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SOMMARIO ALLEGAT

Allegato 3: intervista responsabile Casa Vallemaggia

1. Come è nata la SVA?

“È nata perché c’era un direttore, che adesso è in pensione, che è stato molto lungimirante, nel senso che la SVA non è nata da un bisogno, ma da un’idea di un direttore di sviluppare anche in Ticino un progetto che esisteva già nella Svizzera tedesca gestito all’epoca da Pro Infirmis a Zurigo, ad Arau, a Losanna ed a Friborgo. Quindi avendo costruito la Casa Vallemaggia ed avendo uno spazio a disposizione, il direttore ha deciso di concretizzare il progetto della SVA e così è nata.

Dunque, è nata in base ad una lungimiranza di un direttore e sulla base di esempi concreti già presenti nel resto della Svizzera. Dopo con gli anni si è modificata nel rispetto del contesto e in relazione alle situazioni, alle quali cerchiamo di rispondere.

Qui in Ticino è stata aperta nel 2007.”

2. Sono avvenuti grandi cambiamenti nel corso degli anni? Se sì per quali motivi?

“Sì, sono avvenuti dei cambiamenti, grandi dipende da chi li guarda. Noi nel nostro interno senz’altro posso confermare che abbiamo sempre cercato di essere coerenti con i valori di base della Pro Infirmis e il concetto base della SVA. Allo stesso tempo abbiamo cercato di essere flessibili per permettere a più persone di seguire questa formazione. Posso fare degli esempi che magari risultano un po’ banali, ma perché forse sono più riconoscibili all’esterno. I cambiamenti avvenuti internamente sono dei cambiamenti grandi, ma che sono più condivisi con l’équipe e con la direzione. Per esempio, all’inizio la Scuola di vita autonoma, era una scuola rivolta a chi aveva il desiderio di andare a vivere da solo, ci abbiamo messo poco tempo a capire però, che poteva essere una scuola che poteva rivolgersi anche a persone che non sapevano ancora se sarebbero andate a vivere da sole. Quindi una scuola di vita autonoma proposta come un percorso, un allenamento, un’esperienza per conoscere sé stessi. Dopo il percorso si valuta insieme alla persona quale è il luogo di vita più adeguato. Quindi questo autonomismo per chi andava a vivere da solo, si è subito interrotto, anche perché poi rischiava di essere percepito come squalificante o come un fallimento se poi questo non avveniva. Un’altra cosa che è cambiata rispetto al nostro immaginario come educatori, è che abbiamo capito che per la SVA non era necessario che si sapesse leggere, scrivere e fare calcoli, i criteri per accogliere qualcuno erano diventati altri. Ovvero quelli di poter vivere con altre persone, che non per forza si è scelto, quello di essere d’accordo di gestire i propri medicamenti o di farsi aiutare nella gestione degli stessi, rispettare il regolamento della SVA e il saper chiedere aiuto, quindi riconoscere le situazioni di pericolo e capire quando chiedere aiuto.

Il chiedere aiuto non è così scontato, specialmente quando si è cresciuti in una situazione un po’ di fragilità o di esclusione, perché per esempio si ha frequentato la scuola speciale o perché si ha una disabilità intellettuale. Il chiedere aiuto per alcuni può essere inteso come il non riuscire a fare da soli, dunque non è così scontato, anche perché non è evidente riconoscere quando si è in una situazione dove occorre chiedere aiuto. Però noi all’inizio del percorso chiediamo questo, ovvero che la persona abbia il suo telefono, che sia in chiaro su chi chiamare, che chiami una volta o due in più, quello non fa niente, ma che sappia come fare. Forse all’inizio è normale che ci sia un timore nel chiedere aiuto, ma poi poco a poco, si inizia

a chiedere aiuto anche per questioni per le quali all’inizio non si osava, poi tutto si costruisce tanto nella relazione e nell’evoluzione di ognuno.

I criteri di accoglienza non erano sicuramente quelli di una scuola tradizionale, ma altri e si stanno ancora sempre di più evolvendo.

Un aspetto molto importante è l’integrazione il prima possibile delle persone di riferimento, non solo dei genitori, ma anche dei medici, degli educatori, di chi segue sul posto di lavoro i ragazzi, questa collaborazione serve per poter valutare al meglio questo progetto. Da una parte vogliamo che sia sempre l’utente al centro e dall’altra però ci accorgiamo che se vengono escluse, non volontariamente, delle persone, dei pezzi di rete importanti, è difficile poi anche recuperare. È un progetto molto in divenire e rispetto al quale cerchiamo di fare tesoro degli intoppi e delle situazioni che succedono in un modo che non ci aspettavamo.

