• Non ci sono risultati.

Intervista a Cosimo Rega

Cosimo Rega, ex detenuto, ha recitato in tutte le produzioni shakespeariani della Compagnia dei Liberi Artisti Associati di Rebibbia NC - G12 AS, da lui fondata; è Cassio in Cesare deve morire dei fratelli Taviani.

Come inizia la tua esperienza teatrale a Rebibbia, e quale il percorso che ti porta ad approdare a tre grandi personaggi della drammaturgia shakespeariana - Prospero, Claudio, Cassio?

Ho iniziato a fare teatro presto, fin dalla messa in scena di Antigone a Rebibbia negli anni '80 [con Antonio Turco, nda] e dalla drammaturgia di Bazar napoletano, andato in scena al Teatro Argentina nel 1987, poi sono riuscito a organizzare una compagnia per

Natale in casa Cupiello (nel 2002): nella sezione di alta sicurezza c'era una grande

esigenza, da parte dei detenuti, di costruirsi un'alternativa nel presente, una possibilità reale di trascorrere le proprie giornate in modo diverso. Dopo Napoli milionaria e l'ingresso di Fabio Cavalli, noi avremmo voluto continuare con Eduardo: eravamo quasi tutti napoletani e ci sembrava di tradirlo. La tempesta fu accettata solo grazie alla mediazione di De Filippo e all'intervento di Isabella, la vedova, che seguiva il nostro percorso. Shakespeare, prima, per noi non era nessuno, a stento riuscivamo a pronunciarne il nome! Poi siamo entrati nel testo, piano piano, abbiamo capito che ci riguardava da vicino, e ce ne siamo innamorati: si parla di un'isola, di uomini prigionieri in uno spazio lontano dal resto del mondo, chi meglio di un detenuto può comprendere quella situazione? Per questo immedesimarsi in Prospero non è stato difficile.

Amleto è stata un'altra storia, non possedevamo la dizione, non conoscevamo quel

lessico; la scelta della trasposizione in ambiente camorristico e l'utilizzo del dialetto sono stati dettati, oltre che da necessità, anche dal fatto che altrimenti non avremmo potuto fare niente di nuovo, niente di competitivo rispetto alle mille versioni teatrali già messe in scena. Con il personaggio di Claudio ho vissuto un ritorno a me stesso, alla mia storia, ai miei ricordi, tanto che all'inizio non volevo farlo: avevo scelto il teatro per

impersonare altri ruoli, non mi interessava riprodurre quello del boss. Eppure, quel personaggio mi ha permesso di riflettere, di metabolizzare il passato, anche di accettarlo, cose che non avrei fatto se non calandomi nei panni di un altro e utilizzando un linguaggio nuovo, capace di aprire prospettive differenti. Ed è stato un successo. Ninetto Davoli, assistendo alla rappresentazione, mi confessò che per la prima volta aveva davvero visto Claudio in scena, io gli risposi: «Perché difficilmente gli altri attori che l'hanno interpretato sanno cosa significa uccidere qualcuno».

Cassio, infine, è un personaggio forte, un uomo di grande strategia, anche in lui ho rivisto personaggi già incontrati, criminali di grande raffinatezza intellettuale. Mi sono ispirato a quello che già conoscevo, per farlo rivivere in scena e sullo schermo; e Shakespeare sembra avere in mente proprio questo genere di ambiente, queste persone, tocca tematiche di grande attualità in un contesto di disagio. Con Cesare deve morire, inoltre, dentro il carcere è cambiato tutto.

Emerge dunque da come descrivi la relazione con i personaggi interpretati e con l'opera shakespeariana, un riferimento forte e inevitabile alla quotidianità della detenzione e al mondo della criminalità, al tuo portato biografico. Una volta libero però, mi sembra che tu non abbia mai interpretato personaggi che richiamassero il tuo passato. Lo sentiresti come un vincolo, l'eterna ripetizione dello stesso ruolo?

Sì, e inoltre non sono d'accordo con la vendita di quel tipo di prodotto, quello che parla di criminalità e camorra che va di moda ultimamente; un conto è vedere quei film per uno spettatore di Roma, di Milano, un conto per un ragazzino di Napoli, che rischia di essere sedotto dal tono eroicizzante con cui vengono dipinte nella finzione alcune scelte di vita.

