]a». L’immagine è rievocata in entrambi i luoghi per lo stesso valore allusivo, che è comune anche al Chiaro Davanzati di Lo dragone regnando pure avampa, un sonetto di corrispondenza – ma trascritto da V tra gli sciolti – che sicuramente si riferisce a fatti politici (come nella Sonettkampf si allude a una profezia), ma che è di oscurissima intelligenza.

di rappresentante: il che diviene perciò causale. Nei vv. 7-8 l’identità tra la schiera e il dragone, ossia la loro intercambiabilità, è ormai definitiva.

84 Parafrasi: «Voi, della vostra parte, volete continuare a seguire il costume del dragone, che ha sette teste uguali, e sarebbe una bestia micidiale se queste teste tra loro non discordassero. Perché se tutte le persone si compattassero in una sola schiera, nessuno sarebbe in grado di batterle. Ma queste teste sono così refrattarie l’una a l’altra, che il dragone perde il suo vigore. Piuttosto cercate di prendere coraggio, trasformando il vostro cuore in quello di un leone, in modo che abbia una volontà unica in grado di incidere profondamente sulla realtà, così come fanno i diamanti, che incidono le altre pietre. Infatti il dragone non ottiene niente di ciò che potrebbe avere, perché le teste non trovano un accordo».

85 Dense e interessanti le pagine che STOREY 1982: 185-262 dedica alla contestualizzazione del concetto di natura nelle poesie montiane in relazione alla filosofia della scuola di Chartres, al filtro letterario di Peire d’Alvernhe e di Marcabru, all’intelligenza del medesimo concetto presso i rimatori coevi e, infine, ai valori della nuova società mercantile.

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Possibile che l’immagine del dragone derivi da un’influenza biblica, forse Ap. 12, 3-4:86 il luogo specifico, però, ha avuto più ampia fortuna nel simbolismo medievale per

via dell’identificazione tra satana e il drago, quindi tra l’Anticristo e il drago e perciò, per proprietà politicamente transitiva, tra Federico II-Anticristo e il drago87 e non come

immagine topica della discordia debilitante interna a un corpo. Possibile perciò che la fonte che sta dietro a questa condivisa antonomasia sia un’altra.

Dato per certo il senso delle parole di Puccio, e ammettendo che al centro della sua critica non c’è il solo Monte, quanto piuttosto una collettività indefinita di cui lui fa parte – tenete non è infatti pluralia maiestatis, ma si riferisce alla societas di cui parla Minetti, implicitamente ritenuta politica in senso stretto nella ricostruzione di Piciocco – bisognerebbe stabilire qual è questa societas.

Secondo l’ultimo interprete qui non si farebbe esplicito riferimento a lotte specifiche, quanto piuttosto «a due modi di intendere il guelfismo», almeno a partire dal 1274-75 quando, ormai stabilita la supermazia guelfa nella Fire1nze angioina, le potenti famiglie di Tosinghi e Adimari arrivarono allo scontro aperto, «specialmente per il controllo del capitolo del Duomo di Firenze, rimasto vacante alla morte del vescovo Giovanni Mangiadori».88 Puccio, perciò, sta qui opponendo all’estremo titanismo

montiano, strenuamente ancorato all’angioino, una visione politica più moderata: la societas è generalmente quela guelfa.

Le corde toccate da Monte Andrea nella risposta non si differenziano, in sostanza, da quelle sollecitate nel resto delle sue corrispondenze politiche, ad eccezione che per la premessa, dove il discorso assume connotati quasi filosofici. Sotto quest’aspetto Monte si fa promotore di un punto di vista eccentrico rispetto a quello dominante nel pluralismo della società basso-comunale, in cui l’interesse individuale è visto in genere come uno stigma nei confronti del bene comune: nelle sue parole si intravede l’inizio di quella trasmutazione ideologica che meno di un secolo dopo verrà trionfare l’ingegno e la fortuna del singolo. A un modo di intendere la societas si oppone perciò un altro modo di intendere la societas. Questa la premessa di Monte: sperare – termine chiave intercorrente in tutte le

86 «Et visum est aliud signum in caelo: et ecce draco magnus rufus habens capita septem, et cornua decem: et in capitibus ejus diademata septem, et cauda ejus trahebat tertiam partem stellarum caeli, et misit eas in terram: et draco stetit ante mulierem, quae erat paritura, ut cum peperisset, filium ejus devorare».

