C APITOLO S ECONDO
3.1.1. L’ I INGIUSTIZIA
Come anticipato, il parametro dell’ingiustizia rappresenta un filtro che il legislatore del 1942 inserí ex novo nella formulazione dell’art. 2043 c.c., essendo del tutto sconosciuto al codice del 1865 e per la prima volta, timidamente, insinuatosi nell’art. 74 del Progetto di Riforma Italo- Francese del 1927. Elemento necessario, deve sempre essere presente nella verifica dei presupposto del fatto illecito, essendo caratteristica del danno in senso stretto, ma soprattutto fungendo da criterio imprescindibile al fine di verificare il sorgere della responsabilità civile, con la sola eccezione delle ipotesi in cui il danno è definito tale già a priori dal legislatore.197 Molteplici le impostazioni che hanno cercato di analizzare tale criterio, talvolta, come Autorevole dottrina osserva, finendo col sovrapporre il concetto di ingiustizia con quello di danno, fusi in una crasi che rendeva impossibile scindere i due elementi.198 Invero, va posto
197 Cfr. R. Scognamiglio, il quale richiama tale possibilità nei casi in cui il danno riguardi beni o interessi già oggetto di norma di protezione, come avviene nella fattispecie disciplinata ex art. 185 c.p. in relazione alla liquidazione del danno non patrimoniale. In tali ipotesi, infatti, si può concludere che l’antigiuridicità della condotta e la lesione del bene-oggetto giuridico implicano di per sé l’ingiustizia del danno in R.SCOGNAMIGLIO, Ingiustizia del danno e tecniche attributive di tutela aquiliana (le regole della responsabilità civile ed il caso Cir c. Fininvest) in Nuova Giur. Civ. Comm., 2014, II, p. 360.
198 Cfr. in tal senso V. Scalisi il quale sottolinea come nel corso del tempo i due concetti di danno e ingiustizia hanno finito col sovrapporsi, comportando un’interpretazione distorsiva del criterio che argina la clausola generale rappresentata dall’art. 2043 c.c. A ben vedere, però, la visione della duplicità e differenza dei concetti nella visione dell’Autore non comporta l’adesione a quell’orientamento che ravvede nel dettame del codice
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in evidenza che il parametro dell’ingiustizia è stato al centro di un dibattito svoltosi su due distinti piani: dapprima ci si chiedeva se il criterio dell’ingiustizia fosse stato individuato dal legislatore come il filtro idoneo a contemperare la netta atipicità della neofita disciplina dell’illecito aquiliano. A ben vedere, nonostante l’espressa astrattezza della norma sulla responsabilità, infatti, una parte della dottrina sottolineava la ratio tipica della stessa, imponendo come filtro la predeterminazione da parte del legislatore di una serie di posizioni giuridiche tutelate che relegavano la norma a chiusura del IV libro delle obbligazioni a disciplina meramente secondaria e dalla valenza sanzionatoria.199
civile una forma di tutela costitutiva e atipica, conseguente alla violazione del precetto generico di neminem laedere. Per Scalisi, infatti, la disciplina prevista all’art. 2043 c.c. pur fungendo da clausola generale del sistema che necessita del filtro dell’ingiustizia, avrebbe una funzione meramente sanzionatoria e secondaria, il cui valore si esprime nel condannare la lesione di sfere giuridiche considerate a monte dall’ordinamento tutelate, come si evince da uno dei suoi contributi piú mirati sul tema, V. Scalisi, Ingiustizia del danno e analitica della responsabilità civile in Riv. Dir. Civ., 2005, p. 40 ss.