Hai fatto accenni a cambiamenti nel carcere durante la presenza dei fratelli Taviani, ma cosa si è modificato con il teatro?

Tutto. Con il teatro innanzitutto “fai gruppo”, abbiamo superato la rigida gerarchia di un settore come quello di alta sicurezza e sono venute meno le divisioni su base geografica, che fanno sì che i napoletani, i calabresi, i siciliani stiano sempre fra di loro e non

abbandonino mai il loro dialetto: il nostro dialetto è diventato il teatro, la sezione si è trasformata in una scena aperta. Mentre lavoravamo a Natale in casa Cupiello, i saluti mattutini, da una cella all'altra, sono stati sostituiti dalle battute di Eduardo; dopo un po', lo facevano anche le guardie. La vita “dentro” diventa più sopportabile, riesci a vivere il presente, non solo a sopravvivere a quel luogo privo di bellezza che è il carcere; ogni tanto è addirittura successo di dimenticare il giorno del colloquio, e di arrivare trafelati e in disordine a un appuntamento che prima era l'unico che dava senso al trascorrere del tempo, un obiettivo per il quale prepararsi accuratamente con una sorta di ritualità. Si è trasformato il nostro modo di comunicare: in carcere si parla poco, si sussurra, la voce si rattrappisce insieme al resto del corpo, che perde armonia e viene mortificato nella sua espressività. Con il teatro è stato riscoperto e rivitalizzato, così parola e gesto sono tornati a essere veicoli comunicativi, mentre in carcere la comunicazione è assente su ogni piano e in ogni forma di relazione.

Con il film, poi, si sono modificati in profondità anche i rapporti con le guardie e con tutto l'apparato carcerario: per un certo periodo di tempo, siamo diventati una grande famiglia.

Un altro aspetto, quello del rapporto con il pubblico “esterno”. Esiste secondo te il rischio che chi entra in carcere lo faccia solo per osservare il detenuto come fosse una sorta di “animale esotico”?

Certo, esiste il rischio “scimmiette da circo”, ma la responsabilità di evitarlo è del regista: se il lavoro in carcere ha come obiettivi la riflessione, la riscoperta e l'alimentazione della vita spirituale e interiore del detenuto, che viene molto spesso dimenticata, si riescono già a evitare la resa dilettantistica e il pericolo di un'attività inutile per chi è recluso. Così, si riscopre l'importanza del pubblico, che è fondamentale per stabilire contatti con il mondo esterno al carcere e per offrire testimonianza alla ricerca di libertà espressa con il teatro.

Lavori ancora in campo teatrale?

un sogno: una messa in scena del Critone di Platone in napoletano. Il teatro è stata la mia scoperta più grande, è grazie a questo e alla letteratura che posso dire, oggi, di non essere più un camorrista, anche se non potrò mai dire di non essere più un assassino. E tramite quest'attività vorrei continuare a parlare del carcere e a ispirare la possibilità di un cambiamento, verso una vita degna di essere vissuta, per chi è ancora “dentro”: con la mia versione del Nemico del popolo di Ibsen ho voluto debuttare al teatro di Rebibbia, anche se i miei compagni di sezione non sono potuti essere presenti. Per portare avanti quest'esperienza, è stato necessario lottare, a piccoli passi, per ottenere quanto ci ha permesso di dare un senso alle nostre giornate là dentro.

Mi sembra molto interessante, rispetto a quanto emerso fin qui, la possibilità dell'incontro, attraverso il teatro, con autori e opere che normalmente non fanno parte della vita dei detenuti e vengono contemporaneamente rivitalizzati proprio da questo scambio.

Hai ragione, a me viene da pensare, oltre a Shakespeare, a quando abbiamo lavorato su Dante. Prendi il canto V: per un detenuto assume una pregnanza incredibile, non tanto perché parli della lussuria o dell'impossibilità di trattenere la passione, ma perché Paolo e Francesca non hanno più la possibilità di vivere il loro amore. Ed è la nostra quotidianità, soffrire la pena di una divisione crudele da chi amiamo.

Napoli, Quartieri Spagnoli (Montecalvario) 14 maggio 2015