87 Va in ogni caso precisato che, almeno dall’epoca della scomunica di Greogrio IX il drago è identificato con l’Anticristo Federico II nella pubblicistica antisveva, motivo che passa poi negli ambienti gioachimiti, dove l’ultima delle teste del dragone, giusta l’equivalenza di Federico II e dell’Anticristo, viene in lui identificata (PIAZZA 2005).

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corrispondenze politiche, in genere messo in relazione alla discesa in Italia dei vari signori – nella riuscita è naturale, così come è proprio della natura umana il desiderio di procacciarsi un merito squisitamente individuale:

L’arma di ciascun omo tanto impera

col cor che spera: in ciò non v’à dottanza. Non è om vil sì ched egli non chera

e voglia intera tutta la ’noranza. Questa natura è [’n] noi tanto vera, ’n opera e ’n cera se ne fa mostranza. S’ogn’om tenesse dritta sua statera

ciò ch’e’ ne pèra non v’averia acordanza: seria intra noi sempre, [’n] questa fiera, lo stato ch’era a la Dritta Usanza. E tu amico, che ci assegni ragione di guerigione là ove sien fallente

non si consente! Per ciò ch’è dett’ò ’nanti ed ancor la speranza del Campione

che perdiz[i]one à dato e dà presente a quella gente son di noi scordanti.89

La conclusione a cui perviene il poeta è tassativa: Puccio, che pretende di offrire a lui e ai suoi una soluzione per quello che crede un loro problema, è decisamente fuori strada, poiché il suo discorso contraddice l’individualità della ricerca dell’eccellenza che è fatto indiscutibile, proprio perché secondo natura. Se tutti giudicassero equamente si manterrebbero le rette consuetudini,90 ma questo non accade. Ecco perché c’è bisogno –

pare di capire – di una personalità in grado di emergere sopra le spinte contrastanti. E questo è il campione della Chiesa Carlo d’Angiò, che ha dato e sta dando filo da torcere a

quella gente smemorata dei nemici.

Questo, a grandi linee. Ma è innegabile che il sonetto presenta dei passi di difficile lettura, su vari livelli. Il primo emistichio del v. 9, ad esempio, è poco chiaro, molto probabilmente perché la lezione del codice unico non è immacolata. Accade anche che, nel passaggio dalla risposta al quesito di Puccio – non puoi permetterti di darci consigli – al proclama di fedeltà angioino esternato dagli ultimi tre versi e mezzo si lasci una serie di passaggi impliciti che bisogna colmare; il problema qui è puramente interpretativo. Se, come dice Piciocco, l’opposizione con Puccio riguarda le sfaccettature di un’idea che è, nel fondo, comune (il guelfismo, cioè) bisognerà almeno riconoscere che l’individualismo

89 Si cita il testo così come proposto da PICIOCCO 2015*, tranne per i vv. 7-10, che lo studioso risolve con un’interrogativa: «S’ogn’om tenesse dritta sua statera / ˆ[a] ciò che ne pèra, non v’averia accordanza: / seria intra noi sempre,’n questa fiera, / lo stato ch’era a la diritta usanza?».

90 Non è da escludere che il rimando allo stato ch’era a la dritta usanza sia un riferimento all’età dell’oro, già ricordata nel proemio dello statuto dei Cambiatori del 1245 di Rolandino de’ Passeggeri.

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montiano è atteggiamento che percorre interamente la produzione poetica del fiorentino – la principale auctoritas di Monte è infatti Monte stesso – e che tocca anche il piano della riflessione politica: non ci sono lotte che tengano, visto che una e una sola persona si merita intera tutta la ’noranza; il suo comportamento, naturalmente razionalizzabile, non è perciò da deprecare.

