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3 « e l’infinita vanità del tutto»

michelstaedteriana del “quotidiano”

II. 3 « e l’infinita vanità del tutto»

La frivola vanità, cormorano insaziabile, non esita a pascersi di sé stessa. (W.SHAKESPEARE) “Uomo! - Che cos'è la vanità dell'uomo più vanitoso in confronto a quella del più modesto, nel sentirsi, nella natura e nel mondo, 'uomo'!”

F.NIETZSCHE)

Ne La persuasione e la rettorica emerge con forza la riflessione michelstaedteriana sulla «vanità del tutto» che, come è comprovato da un foglio manoscritto226, è stata suggerita dal verso finale della poesia A se stesso di Giacomo Leopardi. Come osserva

226 Il foglio manoscritto è stato trascritto da Gaetano Chiavacci in I

D., Opere, pp. 779-782.

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Campailla: “A se stesso segna dunque il momento in cui le due vite parallele, di Leopardi e di Michelstaedter, vengono quasi a collimare. […] Il poeta infatti copia per intero A se stesso quale epigrafe per una meditazione imperniata sul tema del conflitto tra l’individuo che ricerca la via della persuasione e tra l’individuo che deve piegarsi alla «volontà bruta» che lo «accomuna con la brutalità dell’universo”227

.

Che Michelstaedter consideri Leopardi un esempio di uomo “persuaso” e un modello da seguire è evidente; che il Goriziano abbia una sensibilità molto simile a quella del poeta recanatese è dimostrato dal fatto che, molto spesso, la sorella Paula nelle lettere private non manchi di chiamare il fratello “Giacomino” proprio per sottolineare un’estrema vicinanza emotiva tra i due. Quello che però preme ricordare è che Michelstaedter parte sì dalle suggestioni di Leopardi, ma a queste suggestioni seguono sempre altri significati e altri punti di vista che talora discostano nettamente i due pensatori.

Come anticipato, nostra intenzione è quella di rintracciare l’ampia riflessione michelstaedteriana sulla “vanità delle cose”, partendo proprio dal componimento leopardiano poc’anzi citato.

Or poserai per sempre,

Stanco mio cor. Perì l’inganno estremo, Ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento, In noi di cari inganni,

Non che la speme, il desiderio è spento. Posa per sempre. Assai

Palpitasti. Non val cosa nessuna I moti tuoi, né di sospiri è degna La terra. Amaro e noia

La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo. T’acqueta omai. Dispera

L’ultima volta. Al gener nostro il fato Non donò che il morire. Omai disprezza Te, la natura, il brutto

Poter che, ascoso, a comun danno impera,

227 S.C

AMPAILLA, Postille leopardiane di Michelstaedter in «Studi e problemi di critica testuale» n. 7, Ottobre 1973, cit. p. 250.

115 E l’infinita vanità del tutto228

.

La potenza di questa lirica marchia la verace passione di Michelstaedter per il tema dell’esistenza; un’esistenza che, in quanto caduca e precaria, non può ridursi a uno “sguardo chiuso” verso se stessi, ma piuttosto “aprirsi” a un’universalità, la cui eco si riverbera nell’intera condizione umana.

Che l’uomo si inganni attraverso l’illusione della felicità e della pienezza è ben evidente, ma, dice Michelstaedter, l’uomo non subisce gli inganni dalla natura, poiché egli stesso ne diventa suo carnefice. All’uomo rettorico non interessa, infatti, guardare ciò che è; all’uomo rettorico interessa guardare ciò che fa.

Da qui, la grande pregnanza teoretica del frammento che segue:

Il fine certo, la sua ragion d’essere, il senso che ha per lui ogni atto, non è nuovamente altro che il suo continuarsi. La persuasione illusoria per cui egli vuole le cose come valide in sé ed agisce come a un fine certo, ed afferma sé stesso come individuo che ha la ragione in sé – altro non è che volontà di sé stesso nel futuro: egli non vuole e non vede altro che se stesso229.

“Lui” non è che l’uomo rettorico, colui che vive per la certezza e la stabilità fondanti, colui che trova il senso della vita nella “continuazione” e non nella “destinazione finale” dell’ “Or poserai per sempre, stanco mio cor”. L’uomo rettorico non è stanco; l’uomo rettorico non si stanca proprio perché il suo fine ultimo non consiste nella quiete, ma nell’evoluzione tormentata delle cose. Eppure, il “per

228 G. Leopardi, A se stesso, a cura di M. A.R

IGONI in «I Classici del pensiero», Mondadori, Milano 1987, p. 102.

