In seguito alla lettura dei testi editi da Apogeo sulla consulenza filosofica e riflettendo sulle considerazioni di Ran Lahav sulla psicoanalisi e sul tentativo di “de-psicologizzare il principio dell’interpretazione della visione del mondo”, mi è sembrato opportuno a questo punto esaminare l’impostazione fenomenologico esistenziale per coglierne le similitudini e le divergenze, ove siano riscontrabili, con la consulenza filosofica.
L’impostazione fenomenologico-esistenziale dei problemi psicopatologici, alla quale con accenti e derivazioni culturali diversi si rifanno molti degli studiosi contemporanei di psichiatria, ha avuto la sua formulazione più completa e la sua metodologia più coerentemente nella dottrina “antropoanalitica”, nata con l’opera di Ludwig Biswanger, psichiatra svizzero. La dottrina antropoanalitica, se ha i suoi presupposti in una lunga serie di pensatori si rifà specificamente alla fenomenologia di E. Husserl e soprattutto all’esistenzialismo di M. Heidegger: è l’incontro con il pensiero di Heidegger a fornire a Binswanger il fondamento ontologico del nuovo metodo di studio di psicopatologia. Gli enunciati basilari sono quelli relativi alla situazione umana come un “essere-nel-mondo” e un “essere- gli altri”; i vari modi del poter essere nel mondo e con gli altri, nei quali l’uomo può perdersi o conquistarsi, possono essere esaminati e compresi solo nel contesto totale della sua situazione vissuta. La corrente di pensiero fenomenologico-esistenzialista intende cioè rivolgersi all’uomo come soggetto del suo mondo, al suo essere “persona” e non “cosa”, mettendo da parte ogni reificazione dello psichico in attività o funzioni, prescindendo da ogni sua riduzione a un modello (ad esempio quello istintuale del pensiero freudiano), ma sforzandosi di apprendere l’uomo (sano o malato) nella sua globalità, come fenomenicamente si dà e si presenta nella sua esistenza; l’uomo in definitiva quale egli è, al di fuori di ogni interpretazione scientifico-naturalistica e in particolare casualistica. Lo studio fenomenologico-esistenziale si propone cioè di illuminare le forme, le inderivabili modalità dei possibili mondi o progetti dell’esistenza, evitando scrupolosamente ogni loro interpretazione meccanicistica o psicologistica, ogni loro scomposizione oggettivizzante. Da questo punto di vista le turbe psicopatologiche non sono distinguibili come tali, essendo completamente estranea alla visione antropofenomenologica la distinzione fra salute e malattia
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mentale: le stesse psicosi vengono ad apparire non già delle deviazioni dalla norma, ma delle particolari modalità del possibile dell’uomo.
Da un lato quindi viene rifiutato il modello conoscitivo della scienza naturalistica che considera il fenomeno mentale alla stregua di qualsiasi oggetto di possibile conoscenza, dall’altro si tende a superare il puro “soggettivismo” di una fenomenologia che si concentri esclusivamente sull’esperienza vissuta del soggetto da esaminare. Si è visto infatti come il tentativo di comprendere-rivivere, con il più caldo sforzo affettivo di partecipazione, le esperienze altrui, si arresti rapidamente nell’analisi delle esperienze psicotiche di fronte a un limite, quello dell’ “incomprensibile” appunto. La risposta delle metodiche antropoanalitiche è che occorre rivolgere l’attenzione non all’attività psichica analizzata quale oggetto, né alla soggettività pura di chi quell’attività psichica esperisce, ma alle maniere con le quali l’uomo di fatto si realizza nel rapporto Io-Mondo, a come si rivela in questo progettarsi; alle “essenze” inderivabili dei modi di essere nel rapporto con le cose e con gli altri. Allo sforzo di “calda” comprensione come momento essenziale della psicopatologia come momento essenziale della psicopatologia si contrappone il “freddo e neutrale” lavoro di illuminazione dei modi dell’esistenza, che non conosce limiti fissati dal patologico e pertanto