Qualche punto oscuro resta in ogni caso e varrà la pena attenersi, intanto, ai puntelli interpretativi forniti da Piciocco: il dibattito è politico, riguarda un argomento di teoria politica – ciò che distinguerebbe nettamente questo scambio dagli altri di analogo tema – e si potrebbe datare intorno alla metà degli anni ’70. Si tratta pur sempre di un’ipotesi, ovvio, ma almeno permette di acquisire senza titubanze la tenzone tra le politiche montiane.

1.1.2.4. Il sonetto doppio I baron’ de la Magna

Così come per la tenzone tra Schiatta e Monte, anche per questo sonetto l’edizione Massèra apportò sostanziose novità, sia legandolo in tenzone col sonetto che lo precede nel codice, ovvero Venuto è boce di lontan paese (V 863), dal manoscritto assegnato a ‘s(er) Cione notaio’ e privo della rubrica specifica che in V segnala la presenza di una corrispondenza; sia estendendo anche a questo sonetto doppio dialogato lo stesso metodo attributivo già applicato a Non isperate, ghebellin e Non val savere, cioè l’attribuzione di una delle due voci a Cione – quella, logicamente, in cui non si fanno proclami filocarlisti – e dell’altra a Monte Andrea, a fronte della singola attribuzione del codice, che dà I baron’ de

la Magna solo a quest’ultimo. Nella sua edizione Minetti si adegua pienamente alle

soluzioni di Massèra.91

Poiché tanto la questione delle rubriche (§ 2.3.3.2) quanto l’interpretazione dei due sonetti verranno affrontate nel particolare (§ 3.6), in questo frangente ci si limita a rilevarne il valore per la ricostruzione biografica, francamente di poco conto. L’interpretazione corrente, per cui dal dittico si ricaverebbe il ghibellinismo di Cione (infra § 1.3.5), mentre senza evidenti scossoni si confermerebbe il guelfismo di Monte, si basa infatti su una serie di ipotesi: a) che V abbia omesso la rubrica che indicava lo statuto di corrispondenza dei due sonetti, come potrebbero suggerire le contraddizioni morfologiche e gli errori che caratterizzano il fasc. XXV dov’è conservata la tenzone; b) che il sonetto I baron’ de la Magna è un sonetto a coblas tensonandas scritto a quattro mani da

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Monte e Cione: ancora una volta V, confuso nell’attribuzione doppia o per lacuna già d’antigrafo, si limita a darne la paternità a un solo poeta; c) posto che il sonetto è scritto a quattro mani a Monte si dovrà attribuire, a posteriori, esclusivamente la voce filocarlista.

Per quanto riguarda la cronologia relativa ai fatti riportati in quei versi, invece, si propone qui una datazione che differisce tanto da chi considerava la corrispondenza antecedente alla discesa di Corradino in Italia, quanto da chi – in ultimo Minetti – optava per la tarda data del 1278. Venuto è boce presenta infatti due spie allusive abbastanza orientative, per quanto, come al solito, non certissime. L’epiteto spada larga con cui si allude al tedesco che scenderà in Italia «per la corona de lo ’mperïato» è infatti solitamente utilizzato come riferimento condiviso – almeno nell’idioletto dei poeti di V – a Rodolfo d’Asburgo; pare poi che Carlo d’Angiò potesse essere ben essere rappresentato dallo spuntone, poiché, secondo quanto si legge nella Rerum Sicularum Historia di Saba Malaspina, Carlo incitava i suoi a colpire «cum gladii e cuspide, non cum acie».92

Una situazione simile, in cui la Chiesa appoggia le mire tedesche alla corona imperiale, si verifica solo quando Gregorio X, nonostante le ormai più che decennali pressioni di Alfonso X di Castiglia di cui abbiamo già parlato, agevola l’elezione a nuovo imperatore di Rodolfo d’Asburgo: solo allora il soglio imperiale ha di nuovo un legittimo rappresentante, con beneplacito papale, dopo il lungo e caotico periodo di interregno iniziato con la scomunica federiciana del 1245. I fatti riportati in Venuto è boce sono tali da poter ammettere come fluido terminus post quem l’autunno del 1273, o forse i mesi immediatamente precedenti all’elezione imperiale vera e propria: nel sonetto non è infatti esplicitamente detto che il tedesco ha già la corona, ma solo che la Chiesa appoggia le mire di colui che – lo ricordiamo solo per inciso – era stato tra i fedelissimi sostenitori di Federico II nelle sue battaglie italiche.