229 C.M

ICHELSTAEDTER, La persuasione e la rettorica. Appendici critiche, cit., p. 20.

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sempre” non vuole “temporalizzarsi”; sia per Leopardi, sia per Michelstaedter, ogni “per sempre” sta nell’attimo, nell’istante della «permanenza», di una dimensione altra – che non è più quella della vanità umana.

Così il dolore che esala dalla lirica nasconde, in realtà, la consapevolezza che la gioia e la felicità non possono prescindere dalla sofferenza; ecco perché Leopardi nello scrivere perì l’inganno

estremo ch’eterno io mi credei. Perì, evidenzia quello che ha colto

Michelstaedter quando annota la seguente riflessione: «Il piacere [è] contaminato da un sordo e continuo dolore»230, la cui voce «domina sola e terribile nel pavido cuore degli uomini»231.

La vita rettorica, cucita da una fitta trama di inganni, così fragile nella sua tessitura ontologica, rivela, prima o poi, la nullità di quella che è: niente. Anche il desiderio, la brama di vivere per il sapore invitante delle cose del mondo, si spegne non solo per un «danno determinato […] ma proprio per il terrore per la rivelazione della impotenza della propria illusione»232. Il dolore – sia per Michelstaedter, sia per Leopardi – non è contingente; non esiste dolore relativo ad un evento della vita; il dolore è assoluto. Esso è presente sempre, anche quando si è felici; ecco perché il dolore è

gioia. Quest’ossimoro – che a tratti si veste della sua assurdità – trova

la sua coerenza nell’equilibrio della vita; se infatti l’uomo «vive [il

dolore] in ogni punto, […] in lui vivono le cose non come correlativo

di poche relazioni, ma con vastità e profondità di relazioni».233

In questo senso, l’imperativo che Leopardi rivolge al cuore,

Posa per sempre. Assai palpitasti, si riferisce proprio a quel concetto

230 Ivi, p. 21. 231 Ivi, p. 22. 232 Ivi, p. 26. 233 Ivi, p. 47.

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di «permanenza» michelstaedteriana. Non ha alcun senso palpitare ancora, con furia, con la brama di vivere, proprio perché il sapore della vita si misura dalla sua intensità «consistente». Inoltre, poiché chi sceglie di non assoggettarsi alla vita rettorica vede la vicinanza

delle cose più lontane234, Leopardi e Michelstaedter – sebbene in tempi e in spazi diversi – riescono a cogliere il senso del sentire universale; infatti solo chi arriva alla consapevolezza del dolore «avrà nella persuasione la pace»235 : T’acqueta omai.

Il discorso michelstaedteriano, nonostante che si carichi della suggestiva autorità leopardiana, non trova però alcun riscontro facile nella pratica di vita quotidiana, giacché, come egli asserisce nel capitolo dedicato a La rettorica, «gli uomini si stancano su questa via, si sentono mancare nella solitudine: la voce del dolore è troppo forte»236. Siamo qui giunti, ancora una volta, all’origine del problema; l’uomo, ormai cosciente che «il dolore stilla sotto tutte le cose», sceglie comunque di abbandonarsi alle vane illusioni. Ecco perché la vita rettorica è perlopiù costituita dalla vanità.

In molti passaggi della sua opera filosofica, Michelstaedter fa riferimento sia alla “vanità”, sia al “vaneggiamento”. Entrambi i termini, infatti, provengono dalla stessa radice etimologica di vano: la vanità è il “vano fare”; il vaneggiamento è il “vano dire”.

Negli Scritti vari, molte sono le riflessioni che incalzano sulla vanità; in particolare questo frammento svela il significato profondo, il senso, diremmo, che si produce con la vanità:

234 Ivi, p. 48. 235 Ivi, p. 49. 236

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Gli uomini parlano per affermare se stessi, ma in quanto parlano dipendono da chi li sta a sentire, che può concedere loro la gioia d’affermazione approvandoli, che gliela può togliere disapprovandoli.

Come gli uomini parlano dei dettagli della loro vita per illudersi che abbiano una ragione, ed espongono con mille giri faticosi i loro mille pensieri relativamente giusti, e le loro azioni ogni volta giuste secondo l’eventuale o ignoranza o passione o stanchezza o indifferenza, quando queste portarono a un fatto doloroso di cui portano le conseguenze, per illudersi della propria individualità rimasta integra intatta nella contingenza, pel bisogno di essere (nell’approvazione dell’altro), per poter incolpare un’intenzione maligna nelle cose, negli uomini, la forza nemica trascendente e la malvagità del prossimo – così essi amano rebus secondis biasimare qualsiasi male degli altri per affermare se stessi liberi da quel male, e ritrarre la gioia della rinforzata illusione237.