Un altro cambiamento importante è avvenuto un paio di anni fa, quando siamo passati da una scuola della durata di due anni ad una scuola di tre anni. Questo anche proprio per staccarsi dall’idea che chi facesse la SVA dopo andasse a vivere in AVA o andava a vivere da solo. L’idea è di fare due anni di formazione di base per concentrarsi proprio sulla SVA e poi fare un bilancio ed avere ancora a disposizione dodici mesi, poi magari a qualcuno ne bastano solo due, per preparare l’uscita dalla SVA. Che potrebbe essere anche verso un’altra struttura, poi in questo caso, c’è tutta una collaborazione con l’Ufficio invalidi per trovare un foyer che abbia un posto disponibile. Ci si prende questo tempo con l’utente e con le persone di riferimento per vedere anche un po’ l’effetto che fa il visitare determinate strutture, può essere sicuramente ancora un pezzo di elaborazione, di formazione e di crescita.

Un altro cambiamento è stato quello di rimanere fino al sabato mattina, prima i ragazzi tornavano a casa già il venerdì sera. Un altro è stato quello di far lavorare gli educatori fino alle 23.00, prima lavoravano solo fino alle 20.00, poi si è capito che era importante una presenza educativa fino alla sera. Non per forza l’educatore deve organizzare delle attività, perché l’obiettivo deve essere sempre quello che l’utente gestisca il suo tempo, però si è capito che la presenza dell’educatore è importante rispetto all’opportunità di scambio, all’ascolto e al riconoscimento di determinate dinamiche. Anche perché ci sono stati dei momenti in cui degli utenti non erano in grado di adeguarsi alla SVA, questo anche perché la maggior parte di loro arriva da casa. Alla SVA c’è questa grande possibilità di libertà e allo stesso tempo, una richiesta di presa di responsabilità, non tutti sono in grado di fare questo. In parte giustamente perché sono qui per impararlo.”

3. Avete un programma da seguire relativo ai corsi che fate per i partecipanti? Cambia

a seconda dei partecipanti?

“No, si cerca di essere flessibili senza essere troppo in balia delle situazioni che magari ci sembrano essere inadeguate. C’è un programma, ci sono dei corsi, c’è anche un ingaggio che noi facciamo con l’utente durante la firma del contratto.

Quindi ci sono dei corsi, ci sono dei temi, c’è un responsabile che verifica che tutti gli utenti abbiano seguito i corsi per tutti i temi. Quindi sull’arco dei due anni si cerca di farli tutti, chiaramente ci sono dei temi che sono molto importanti e sono dei cappelli e sotto si possono strutturare dei corsi anche in base a quello che è il contesto e in base a quello che la situazione ci propone.

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Per esempio, penso alla conoscenza dei propri diritti e del contesto, la visita di quest’anno della presidente del Gran Consiglio Pelin Kandemir Bordoli alla casa Vallemaggia, è stata un’opportunità per soffermarsi sulla conoscenza della civica in un modo concreto e tangibile. Che non era solo sulla base di teorie, ma che era proprio l’andare nell’aula del Gran Consiglio, vedere dove sono seduti i deputati, come votano, dove si trova il microfono, ecc. Sotto il cappello “Conoscenza dei propri diritti” si colgono dunque anche delle opportunità di questo tipo.

Quindi ci sono dei grandi temi e poi ci sono dei corsi che sono richiesti e che sono necessari per la gestione dell’economia domestica e della convivenza e ci sono altri che sono invece ispirati più dalle opportunità.

Trasversale a tutti i corsi, c’è il tema della relazione con sé, con gli altri e con il contesto. I corsi vengono fatti in maniera molto interattiva, quindi si parte dalla loro conoscenza, da quello che sanno e dalla loro messa in comune.”

4. Quanti ragazzi dopo il percorso riescono effettivamente ad andare a vivere in un

appartamento in autonomia? Quali sono le altre opzioni?

“Stiamo facendo adesso un bilancio delle situazioni. Nell’Appartamento in autonomia gestito dalla Pro Infirmis, l’appartamento è a loro nome, pagano loro l’affitto, noi garantiamo semplicemente un accompagnamento educativo negli appartamenti AVA. Che comunque sono un numero definito dal mandato di prestazione, adesso sono sei utenti in AVA che possiamo seguire, garantendo loro teoricamente 55 minuti al giorno di presa in carico, che poi comprende le visite, le riunioni, l’invito a volte a cena presso la SVA, ecc.

Poi c’è chi vive da solo, c’è chi vive in un appartamento protetto con sostegno educativo di altre Fondazioni, dipende poi da dove si vuole tornare a vivere o andare a vivere, in generale da cosa ci si aspetta.

C’è chi invece ha avuto bisogno di un Foyer e chi invece ha capito che vivere da solo e senza avere nessuno con cui confrontarsi, non era quello che faceva per lui. Ma non è stato quindi uno sbaglio, è stato un riconoscere cosa fosse meglio per sé stessi. I numeri li potrò dire una volta finita questa inchiesta.”