Tale ricostruzione è legittimata però dal solo Venuto è boce. Più complesso è datare

I baron’ de la Magna, per via della genericità dei riferimenti, rispetto al quale si possono

ritenere pochi indizi:

1) nella situazione di cui si discute tutti gli stranieri coinvolti per la conquista della corona imperiale sono convinti di averne il diritto (vv 1-2 [A] «I baron’ de la Magna àn fatto impero, / e conquistarlo credono a ragione»; vv. 7-8 [B] «Lo specchio à ben, ciascheduno stranero, / di nonn-avere falso openïone»);

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2) è impossibile riuscire nell’impresa senza l’appoggio della Chiesa (vv. 3-4 [B] «Se venir vogliono, amico, a tal mestero, / non facc[i]an de la Chiesa partigione»);

3) c’è sì stata un elezione, probabilmente imperiale (v. 10 [A] «Convien ’n afetto vegna l’alezione»), ma anche che Carlo d’Angiò non è ancora fuori dai giochi (v. 12 [B] «che de la Chiesa ancor ci è lo campione!»). Il riferimento all’elezione è forse qui più circostanziabile di quello della tenzone politica con Schiatta, e ci sposta verso il 1273;

4) il passato ha già dimostrato la potenza angioina (vv. 20-22 [B] «Sai che ti dico? Chi si paragona, / convien ben sia la sua gran potenza / se del tempo passato be[n] ragiona»): questo è un ritornello onnipresente, perciò poco pregnante dal punto di vista referenziale.

Come si vede chiaramente, anzi, formule e dichiarazioni che intramano I baron’ de

la Magna sono generiche e sovrapponibili per molti aspetti a quelle già viste nella

corrispondenza tra Schiatta e Monte, che pur parevano riferirsi a Corradino di Svevia. Probabilmente il costante riferimento a un’elezione imperiale già avvenuta, tanto in Venuto

è boce quanto ne I baron’ de la Magna, il tono apparentemente razionale con cui si allude a

una sorta di beneplacito della Chiesa (così si potrebbero intendere i vv. 13-14 [A] «Io non mi credo che voglia esser guer[r]ero / di chi vuol la sua propria processione», soggetto è Carlo d’Angiò) alla parte tedesca e infine, per quanto debole, il riferimento alla passate vittorie potrebbero portare anche nel caso del sonetto raddoppiato dialogato a ipotizzare il medesimo terminus ad quem già proposto per Venuto è boce.

Alla luce delle incertezze elencate, perciò, non si può detrarre alcun dato sicuro per la ricostruzione biografica.

1.1.2.5. Der ‘Sonettkampf’

Quando la Werder ha chiamato quella esposta nei sonetti V 882-V 898 ‘battaglia di sonetti’ non avrebbe potuto definire meglio il contenuto della complessa e lunga tenzone contenuta nei ff. 165r.-168v del fasc. XXV del codice.

I problemi che l’insieme solleva sono molti, a partire da quello che riguarda la concreta dinamica dello scambio, poiché ci troviamo di fronte: 1) un sonetto missivo di Monte Andrea rivolto al solo Pallamidesse di Bellindote, dove si fa riferimento a una profezia sulle situazione politica e si chiede un’interpetazione; 2) l’assenza di qualsiasi responsivo da parte di Pallamidesse a fronte di ben cinque sonetti di diversi autori che s’ingegnano di raccogliere la provocazione; 3) a partire da V 888 la scomparsa di tutti i precedenti interlocutori ad eccezione di Lambertuccio Frescobaldi, con cui si instaura un