199 La speculazione è certamente interessante: il dettame normativo del codice di epoca fascista si presenta assolutamente onnicomprensivo, prima facie atipico e idoneo a tutelare una moltitudine di ipotesi. Ciò nonostante, nella metà del XX secolo si sviluppò una corrente di pensiero che ravvisava nel concetto di danno ingiusto la chiave di chiusura del sistema, attraverso l’escamotage delle posizioni giuridiche rilevanti da cui poteva discendere il danno risarcibile. Secondo tale visione, infatti, la norma ex 2043 c.c. rivestendo una funzione meramente punitiva e assumendo un valore secondario, non aveva il vigore giuridico di individuare i casi di lesione, ma poteva esclusivamente intervenire in seconda battuta, sanzionando la violazione di una serie di obblighi primari, individuati da altrettanti dettami normativi. Tale concezione, trascinatasi per decenni, viene definitivamente sopita dalla Corte di Cassazione che in occasione della sentenza n. 500 del 1999, chiarisce la portata primaria e atipica del precetto ex art. 2043 c.c. A ben vedere, però, tale provvedimento della Suprema Corte interviene a sugellare e consolidare una posizione che già in dottrina andava cristallizzandosi, sebbene con differenti interpretazioni. Comune alle varie letture che ravvedevano nell’art. 2043 c.c. una clausola generale, atipica ma soprattutto primaria, è rappresentata dalla sua valenza assolutamente elastica in grado di tutelare posizioni differenti, anche se non esplicitamente individuate a priori dal legislatore. Il concetto di ingiustizia assume, pertanto, un ruolo cruciale, idoneo a fungere da spartiacque tra due ipotesi di danno, quello risarcibile e quello giuridico. Solo quest’ultimo assume una pregnanza tale da far sorgere un’obbligazione risarcitoria, il primo, invece, quello risarcibile, rappresenta una mera proiezione astratta del secondo che,
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Successivamente, una volta consolidatasi l’idea dell’elasticità del dettame normativo di cui all’art. 2043 c.c., a lungo ci si è interrogati sugli effettivi contorni del danno ingiusto e su come il concetto di ingiustizia si atteggiasse nel mondo moderno.
Merita di essere richiamata, tra i vari orientamenti dottrinali, una teoria che spiega il concetto di danno ingiusto come lesione conseguente alla contrapposizione tra il permesso e l’obbligo:200 si tratta di un’impostazione che ravvede nel permesso la sussistenza di un potere di agire e fare, mentre nell’obbligo, sia con valenza positiva che negativa, riconosce il dovere di tenere o non tenere un comportamento. Da tale dicotomia emerge un conflitto tra due posizioni giuridiche, rispettivamente riconducibili alle figure del danneggiato e del danneggiante e comportando in capo a quest’ultimo un’obbligazione di risarcimento del danno solo qualora la lesione arrecata si riveli ingiusta201.
proprio grazie al filtro della ingiustizia, viene valutato. Da tale comune presupposto, però, muovono due distinte correnti, la prima che attribuisce al giudice la funzione di valutare e vagliare il conflitto tra le due posizioni giuridiche, attribuendo all’autorità giudiziale una funzione creatrice, visione questa cara a S. Rodotà, precursore di tale idea, fermamente convinto che l’ingiustizia necessita una verifica concreta e non solo astratta. In opposta direzione si sviluppò l’idea di quanti alla atipicità del precetto normativo avvicinavano una concezione di disequilibrio tra posizioni giuridiche risolvibile a priori con l’ausilio del legislatore, il quale, però, lungi dall’essere un mero arbitro, attraverso l’individuazione di concetti assiologici e princípi, si rivelava in grado di imbrigliare a priori il giudice designato, la cui valutazione, quasi obbligata, non sfociava in una revisione normativa del sistema. Per delineare meglio il dibattito cfr. S. Rodotà, R. Scognamiglio, contra M. Barcellona.
Ancóra per una visione d’insieme A.THIENE, Rimedio risarcitorio e condotta del danneggiante: tramonto o riscoperta dell’ingiustizia del danno? in Nuova Giur. Civ. Comm., 2002, II, p. 205 ss.