può farci cogliere il senso umano di quei modi o progetti di esistenza che costituiscono le malattie mentali. La strada per coglierli è un’indagine sul “chi è”, “come è” e il “mondo in cui è” un determinato uomo, attraverso un’analisi di tutti le sue manifestazioni e in particolare del linguaggio: del linguaggio non tanto come contenuti ma come tipo di linguaggio esprimente un certo modo di esistenza. Attraverso questa analisi si delineano degli aspetti costitutivi dell’esistenza individuale, in ognuno dei quali essa compiutamente si rivela: sono gli aspetti della temporalità, della spazialità della materialità, del movimento, etc. Nei possibili modi dell’esistenza non ha senso una distinzione fra “normali e anormali”: ogni modo ha in sé la sua norma e il suo significato. Un tema tuttavia ricorre di continuo nel discorso antropofenomenologico: quello della “autenticità” e “in autenticità”, quello della “ricchezza” e “povertà” dei diversi modi di essere (tipica la contrapposizione binswangeriana tra il “mondo di essere nell’amore” e il “mondo di essere della preoccupazione”), ordinati secondo la pienezza e l’autenticità della coesistenza che permettono, correlati “alla maggiore o minore libertà” il “poter essere”, “avere il permesso di essere” e “essere costretto ad essere”; si potrebbe anche dire che le configurazioni dell’alienità sono delle testimonianze estreme dell’essere costretto ad essere. Ciò nonostante anche l’alienato non cessa per questo di rivelarsi come una umana presenza che “progetta un mondo”: “mondo”, chiuso, oppositivo,
oppressivo, negatore, vanificatore ma pur sempre “un mondo”. Di questi mondi psicotici la psichiatria fenomenologia-esistenziale ha allargato la nostra comprensione in quanto appunto possibilità di umana esistenza; di essi attraverso i contributi dei suoi più geniali rappresentanti ci ha dato delle descrizioni di rara penetrazione, che largamente informano il modo di vedere le psicosi della psichiatria odierna. Dai contributi dei precursori fino alla notissima descrizione di D.Laing della condizione esistenziale di “insicurezza ontologica”, noi tutti siamo debitori al pensiero fenomenologico-esistenziale di una maggiore possibilità di capire il modo di porsi dello psicotico, di una maggiore disponibilità al rapporto con lui come persona, di una accresciuta resistenza alla tentazione di una connotazione squalificante dei modi di essere psicotici, di una accresciuta diffidenza verso semplicistiche spiegazioni causali naturalistiche. Tuttavia esistono certamente dei limiti e dei pericoli insiti in questo tipo di approccio alla psicopatologia ben evidenti in certe assolutizzazioni estreme di questa corrente di pensiero. Tutto quello che si può sapere sulla psicopatologia della schizofrenia, ha scritto R.D. Laing, sono tutti modi per non capire uno schizofrenico. Ritorna in maniera emblematica, il discorso sul sapere scientifico come “cosificante” e “alienante”: il rifiuto del sapere scientifico si configura come difesa della persona.
Sullo sfondo della discutibile identificazione fra “oggettivazione” in sede conoscitiva ed essere “ridotto a oggetto” in sede morale e socio-economica, attraverso l’aspirazione all’esperienza immediata e non inficiata da strumenti concettuali, la corrente esistenzialistica in psicopatologia rischia di perdersi nell’irrazionale, finendo per rifiutare non soltanto certi usi e certe modalità sorpassate di conoscenza scientifica, ma la conoscenza scientifica di per sé; finendo per vanificare non un certo tipo e una certa gestione della psichiatria, ma la psichiatria in sé. In effetti il rischio del pensiero esistenzialista è di essere la negazione della scienza come metodo di conoscenza, ritrovando la validità reale unicamente in tutte le strutture ontologiche definibili come “possibili” e “ inderivabili”: il criterio di “possibilità di essere” viene assunto a unico dato reale, concreto, e soverchia qualsiasi possibilità di conoscenza logico-obbiettiva.