5. Come la SVA collabora con i genitori?

“I genitori sono considerati come persone di riferimento, sono coinvolti perché abbiamo bisogno di loro in questo percorso, che non avrebbe senso senza di essi, perché i propri figli fanno un percorso di sviluppo delle proprie competenze e di conoscenza di sé.

Li coinvolgiamo fin da subito, lo facciamo con certe modalità, ovvero attraverso riunioni, abbiamo uno strumento che si ispira alla pedagogia dei genitori “Con i vostri occhi”, con il quale chiediamo a tutti i genitori di raccontarci il proprio figlio. Quindi i loro punti forti e deboli, che cosa secondo loro è importante che noi sappiamo per poterli accompagnare nel migliore dei modi, ecc. È uno strumento che usiamo da un paio d’anni e chiediamo ai genitori di completarlo scrivendo la loro esperienza, per avere anche questo punto di vista fin dall’inizio. Poi il coinvolgimento dei genitori dipende anche da loro, dalle storie di famiglia, dal momento in cui l’utente raggiunge determinate tappe e scelte.

Noi cerchiamo sempre che sia lui il protagonista, che se ci sono delle cose da dire si sentano liberi di esprimerlo quindi cerchiamo di costruire questa trasparenza per cui l’utente sa che c’è

un rapporto di fiducia. L’intenzione è quella, di riuscire ad instaurare un rapporto di fiducia, poi ci sono dei genitori che sono in piena fiducia, poi magari ci sono delle scelte che li spaventano e che non corrispondono con le loro aspettative oppure altri con i quali il rapporto di fiducia ci impiega molto più tempo ad essere costruito ed elaborato.

Però loro ci saranno, ci saranno quando la SVA sarà terminata, rimangono sempre un punto di riferimento, sia che siano presenti sia che siano assenti. Quindi i genitori sono coinvolti o non sono coinvolti, ma possibilmente con consapevolezza.

Ogni utente che inizia la SVA ha un’educatrice di riferimento, che lo è anche per i genitori e per la rete. Questo aiuta e favorisce l’instaurarsi di un rapporto di fiducia, però quando l’educatrice non è presente, ci sono sempre le altre.”

6. Che ruolo ricoprono i genitori all’interno del percorso?

“Noi consideriamo il sistema utente con quello che è il sistema nel quale lui si muove, vive ed è inserito. Un sistema che può rimanere invariato rispetto ai partecipanti per tutto il percorso della SVA, oppure che può cambiare, ampliarsi o diminuire.

Quindi i genitori sono un punto di riferimento importante. Hanno un ruolo, senza essere quelli che decidono per i propri figli. Si cerca di definire un obiettivo comune, che non è così scontato perché quando un ragazzo arriva alla SVA e dice “io vengo perché voglio essere autonomo” e i genitori vogliono che sia autonomo, ma poi che cosa vuol dire essere autonomo non si sa bene. Perché vuol dire magari riuscire a fare delle cose da solo, che fino adesso si è sempre fatto con i tuoi genitori, vuol dire magari non essere più controllato, fare delle cose con delle modalità diverse dai propri genitori, ecc. Questo significa però disponibilità a mettersi in discussione, vuol dire disponibilità a partecipare a percorsi di psicoterapia, che l’utente decide di fare e ha necessità di fare.

Quindi il capire che ruolo ha la mamma, che ruolo ha il papà, che ruolo hanno i genitori, che ruolo hanno i fratelli. Per noi hanno un ruolo importante e visto, anche quando non ci sono. È un ruolo che c’è in base alle loro caratteristiche, alla loro disponibilità, alle loro paure, alla loro voglia di esserci, al percorso che continua, che porta di fronte a delle domande che non ci si immaginava di doversi porre. Quindi hanno un ruolo di interlocutore importante e spesso i loro dubbi e le loro domande sono fondamentali per sviluppare anche empatia nei confronti dell’utente, tutti i blocchi sono utili.

Quindi hanno un ruolo fondamentale, proprio perché fanno parte del sistema.”

7. Avete dei programmi per il futuro? (per esempio, espandere la SVA, cambiamenti

in programma, …)

“No, niente di particolare. Per il futuro abbiamo deciso di continuare con questa proposta formativa che si è allargata sicuramene anche a dei giovani con problematiche psichiatriche. Inizialmente non venivano considerati, si parlava di persone con disabilità medio-grave. Quindi la declinazione della realtà ha permesso di capire che un utente ideale non esiste. Dunque, un’attenzione particolare verrà sicuramente data ad un accompagnamento di giovani con problematiche psichiche e alla ricerca delle nostre risorse e dei nostri limiti.

Come dicevo all’inizio non è stata una struttura nata da un bisogno constatato tramite un’inchiesta o delle rivendicazioni da parte di genitori. È stata veramente un’idea pionieristica,

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quindi ci stiamo un po’ muovendo lì, nella voglia di permettere ad altre persone di fare questo percorso, allo stesso tempo sapendo che siamo ancora nuovi e pionieri. Per noi questa è una consapevolezza importante.”

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