200 In tal senso ex multis vanno prese in prestito le speculazioni di M. Barcellona, il quale esplicitamente prende le distanze da quanti riconducevano l’ingiustizia del danno alla sussistenza di una posizione giuridicamente rilevante coadiuvata dalla presenza di una componente psicologica particolarmente accentuata idonea a colorare la condotta vietata. L’Autore palesemente sostiene che tale impostazione sia frutto di un frequente errore, in quanto non in grado di spiegare la bilateralità che denota il requisito dell’ingiustizia.
201 All’idea di conflitto fa richiamo anche V. Scalisi, il quale lamentando la sempre piú frequente assimilazione dell’ingiustizia al danno, che la rende un inutile doppione, ravvede la necessità di vagliare differenti opzioni speculative per individuare l’effettiva valenza dell’ingiustizia. Essa si rivela il vero discrimen in grado di
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Riaffiora, quindi, il parametro dell’ingiustizia all’interno di tale disequilibrio che va ricondotto alle ipotesi di asimmetria202 tra il permesso di agire e il dovere di astenersi: in una simile lettura il danno meramente economico, manda in tilt la struttura dell’illecito aquiliano, mancando a priori una situazione legittimante in grado di consolidarsi, prima del danno, come meritevole di tutela. Nel corso degli anni ‘80 la mancata corrispondenza tra “danno giuridico” e “danno meramente patrimoniale” fa vacillare il concetto dell’ingiustizia, che non incontra come presupposto principale la spettanza del valore del bene leso dal danneggiante,
valutare la corretta allocazione del danno. L’Autore parla di “zona di efficacia del fatto illecito”, come se l’ingiustizia e la sua presenza comportasse il dispiegamento dell’effetto in concreto della situazione che vedeva già netto il danno ma non l’insorgere dell’obbligazione risarcitoria. A differenza di quanto dettagliatamente analizza M. Barcellona, però, V. Scalisi focalizza un conflitto tra una moltitudine di interessi in cui anche la eventuale sussistenza della causa di giustificazione con comporta automaticamente la condotta nell’area del lecito, essendo ben possibile che l’autore del danno ecceda nell’esercizio del diritto che gli viene garantito dall’ordinamento. Cfr. V.SCALISI, op. cit., p. 48 ss.
202 Invero, l’Autore distingue situazioni giuridiche simmetriche e situazioni giuridiche asimmetriche, solo in queste ultime ipotesi si presenta un vero e proprio conflitto che va bilanciato facendo ricorso alla verifica della sussistenza dell’ingiustizia. Al primo àmbito sono riconducibili, infatti, molteplici situazioni in cui la relazione si instaura tra un soggetto e un bene corporale, una res materiale insomma, che comporta l’insorgere di un rapporto di esclusività. Esempio palese è rappresentato dalle varie forme di diritto reale in cui il proprietario vanta un diritto assoluto a cui corrisponde, specularmente, un dovere di astensione riconducibile in capo alla moltitudine dei consociati. In tal caso non vi è conflitto: la violazione del dovere di astensione procura un danno e implica l’insorgere di un’obbligazione risarcitoria. Diverso la situazione qualora non vi sia un bene materiale ma il soggetto danneggiato si mostri titolare di una posizione tutelata o un rapporto giuridico con una res immateriale: in un simile contesto ciò che va verificato è se la sua sfera giuridica sia stata ingiustamente pregiudicata oppure se la condotta altrui, posta in essere sulla base di un diritto equamente esercitato, non sia connotata dal requisito dell’ingiustizia. Tale verifica è possibile ricordando la distinzione tra conflitti occasionali e conflitti modali, i primi frutto di una situazione concreta che pone difficoltà di coordinamento tra reciproci permessi e obblighi; i secondi conseguenza dell’erroneo esercizio da parte di uno dei soggetti che proprio diritto, posto in essere nel modo sbagliato. Per ulteriori approfondimentiM.BARCELLONA, op. cit., p.