Al centro di tale considerazione, Michelstaedter lascia intuire che la vanità si veste dei suoi presupposti pratici: anzitutto la presenza di un interlocutore. Senza il destinatario di un messaggio, l’uomo non potrebbe vaneggiare. Qui il discorso investe la sua linea costitutiva che risiede nella dipendenza io-tu. Per poter lasciar parlare il mittente, il destinatario deve avere il suo stesso codice, i suoi stessi simboli, nonché la sua comune linea teorica. Entrambi, infatti, partono da uno stesso punto e arrivano alla medesima destinazione. Non importano le ragioni esposte, poiché nelle ragioni, come vedremo nell’ultimo capitolo di questo lavoro, non si segue mai la linea della vera giustizia. Se l’io per l’uomo rettorico è il giusto, il tu è necessariamente l’ingiusto, poiché è colui che è più incline alla malignità. La paranoia dell’uomo rettorico non fa che generare ulteriori pieghe illusive: l’essenzialità del marcare a fuoco un’identità, secondo canoni e parametri costitutivi. Anzitutto imponendo confini restrittivi alla prima forma di relazione: il linguaggio. È così che il “vano dire” e il

237

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“vano fare” rientrano nella medesima categoria di “vaneggiamento” – ma su quest’aspetto ci soffermeremo nel capitolo successivo.

Vediamo però che se per Michelstaedter l’«infinita vanità del tutto» è una prerogativa esclusiva della natura umana perché «ben felici le bestie non hanno anima immortale che le getti nel caos dell’impotenza rettorica, ma si mantengono nel giro sano della loro qualunque potenza»238, per Leopardi, invece, non c’è alcuna distinzione nell’intera “natura” umana, animale e vegetale, in quanto vi è la medesima peculiarità “vana”: Ormai disprezza te, la natura, il

brutto poter che, ascoso, a comun danno impera,e l’infinita vanità del tutto. Il «tutto» leopardiano è allora quell’orizzonte indifferenziato

dell’intera natura; e infatti sta lì la residenza della rettorica – che pulsa sottilmente in ogni strato vitale dell’organico e dell’inorganico.

Questo è il vero punto di rottura tra Michelstaedter e Leopardi. Per Michelstaedter la rettorica della vita si sviluppa nell’uomo non nel momento in cui esso viene al mondo, bensì quando «vaneggia la rettorica filosofico-letteraria – [quando cioè] il suo pensiero […]

partecipa all’assoluto»239 .

Ma il giovane giuliano non si ferma al solo ragionamento deduttivo; egli, infatti, nell’ambito della natura umana fa un’ulteriore distinzione tra ‘uomo rettorico’ e ‘uomo persuaso’: quest’ultimo non si lascia soggiogare dalla philopsychia240.

238 Ibidem. 239 I

D., La persuasione e la rettorica. Appendici critiche, cit., p. 66. 240

Come rileva Sergio Campailla: ”Il Goriziano osserva come il Leopardi, senza accorgersene, abbia ceduto alle lusinghe della philopsychia. Il dissenso, in questo caso è grave e vistosamente segnato da tre punti esclamativi». Qui Campailla fa riferimento all’Ode al conte Carlo Pepoli, quando Leopardi scrive: «…che conosciuto, ancor che tristo, /Ha i suoi diletti il vero». Cfr. S.CAMPAILLA, Postille

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Se l’orizzonte della philopsychia è chiuso perché protetto dal sostrato rettorico, l’orizzonte naturale è investito dall’urto, dalla spaccatura in cui si rivela il tormento infinito, ma comunque appagante, della vita «autentica».

Dunque, il senso della frase che il Goriziano scrive nel luglio del 1908: «Com’è stata tempestosa la natura è stata tempestosa l’anima. I lampi rivelano narrando i colli verdi lividi sul fondo scuro e dall’anima mia si levava il canto di gioia rivelatrice»241

, mette in luce l’inscindibilità tra la natura e l’anima umana: entrambe si dichiarano disperate e tormentate, ma, contemporaneamente, pronte a gioire con la disperazione. Dunque, come già accennato prima, all’interno dell’aspetto tragico – come può essere la tempesta improvvisa – c’è sempre l’elemento della gioiosa rinascita.

Queste suggestioni michelstaedteriane trovano un’intensa dimostrazione nell’intero Epistolario, dove si percepisce spesso la lotta del giovane Carlo: rinascere ogni volta e ogni volta, disperatamente, cercare l’equilibrio per ritrovare «l’antico centro di gravità»242, per ritrovare quelle «arcane felicità» di leopardiana memoria. Come Leopardi, infatti, anche Michelstaedter è sempre assorbito dai sogni di felicità passati.

