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Se il dibattito oltreoceano sembra essere per lo più dominato dagli approcci sopra presentati, in Europa pare che la questione migratoria non sia ancora stata indagata ad un livello così approfondito da permettere lo sviluppo di un corpus teorico alternativo a quello statunitense (Schneider e Crul 2010). Detto che anche nel contesto europeo le teorie assimilazioniste (in particolare quella dell’assimilazione segmentata) hanno riscontrato un notevole successo, tanto che diversi studiosi hanno tentato di applicarle ai fenomeni migratori relativi al Vecchio Continente, il problema principale che sembra emergere è la mancanza di una base teorica ed empirica forte e non ristretta all’interno dei singoli confini nazionali.

Il concetto di integrazione pare essere quello maggiormente in grado di cogliere il duplice movimento, di apertura e reciproca inter-penetrazione, a cui sono chiamati sia la società ricevente sia chi arriva dall’esterno, sottolineando le responsabilità

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della prima e allo stesso tempo l’autonomia decisionale dei secondi (Ambrosini 2007). Tali tratti sono stati peraltro evidenziati, nel contesto italiano, dalla Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati nel 2000, la quale ha definito l’integrazione come “un’interazione positiva basata sulla parità di trattamento e sull’apertura reciproca tra società ricevente e cittadini immigrati”. Tale interazione, come evidenziato da Entzinger e Biezeveld (2003), si svolgerebbe almeno su due diversi piani: uno più istituzionale, relativo all’effettiva partecipazione degli immigrati al sistema educativo e a quello lavorativo all’interno della società di destinazione, e uno maggiormente normativo, correlato ai cambiamenti negli orientamenti culturali ed identificativi. Riprendendo le parole di Robinson (1998, p.118), “quello di integrazione è un concetto caotico: una parola usata da molti ma percepita in maniera differente dai più (…) È un concetto individualizzato, contestato e contestuale”. Allo stesso modo, Castels et al. (2001, p.12) sottolineano che “non esiste una singola e generalmente accettata definizione, teoria o modello di integrazione dei migranti. Il concetto continua a rimanere controverso e oggetto di accesi dibattiti”.

Non sono tuttavia mancati tentativi di sviluppare impianti teorici che potessero fornire una possibile chiave di lettura per approfondire i diversi esiti di tale processo. Tra questi, di una certa rilevanza è stato lo sforzo effettuato da Ager e Strang (2008) i quali, partendo da un lavoro primariamente volto all’analisi dell’integrazione dei rifugiati, ma arrivando a formulazioni teoriche estendibili al più esteso gruppo dei migranti, hanno fornito una struttura concettuale coerente all’analisi del fenomeno, identificando dieci ambiti fondamentali. Per ragioni di sintesi non ci si soffermerà a lungo sulla loro formulazione teorica: basti qui sottolineare che il livello educativo viene considerato, al pari del contesto

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lavorativo, delle condizioni abitative e dello stato di salute, come indicatore (ma anche mezzo) di piena integrazione. L’intero modello si fonda però su un concetto ben preciso, quello della cittadinanza e dei diritti ad essa collegati: le modalità tramite cui la cittadinanza viene riconosciuta influenzerebbero inevitabilmente il senso identitario dei nuovi arrivati e, allo stesso tempo, la definizione di integrazione stessa. Tra il principio di cittadinanza e gli indicatori di integrazione prima elencati, però, sono presenti due tipi di processi che formerebbero il tessuto connettivo tra i primi ed i secondi: da una parte i facilitatori (la conoscenza della lingua e della cultura diffusa nel contesto di approdo e la percezione di sicurezza), che possono allo stesso tempo costituire una barriera ad una piena integrazione; dall’altra il ruolo dei legami sociali tra i migranti e gli altri membri della comunità in cui questi si trovano inseriti. Tali relazioni vengono analizzate, con riferimento alle prime formulazioni del concetto di capitale sociale (Putnam 1993; Woolcock 1998), in termini di vincoli sociali (social bonds) con il gruppo famigliare e la comunità di riferimento, di ponti sociali (social bridges) con le altre comunità, di legami sociali (social links) con gli apparati statali.