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mancando il bene in re ipsa, ma concretandosi la lesione esattamente nel medesimo momento in cui il bene si palesa nel mondo giuridico.203
Tale distonia comporta una rilettura del concetto di interesse rilevante, non piú inteso sotto un profilo meramente statico, quanto in una prospettiva dinamica, complessa e composta non solo dallo status del bene in sè, ma anche dal contesto in cui lo stesso si presenta, soprattutto in virtú della tutela che l’ordinamento riconosce a quel determinato bene nella specifica situazione.
Alla teoria che riconduce alla valenza sottesa al bene leso da parte del danneggiante la funzione di discrimine per la sussistenza del requisito dell’ingiustizia si contrappone l’orientamento di coloro i quali al connotato dell’ingiustizia attribuiscono una valenza bilaterale, che come anticipato pocanzi, emerge chiara da due posizioni in conflitto.204
203 Il rinvio è qui chiaro alla questione De Chirico, - Corte Cass., III Sez. Civ., 4 maggio 1982 n. 2765 in Giust.
Civ., 1982, II, 1745, con nota di A.DI MAJO, Ingiustizia del danno e diritti non nominati - che negli anni ottanta ha destato grande clamore e scalpore, proprio in ragione della funzione creatrice, seppur ai limiti della norma positiva da parte della Corte di Cassazione che per la prima volta riconobbe il risarcimento in caso di lesione all’integrità del patrimonio. Viene ad esistenza il danno meramente patrimoniale, sconosciuto alla dottrina e alla giurisprudenza, o forse non ritenuto rilevante sic et sempliciter, vista l’assenza di una posizione giuridica rilevante preesistente alla dinamica lesiva. Secondo Autorevole dottrina tale interpretazione estensiva è strettamente collegata all’astrattezza assoluta che connota il precetto di cui all’art. 2043 c.c. La mancanza di un’esplicita tassatività e il generico filtro dell’ingiustizia sarebbero state le ragioni in virtú delle quali la Corte Suprema non avrebbe incontrato ostacoli nell’espandere a tal punto le maglie dell’illecito aquiliano. Cfr. G.
PONZANELLI, Il risarcimento del danno meramente patrimoniale nel diritto Italiano in Danno e Resp., VIII-IX, 1998, p. 729 ss. A ben vedere una simile voce di danno non è stata ben recepita dalla dottrina maggioritaria che, da sempre intenta a trovare una precisa ratio alla responsabilità civile, si ritrova senza un supporto logico sufficiente e idoneo a sostenere una simile forma di pregiudizio. Ex multis, C. CASTRONOVO, La nuova responsabilità civile, Milano, 1991; V.CARBONE, I De Chirico di De Chirico- il commento in Corr. Giur., 1989, VIII, p. 860 ss. Per una ricostruzione della figura si tenga, inoltre, conto dell’opera di M. MAGGIOLO, Il risarcimento della pura perdita patrimoniale, Milano, 2003.
204 Tale visione viene proposta da M. Barcellona, che ponendo in relazione due soggetti, il danneggiato e il danneggiante, si interroga sull’effettiva presenza dell’ingiustizia che può evincersi tanto nel campo virtuale che
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Il concetto di ingiustizia, infatti, si dispiega in una duplice prospettiva, la prima virtuale, cioè riconducibile all’attribuzione del valore distrutto da colui il quale ha subíto la lesione e dunque la perdita; ma anche da un profilo squisitamente concreto, che impone una seconda verifica finalizzata al riscontro della sussistenza di una posizione lecita del presunto danneggiante. In altri termini: la mera sussistenza della lesione e il diritto ad ottenere un risarcimento del danno non sono presupposti legati da un vincolo di reciprocità, dovendo interagire anche con un ulteriore elemento, quello dell’accertamento di un obbligo riscontrabile in capo al danneggiante. Solo in tale ipotesi il danno potrà essere definito ingiusto, mentre qualora al danneggiante sia riconducibile una posizione di permesso, che lascia presumere un potere sul bene, l’esercizio del medesimo non sfocia nel connotato dell’ingiustizia, impedendo il sorgere di un obbligo risarcitorio a favore del soggetto leso. In una simile prospettiva assume valore significativo la ulteriore distinzione tra risarcimento e indennizzo, che si presenta come lesione ma scaturente da atto lecito o in qualsiasi modo autorizzato dall’ordinamento.205
nel campo concreto. Non basta il mero pregiudizio arrecato, ma è necessario che lo stesso non corrisponda ad un permesso del danneggiante, confluendo dunque nella condotta non antigiuridica. Secondo tale lettura il danno meramente patrimoniale sarebbe riconducibile ad un’ingiustizia presente solo sotto un profilo virtuale, non riscontrabile anche nella realtà concreta. Ovviamente emerge chiara, a questo punto, la prospettiva di analisi dell’autore e la diffidenza dello stesso nei confronti di tale forma particolarmente atteggiata di lesione, invero, poco apprezzata dalla dottrina e sviluppatasi nelle aule di tribunale.