È in questo “frammezzo” spazio temporale tra passati sogni e speranze future che si erge, a pieno titolo, la tragicità dell’esistenza; una tragicità piena e totale che fa da eco, ancora una volta, all’intera natura.

Ma, come abbiamo avuto modo di evidenziare nel primo paragrafo di questo capitolo, poiché la natura vive della sua stessa contraddizione, l’uomo può temerariamente cercare di affrontarla tra il “torpore” e lo “spavento” nella dimensione alta dell’aletheia. Così, tra

241 C.M

ICHELSTAEDTER, Sfugge la vita. Taccuini e appunti, cit., p. 56. 242

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un’immagine e un’altra, restano “sempre vaghe” quelle stelle dell’Orsa, nonostante che, ogni notte, per tanti anni, esse si siano consumate, fino al sorgere del sole, sotto lo sguardo del poeta. Quelle stelle così apparentemente dolci e innocue hanno “aperto” speranze e illusioni, tanto da far pensare a «arcani mondi, arcane felicità»243. Ma intanto «il vento e l’onde […] come un rottame verso la scogliera spingono a rovina senza scampo»244. La vana speranza, le illusioni degli uomini, hanno creato un barlume di serenità, spesso travestita di morte; così se Leopardi dinanzi alla bellezza della natura spera che la «vita dolorosa e nuda»245 si cangi presto nella morte, Michelstaedter ne sente tutto il “peso”: l’angoscia della fine e la colpa di aver creduto al logos. Egli, infatti, nella parte finale della lirica A Senia scrive:

L’angoscia di non giungere alla vita e di perire dell’oscura morte

te trascinando nell’abisso, Senia, mi prende sì che dubitoso

mi son fatto di me, che non sopporto le mie stesse parole, e di me stesso invincibile nausea m’opprime246.

Le parole, il necessario discorso, la rettorica della vita, non hanno senso alcuno se non rischiarati dalla solitudine; solo in solitudine, infatti, si può accettare la contraddizione della natura, del suo essere, nel medesimo tempo, “dolce” e “terribile”. Ecco perché sia Leopardi, sia Michelstaedter si accorgono della vanità delle speranze, quelle speranze costruite sul logos. I detti nascondono delle insidie mortali perché poggiano, continuano a poggiare, solo ed esclusivamente sul conoscibile247; su quel tratto della realtà illusoria. E allora il tratto

243

G.LEOPARDI, Le Ricordanze, in Canti, vv. 23-24. 244 C.M

ICHELSTAEDTER, Poesie, cit., p. 90. 245 G.L

EOPARDI, Le Ricordanze, v. 26. 246 C.M

ICHELSTAEDTER, Poesie, cit., p. 94.

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della “conoscenza come sapienza” si apre, si dispiega, nella più delle gloriose solitudini, a contatto solo con la natura.

E siamo così arrivati al secondo punto di rottura tra Michelstaedter e Leopardi: se la solitudine leopardiana è inconsapevole – Vaghe stelle dell’Orsa, io non “credea” tornare ancora per uso a contemplarvi -, la solitudine di Michelstaedter è invece ricercata, cosciente, com’è dimostrato in questa strofa:

[…]

Dal commercio degli uomini rifuggo allora alla campagna solitaria o alla mia stanza solitaria e solo tutto in me mi raccolgo; ma nell’aria, nel canto degli uccelli e nell’uguale mormorare dell’acqua, dalle ripe alte del fiume e pur dalle pareti della mia ignuda stanza, a piena voce il tuo nome riecheggia al tuo silenzio, sì che palese a ognuno e manifesta del tutto, al volgo preda senza schermo, parmi l’anima mia nel suo segreto. Ed il sogno che nasce palpitante, la «storia» che non soffre le parole ma vuol essere vissuta, il più profondo e caro senso della vita,

che pur uniti e soli sotto il velo di parole comuni nascondiamo, d’atti comuni, con gelosa cura

nascondiamo a noi stessi, ora del volgo mi par fatto preda contaminata248.