Tra la psicanalisi di S. Freud e l’analisi antropo-fenomenologica (o antropoanalisi) di L. Binswanger non si deve pensare che si inscrivano in una reciproca e insanabile contrapposizione, e meno ancora che il secondo sia una specie di contraltare del primo. Occorre dir subito che mentre la psicanalisi è soprattutto un metodo di psicoterapia e ha dunque per scopo fondamentale la “salute” dei pazienti, l’antropoanalisi invece ha precipuamente lo scopo di approfondire l’essenza fenomenologia e antropologica dei sintomi, delle sindromi e dei quadri
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della psicopatologia e della clinica psichiatrica (senza per questo escludere eventuali sviluppi verso una metodologia terapeutica che la sua stessa apertura verso l’ “umano” sembrerebbe additare).
Del resto l’antropoanalisi non è in opposizione con alcuna teoria; è prima di qualsiasi teorizzazione discorsiva nel piano di questa o di quella ipotesi di lavoro; riconosce come valido per il suo metodo un solo principio teorico e cioè di essere, appunto, ateoretica. Essa è nata soprattutto dal profondo bisogno del suo instauratore di approfondire il significato e la validità del comprendere in psicopatologia, di fare – per così dire – pulizia in quel cumulo caotico di indirizzi, di nozioni e di dati fattuali che costituiscono l’alienistica, ove vengono a trovarsi l’uno accanto all’altro, o peggio, l’uno sopra l’altro senza che alcuna omogeneità leciti il loro affiancamento o la loro sovrapposizione, insomma senza che alcun principio ordinativo li inquadri. Il pensiero di Binswanger si è costruito di fronte alle teorie psichiatriche, e in particolare alla teoria psicoanalitica. Bisogna dir subito dal freudismo – inteso, piuttosto che come teoria, come pratica analitica – egli ha attinto sollecitazioni decisive. Si chiedeva Binswanger quale mai era l’uomo di Freud. E rispondeva: è l’homo natura. Aver additato questa concezione dell’umano è stato un grande merito del creatore della psicoanalisi, che difese poi a oltranza questa sua idea-base con quella forza e con quell’indomabile convincimento che tutti sanno. È singolare è non senza significato che questo freudiano homo natura sai apparso in piena luce così tardi nella storia della cultura, dopo che per secoli e secoli il pensiero teologico aveva imposto la concezione dell’homo
aeternus aut caelestis e il pensiero filosofico, ormai nella pienezza dei
tempi, quella dell’homo universalis, di cui Leonardo e Goethe furono espressioni massime. In un incontro a Vienna nel settembre 1927 – che Binswanger ha rievocato come estremamente indicativo – Freud ebbe a dirgli: “L’umanità è stata fino troppo informata di avere lo spirito; dovevo pur mostrarle che essa ha degli istinti!”. Per Freud però questa istintualità è l’autentica realtà psichica; il resto è epifenomenico camuffamento. È nella libido che bisogna cercare la veridicità, la sincerità e la genuinità dell’uomo. Il suo metodo infatti non è che una tecnica di smascheramento di che cosa sia “realmente” l’uomo. Questo smascheramento porta invariabilmente Freud alla conclusione che l’uomo è la sua natura, quella natura che la società, in cui l’individuo vive, condanna come male. Benché la naturalità dell’uomo di per se stessa sia prima della morale (e, in questo senso amorale), diventa condannabile come colpa, peccato proprio nello scontro colla società. Il “male” dunque è per Freud il positivo, il “bene” è la maschera che la società esige dall’individuo per dargli il consenso di venire accolto nel suo seno. Ora l’homo natura di Freud non è un uomo reale, è una idea,
una particolare concezione dell’uomo; è il risultato di un ripensamento secondario e riduttivo dell’essere-uomo. Uno dei punti deboli della dottrina freudiana è appunto questo: di aver ritenuto questa idea, in definitiva astratta come la realtà stessa dell’uomo. Infatti con la naturalità umana così postulata noi non ci scontriamo direttamente mai; per raggiungerla bisogna tradurre la storia dell’uomo in “storia” naturale. È questa nozione dell’uomo come “natura” che è stata anzitutto tema della critica antropologica, che vi ha opposto quella di
homo existentia. È compito appunto dell’antropologia di ridare all’uomo
le sue autentiche dimensioni, di reintegrarlo nella sua interezza; di riconoscere che egli è ben più e ben altro del meccanismo ipoteticamente postulato che lo sottende; di additare quali siano le forme fondamentali con cui si pone e si propone come umana presenza; di sostituire alla “concezione” dell’homo natura la “fenomenicità” originaria del suo essere-nel-mondo; in breve, di indicarlo quale e come propriamente egli è, appunto come homo existentia.