205 Giova aderire a quell’impostazione che definisce la responsabilità civile un istituto che va ben oltre i soli confini dell’illecito: il concetto di danno ingiusto, fulcro del sistema risarcitorio, infatti, si palesa sia nelle ipotesi di attività antigiuridica posta in essere dal danneggiante, quanto nelle manifestazioni di attività lecite, che implicano, ciononostante, la lesione della sfera giuridica di un soggetto distinto da colui il quale pone in essere l’azione. La inopportuna sovrapposizione di concetti quali: risarcimento, indennizzo e indennità ha finito con il confondere il giurista, poco disciplinato nell’individuare i confini di tali distinte categorie. Non va certamente, trascurato che il discrimen tra le due fattispecie non è riconducibile alla mera condotta, quanto piuttosto alla diversa valutazione del danno che ne consegue anche le finalità appaiono distinte, basti pensare che ai canoni di danno emergente e lucro cessante che intervengono in caso di risarcimento, si contrappone un generico obbligo di ristabilire l’equilibrio patrimoniale che caratterizza l’istituto dell’indennizzo. Per ulteriore
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Tale teoria della bilateralità, a ben vedere sviluppata e nota in dottrina, non ha trovato grande riscontro e considerazione da parte della giurisprudenza e poiché, come taluno asserisce206, protagonista nel settore della responsabilità civile non può che essere il giudice, indiscusso punto focale dello sviluppo teoretico e pratico, non si può trascurare il punto di vista della giurisprudenza di legittimità, che proprio in merito alla definizione di ingiustizia si è espressa qualche decennio fa, ormai, comportando una rilettura complessiva della disciplina e degli elementi che la connotano.
L’approccio sistematico ed etimologicamente ineccepibile fa riferimento al concetto di lesione ingiusta nella sua accezione di danno ingiustificato: il richiamo è all’equilibrio che sussiste tra esercizio di un diritto e causa di giustificazione, qualora l’attività sia comune a due soggettivi che rivestono posizioni antitetiche. La Corte di Cassazione,207 in tale occasione
approfondimenti cfr. P.PERLINGIERI, La responsabilità civile tra indennizzo e risarcimento in Annali della Fac.
Di Benevento, 2006, X, p. 235 ss.
206 Tale affermazione è riconducibile a F. Galgano, il quale affermava con vigore la funzione nevralgica dell’organo giudicante nel settore della responsabilità civile e del risarcimento del danno. L’Autore sostiene che la valenza di clausola aperta, generale, rappresentata dall’art. 2043 c.c. pone il giudice in una posizione particolarmente atteggiata, che sembra colorarsi di un potere nuovo, per lo piú equitativo e non di mero esecutore della norma positiva. Certamente la componente creativa della giurisprudenza in tale settore non può essere negata, basti pensare alle evoluzioni che nel tempo si sono succedute in grado di identificar sempre diritti
“nuovi”, che meritano tutela in caso di lesione. Cfr.F.GALGANO, La commedia della responsabilità civile, in Riv. Crit. Dir. Priv., 1987, I, p. 192 ss. Di medesimo avviso, inoltre V. Scalisi, il quale riconosce alla giurisprudenza una funzione creatrice quasi in àmbito di risarcimento del danno, cfr. Ex multis, Regola e metodo del diritto civile della post-modernità in Riv. Dir. Civ., 2005, I, p. 283.