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agone al limite della possibilità tecnica e di complessità formale crescente. C’è poi, irriducibile, la questione delle multiple soluzioni ecdotiche di cui testi difficili e massimamente equivoci come questi sono suscettibili, con la conseguenza che i già poco chiari riferimenti ai fatti storici diventino in certi punti quasi impossibili da comprendere perché è la semplice sintassi a mostrare criticità di lettura. Anche se, c’è da dire, il contenuto politico, fondamentalmente uguale a se stesso e poco specifico, viene fortemente subordinato alla forma. Infine, come per le altre tenzoni ad accezione di V 700-702, anche per questo scambio non si sono date univoche ipotesi di datazione. Ma si vada con ordine.

In Se ci avesse, alcun segnor, più campo (V 882), misurando realisticamente la potenza angioina in termini di forza monetaria Monte Andrea stimola il sodale Pallamidesse a fornirgli una sua interpretazione della prophetia Merlini:

Se ci avesse, älcun segnor, più campo che speri di volere essere al campo con que’ c’à il giglio ne l’azurro campo, quanto li piace e vuol, prenda del campo e, là ove più li agrada, tenda il campo, e lo fornisca auro più c’agua c’à ’n·Po: di sé né di sua gente non fia campo, se non come contro a leon can pò. Tal frutto rende e renderà suo campo chi fa sementa per che non dice i· campo. Ma sempr’e’ ver’ li suoi nemici à cor-so, e già no stanca, né riman nel corso: lo ver cernisce, com’ ciascuno è corso! Pallamidesse che al “Merlin” dài corso, s’altro ne speri che quello c’or so, cernisci ’l me, ché già non so l’acorso.93

Il sonetto giocato su sole due rime equivoche, spezzate e per l’occhio – corso tornerà nei primi due sonetti della tenzone con Schiatta (§ 3.5), – è così parafrasabile: «Se ci fosse qualcuno in grado di combattere (avere campo, come il moderno ‘avere campo libero’) e scendere nel campo di battaglia (essere al campo) con quello il cui stemma è il giglio dorato in campo azzurro, prenda pure tutto lo spazio che vuole e pianti pure le tende dove più gli aggrada; poi, fornisca l’esercito di più denaro di quanta acqua c’è nel Po: tanto non avrà scampo, né lui ne i suoi, così come un leone contro un cane. La sua semina (campo, inteso come ‘orto’, qui con funzione metonimica) renderà un frutto inadeguato.

93 Differenze rispetto all’edizione Minetti: v.1 «Se» («S’e’» Min.), «più campo» («più [’n] campo», Min.); v. 3 «campo,» («campo;» Min.); v. 7 «non fia campo,» («non fia campo,!», Min.); v. 8 «se non come» («se non com’e’», Min.); v. 11 «Ma sempr’e’» («Ma’sempr’ e’», Min.), v. 16 «cernisci ’l me, ché» («cernisci-l-me! Ch’e’»

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Ma lui (Carlo) non smette mai di stare sull’attenti, non si stanca mai, né la sua opera resta a metà. Pallamidesse, che divulghi la profezia del Merlino, se speri cose diverse rispetto a ciò che si sa, fammi sapere, perché io le ignoro».

Se ci avesse si innerva sul solito tono provocatorio montiano. Non c’è alcun dubbio,

infatti, che l’intera fronte è pervasa da ironia: che i nemici di Carlo scelgano pure il luogo dove vogliono combattere, lui li batterà; che i nemici di Carlo spendano pure tutti i soldi che vogliono per la guerra (anzi, tanti soldi quanti ha l’acqua del Po, stesso luogo ricordato nella corrispondenza proprio con Pallamidesse; il riferimento possibile è alle truppe mercenarie dell’esercito ghibellino), lui li batterà; così come un leone – il leone di Se convien,

Carlo 7 – contro un cane (variante altrettanto dispregiativa della capra, degrado di Agnello

nella corrispondenza con Schiatta), lui li batterà. E se il v. 12, come vorrebbe Minetti, è

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