Con la dottrina di Heidegger dell’essere-nel-mondo come trascendenza è stato vinto finalmente il cancro che corrodeva tutte le precedenti psicologie, e cioè la scissione del mondo in soggetto e oggetto, e si è finalmente aperta la strada all’antropologia. Nelle basi dottrinarie delle precedenti psicologie, infatti l’umana presenza è ridotta a nudo soggetto, monco del suo mondo, nel quale soggetto succedono tutti i possibili processi, eventi, funzioni, che ha tutte le possibili caratteristiche o che compie tutti i possibili atti, ma di cui nessuno è veramente in grado di dire – salvo supporto attraverso mere costruzioni teoriche – come possa incontrarsi con un oggetto e comunicare ed accordarsi con altri soggetti. In vero e per dirla in breve, essere-nel-mondo significa sempre in pari tempo essere-nel-essere-nel-mondo-coi miei simili, vuol dire che la mia presenza è con le altre presenze. Enunciando la trascendenza come essere-nel-mondo, Heidegger non soltanto ha superato l’opposizione scientista tra soggetto e oggetto, non soltanto ha colmato il solco che li spartiva ma ha fatto ben di più: ha illuminato la soggettività come trascendenza, ha aperto un nuovo orizzonte alla comprensione antropologica e dei particolari modi di essere dell’uomo. Con lui, al posto della dissociazione dell’essere umano in soggetto (individuo, persona) e oggetto (cosa, ambiente, ecc.) si rileva in primo piano quell’unità presenza-mondo che la trascendenza garantisce. La presenza, il Dasein – Binswanger – non si stanca di ripeterlo – è anzitutto globalità umana, che comprende in sé anima e corpo, cosciente e incosciente, pensiero e azione, emotività affettività e istinto. È l’essere globale dell’uomo che si è trasceso in una determinata situazione; è la fattività dell’esistenza come si offre nel suo adesso e nel suo dove, contemporaneamente schiudendosi al mondo e progettandolo
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come proprio, in una parola, come è nel mondo. Non è soltanto un esser-presenti: nel presente della presenza infatti si compendia anche il futuro, il suo poter-essere, e il passato, il suo esser-già-stata. Infatti se la presenza è un anticiparsi, questa possibilità di futuro non è un insieme di generiche possibilità, ma di determinate possibilità che trovano la loro determinazione in ciò e da ciò che essa già fu. Nel fondo la presenza è ciò che è già sempre stata. Si testimonia però, nel suo rivelarsi nel tempo, in varie maniere, in vari modi di essere, il cui articolato continuum costituisce la sua stessa storia. Assunto pertanto dell’antropoanalisi è l’indagine dei modi con cui si rivela l’umana presenza; e nella sua inscindibile globalità e nei vari aspetti costitutivi di questa. È dunque lo studio delle diverse maniere con cui di fatto essa si trascende, indipendentemente dalla considerazione che si tratti di un “sano” o di un “malato di mente”. Anzi l’antinomia malato, certamente necessaria nel campo clinico resta del tutto estranea all’interesse dell’antropoanalista, che si interessa dell’umano indipendentemente dal giudizio di sanità o di morbosità, e che ritiene pertanto i mondi del malato di mente, al pari di quello del sano, delle rivelazioni (per quanto disgraziate, per quanto tragiche) del possibile dell’uomo. Appunto in quanto uomo, anche lo psicotico non può non progettarsi in un mondo. In sostanza le malattie mentali (la schizofrenia, la malinconia, al mania, le perversioni, ecc.) nella loro più intima essenza, sono delle possibilità umane. È proprio per questo che l’antropoanalisi non può sostituirsi alla clinica psichiatrica: giacchè solo a questa spetta di “giudicare” ciò che deve essere ritenuto “sano” e ciò che dev’essere ritenuto “morboso”.
UN’INTRODUZIONE AUTOBIOGRAFICA ALLA FILOSOFIA