Ancora una volta, e con insistenza sempre maggiore, in Michelstaedter la necessità della solitudine delinea una precisa condizione esistenziale: non farsi soggiogare dalla “rettorica della vita”; dunque non farsi investire da nessun “detto o atto comune”. La stanza “ignuda” diventa, così, il luogo di espropriazione del senso comune; nella stanza, infatti si consuma il silenzio che è in grado di «far riecheggiare il tutto»: la bellezza e il terrore. Ecco perché,

248

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consapevole che il «tutto» rechi con sé «il dolore», la mente solitaria dice, con tutto il suo fare persuaso: «[…] sappi goder del tuo stesso dolore, non adattarti per fuggir la morte; anzi da te la vita nel deserto fatti […]: dalla tua rinuncia rifulgerà il tuo atto vittorioso»249

.

In Michelstaedter si rafforza l’idea che non può esserci scissione alcuna tra “uomo” e “natura”: entrambi sono “finiti” e “infiniti”; entrambi vivono totalmente nel terrore del giorno e della notte, nello spavento ciclico delle stagioni: “morte” e “rinascita”, ma anche “salute” e “malattia”. Anche la natura come l’uomo ha dei limiti costitutivi e anche l’uomo, come la natura, ha una potenza straordinaria. Questa cognizione è segnata a chiare lettere in un’epistola che Egli scrive alla sorella Paula: «il sole per quanto giri non riesce mai a veder la terra di notte, così per te era impossibile veder la nostra vita nella sua ordinaria oscurità poiché la tua presenza doveva costituire la luminosità straordinaria»250.

Ciò a cui fa appello Michelstaedter è una “straordinarietà” che non tocca il suo limite nell’“ordinarietà”: il sole, paradossalmente, è straordinario solo nella sua assolutezza; in relazione alle altre cose, invece, il sole è un ente ordinario perché viene percepito come un’abitudine. Ecco perché la “straordinarietà” di ogni ente si mostra nel momento in cui si spezza ogni nostra «viziata abitudine» e ci si presenta come “il nuovo all’inizio”; solo così, infatti, l’uomo può volare verso “altri cieli”. Ma la frase rilkiana251 si può cogliere solo nel senso di chi è in grado di non irrigidirsi nel limite; Rilke infatti sottolinea che l’avvicinarsi del mistero non si ritrova necessariamente nel nuovo, nel “mai visto”, ma soprattutto in ciò che quotidianamente è sotto i nostri occhi. Questo è il nodo cruciale della filosofia

249 Ivi, pp. 92-93. 250 C.M

ICHELSTAEDTER, Epistolario, cit., p. 408 [lettera n. 159]. 251 Interessante è il saggio di T.H

ARRISON, Persuasive Discord. Michelstaedter in the

Light of Schoenberg, Buber, Rilke, and Lukács, in «Humanitas», LXVI, n.5, cit., pp.

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michelstaedteriana, palesata in una lettera scritta nel 1909 all’amico Gaetano Chiavacci:

Caro Gaetano,

sono qui da 100 ore, e appena mi sto riscotendo dallo stupore, e comincio a sbatter gli occhi, a poter pensare e scrivere, a riadattarmi alle cose di qua, a riprender l’istinto dei gesti, delle abitudini, delle frasi. […] Ti scrivo dal mio tavolo, accanto sono tutti i miei libri, sul sofà dorme papà, fumo il tabacco che mi piace, vedo i rondoni attorno al castello…ma non sono contento affatto – peggio che a Firenze perché non ho più dove desiderarmi. Concludo che è peggio il ritorno che la partenza; questa è una morte semplice, quella una doppia morte. […] quando vidi le Alpi illuminate dai primi raggi del sole, e quando in un paesello a pochi chilometri da Gorizia vidi le operaie friulane, […] quando vidi spuntare il profilo del S. Valentin, e passai l’Isonzo – sentii qualche cosa non so se piacevole o dolorosa, ma così inaspettatamente viva che ancora adesso mi meraviglia – e mi chiedo da dove mi sia venuta e come252.

In questa lettera emerge un paradosso di fondo: la nostalgia – che è per antonomasia il “desiderio” di “ritornare a” uno stato passato – si veste ora per il giovane giuliano di una “negazione” di ritorno al passato. Ma questo “atto di negazione” di Michelstaedter non è un modo per sottolineare la sua infelicità: al contrario, durante gli anni fiorentini, egli anelava a un “ritorno al passato”, tanto da trascorrere i suoi giorni e le sue notti sempre con la speranza di ritornare al “paterno ostello”. Eppure, nel momento dell’“essere lì”, al tanto desiderato luogo, accade uno stravolgimento essenziale: Michelstaedter non sa perché la sua anima pasce di una strana sensazione di indefinibilità. Probabilmente c’è in lui una sorta di mètanostalgia, ossia la nostalgia della nostalgia; il desiderio di anelare sempre alla bellezza o al benessere che manca. Ma è così che

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