207 La sentenza in questione è la n. 500 del 1999, in occasione della risoluzione di un conflitto di giurisdizione la Corte di Cassazione stabilisce una rilettura forte dell’intero istituto della responsabilità civile e del dettame previsto all’art. 2043, norma riconosciuta come primaria e con una funzione di clausola generale di sistema.
Tale disciplina ha la ratio di apprestare adeguata tutela ad una lesione ingiusta, il requisito dell’ingiustizia, infatti, viene trasposto dalla condotta al pregiudizio che, ingiustificato, fa sorgere l’obbligazione risarcitoria in capo al danneggiante. In tal senso si esprime anche A. Fucci, che riprende l’impostazione secondo la quale il danno di chi parla l’art. 2043 c.c. non fa riferimento al danno ingiusto, bensì al danno risarcibile. La differenza
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emana una delle sentenze che hanno segnato il passaggio da una concezione ancillare dell’art.
2043 c.c., il cui valore veniva considerato secondario e meramente programmatico, ad una posizione primaria nell’àmbito del risarcimento del danno, rafforzata da una funzione immediatamente precettiva, non piú attuativa di comandi e divieti violati, ma in grado, essa stessa, di imporre il rispetto del generico princípio del neminem laedere.
La sentenza a Sezioni Unite 500 del 1999 descrive una disciplina dell’illecito aquiliano che viene chiamata in causa qualora la condotta, colposa o dolosa, abbia arrecato al danneggiato una lesione contra ius, quindi contro una posizione soggettiva meritevole di tutela,208 e non iure, cioè non speculare ad alcuna ipotesi di causa di giustificazione, prevista dall’ordinamento e avente valore sistematico.
Punto focale di tale lettura del parametro dell’ingiustizia era il bilanciamento del requisito dell’atipicità dell’onere del neminem laedere con la tipicità del novero della causa di giustificazione, previste dall’ordinamento e tassativamente elencate.
sarebbe riconducibile proprio alla sussistenza del duplice valore non iure e contra ius che la Corte di Cassazione ha sottolineato piú volte, in senso conforme anche Corte Cass. n. 9345 del 17 maggio 2004; Ss. Uu. n. 19200 del 24 settembre 2004; Corte Cass. n. 14629 del 10 ottobre 2000. Cfr. A.FUCCI, Il danno ingiusto alla luce della sentenza n. 500/1999 della Cassazione in Resp. Civ., 2005, p. 514 ss.
208 A ben vedere, la componente di originalità della sentenza 500/99 è riconducibile proprio alla rilettura dell’elemento contra ius: la tradizionale impostazione, infatti, interpretava tale inciso come riconducibile solo ed esclusivamente alle posizioni di diritto soggettivo, lasciando prive di tutela interessi legittimi e aspettative di diritto, il che non sembrava preoccupare piú del dovuto quanti affermavano che la posizione di interesse legittimo fosse sufficientemente tutelata con il rimedio caducatorio dell’annullamento del provvedimento amministrativo lesivo della sfera giuridica del privato. L’evoluzione del diritto amministrativo e il diffondersi della dicotomica proiezione del concetto di interesse legittimo non solo oppositivo, ma anche pretensivo, palesavano l’insufficienza della tutela amministrativa dell’annullamento, non sussistendo nella maggior parte delle ipotesi di contenzioso avente ad oggetto un interesse legittimo pretensivo un atto amministrativo da impugnare. In una simile situazione il solo rimedio efficace si presentava la tutela risarcitoria, che però, in ragione della restrittiva lettura del criterio dell’ingiustizia espresso nell’art. 2043 c.c. e riconducibile ai soli diritti soggettivi, lasciava privi di protezione gli interessi legittimi vantati dai privati nei confronti della Pa.