Uno dei più recenti e sofisticati sforzi di elaborazione teorica è quello messo in atto da Hartmut Esser (2010), il quale ha tentato di sviluppare un modello in grado di trascendere le singole realtà nazionali, così da comprendere i meccanismi sottostanti i diversi esiti dei processi di integrazione a lungo termine. Tale modello, detto dell’integrazione intergenerazionale, si fonda sull’assunto per cui il processo di integrazione sociale dei primi migranti e dei loro discendenti dipenderebbe dalla combinazione di un set limitato di variabili fondamentali. Sinteticamente, il modello individua due opzioni di base disponibili per i migranti: investire le proprie risorse nell’integrazione all’interno della società di arrivo o, al contrario, investirle

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in attività radicate nei Paesi di provenienza (o in ambiti co-etnici). Per spiegare le ragioni alla base di tale decisione, Esser si rifà, come regola generale, alla “teoria dell’utilità attesa”: i soggetti, dopo aver pesato vantaggi e svantaggi delle diverse alternative, opterebbero per quella che ritengono più vantaggiosa. La decisione presa dai singoli viene vista come una sorta di investimento: quando i migranti arrivano nel Paese di destinazione, infatti, sono già in possesso di differenti tipi e livelli di capitale (culturale, sociale ed economico), che spesso risultano però insufficienti, in quanto legati a contesti specifici. Una prima soluzione adottabile sarebbe quindi quella di un forte investimento in un capitale utilizzabile nella società di approdo (tramite l’apprendimento di una seconda lingua, la formazione di alte aspirazioni educative, la creazione di relazioni inter-etniche): in questo caso, se gli investimenti risultano certi, i risultati non lo sono affatto. L’opzione alternativa si risolve invece in un mantenimento del capitale già a disposizione, senza alcun re- investimento: in questo caso i costi di investimento risultano pressoché nulli ma il possibile guadagno si rivela chiaramente inferiore rispetto a quello della prima opzione.

Come puntualmente sottolineato da Mantovani e Sciortino (2010), il modello intergenerazionale proposto da Esser ha indubbi vantaggi: partendo da una consistente base teorica, permetterebbe innanzitutto di applicare il modello anche a contesti differenti rispetto a quello statunitense. Permetterebbe poi di considerare le influenze esercitate dal livello macro su quello micro e viceversa, in una correlazione circolare e continuativa: le caratteristiche strutturali dell’ambiente sociale influenzerebbero infatti la scelta dei singoli individui in merito allo specifico pattern d’azione da adottare, la quale (scelta) andrebbe ad influenzare a sua volta i meccanismi collettivi a livello sociale.

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Tuttavia, un’interpretazione delle singole azioni dei soggetti tramite la teoria dell’utilità attesa pare essere in aperta contraddizione con le più recenti tendenze interpretative dei processi decisionali individuali fornite dalla psicologia. A questo si deve poi aggiungere che secondo il modello di Esser, in assenza di benefici percepiti, i migranti non sarebbero motivati a investire in strategie volte ad un’assimilazione nella società mainstream. Questo non significa però che, per inerzia, i migranti siano portati a gravitare attorno alle reti etniche di provenienza: la partecipazione ad un qualsiasi gruppo, sia esso etnico o meno, richiede comunque notevoli investimenti personali. E questo aspetto non sembra essere sufficientemente approfondito nel modello presentato. Allo stesso tempo non viene data la necessaria rilevanza alla percezione che i singoli soggetti hanno della loro esperienza migratoria: i luoghi di provenienza, le interpretazioni delle migrazioni ad essa associati e le singole storie di vita conferiscono significati peculiari a tali esperienze, che non possono essere tralasciati (Mantovani e Sciortino 2010). In definitiva, se l’adozione del modello interpretativo intergenerazionale di Esser permette di utilizzare una chiave di lettura onnicomprensiva e adattabile a diversi contesti, allo stesso tempo richiede di aderire a quel modello teorico della scelta razionale che, non tenendo conto delle reali condizioni biografiche e sociali dei migranti, non pare essere il più adeguato.

Nonostante il considerevole aumento della mole di studi e ricerche volte a specifici contesti e gruppi nazionali, risulta quindi evidente una mancanza di concetti e indicatori teorici e metodologici condivisi. Nel contesto europeo, il termine integrazione pare in definitiva avere lo stesso significato del termine assimilazione, almeno nelle sue accezioni più recenti, e con particolare riferimento agli aspetti culturali (Schneider e Crul 2010). Ecco perché, anche all’interno di questo lavoro di

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ricerca, i due termini possono essere intesi quasi come sinonimi, andando a tratteggiare processi di cambiamento multidimensionali e multidirezionali che, da un lato, non precludono alla popolazione migrante il mantenimento di diversi aspetti della propria cultura mentre, dall’altro, considerano la società ricevente in grado di accogliere e riconoscere la diversità.

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