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INTRODUZIONE ALLE INTERVISTE

In questo capitolo si cercherà di verificare l’esistenza di un’eventuale evidenza empirica degli argomenti sostenuti lungo le precedenti pagine.

A tal fine sono state effettuate delle interviste, talvolta telefonicamente e talvolta di persona, annotando su carta e con il supporto di un registratore.

Le domande sono tese ad investigare alcuni punti di questa tesi attraverso un’indagine qualitativa e non quantitativa, allo scopo di realizzare un maggior grado di apprendimento delle questioni trattate.

I punti cardine dell’intervista saranno l’acquisizione delle competenze necessarie agli assistenti sociali e le personali rappresentazioni mentali della professione, ovvero i frames dei soggetti interpellati rispetto all’immagine dell’assistente sociale.

L’obiettivo non è raggiungere un consenso unanime rispetto al tema trattato, ma ottenere delle dichiarazioni più sincere possibili rispetto all’argomento da approfondire.

Le persone intervistate sono assistenti sociali professionisti e studenti di corsi di laurea abilitanti all’esercizio della professione di assistente sociale.

La domanda n.1 è stata posta soltanto agli studenti in quanto costruita appositamente su di loro, la domanda n.2, invece, è stata posta sia agli uni che agli altri al fine di confrontare le risposte, verificare l’eventuale acquisizione dell’epistemologia professionale da parte degli studenti e capire come si costruisca l’identità sia

degli assistenti sociali che degli studenti.

Le restanti 5 domande sono state rivolte soltanto agli assistenti sociali.

Le narrazioni dei testimoni qualificati costituiscono delle situazioni comunicativo-relazionali le quali, oltre a rispondere alle domande poste, contengono significati anche più preziosi di quel che può sembrare ad un primo impatto, in quanto in ogni racconto di sé stessi vi è un

passaggio dalla consapevolezza pratica alla

consapevolezza discorsiva.

Raccontandosi ci si può osservare dall’esterno ed esaminando la propria realtà si può percepire in modo nuovo il proprio vissuto, si costruisce una nuova immagine mentale della propria vita e, come in questo caso, anche della propria professionalità.

Le interviste agiscono da spunto di riflessione sia per l’intervistato che per l’intervistatore e forniscono un’immagine delle teorie personali entro le quali si fonda la soggettiva azione.

Per ogni soggetto intervistato verrà esplicitato il contesto lavorativo, in quanto fattore che influenza sia le risposte sia la formazione delle capacità su cui si vuole far luce.

Questo tentativo di contestualizzare servirà a tener fede e a supportare quanto sostenuto nei precedenti capitoli quando si è parlato dell’importanza della relazione tra soggetti e ambiente nonché della non oggettività della riflessione, in quanto attuata secondo i propri schemi mentali, derivati da carattere, cultura e ambiente circostante.

Verrà riportato in queste pagine il testo integrale delle interviste, via via commentate ed interpretate il più obiettivamente possibile, seppure sia stato difficoltoso osservare lo scenario esternamente in quanto mi trovo a far parte della categoria di una parte degli intervistati, ovvero gli studenti di un percorso formativo per eventuali futuri assistenti sociali.

Il metodo utilizzato per rendermi più obiettiva possibile è stato il riflettere sulle domande da porre, rendendomi consapevole dei miei stessi frames mentali di modo da poterli padroneggiare.

Il guidare i quesiti senza però suggerire il mio modo di pensare e senza aggiungere parole che potessero evocare immagini che esulassero dalla domanda posta, dovrebbe assicurare la genuinità delle risposte date e preservare la prospettiva dell’intervistato.

L’analisi della conversazione non poggerà

sull’evidenza scientifica comunemente intesa perché, in primo luogo, ci si riferisce ad un campione ridotto di persone, ed inoltre perché non si sono voluti raccogliere meccanicamente dei dati, cosa che avrebbe rischiato di tralasciare questioni implicite che se avessimo voluto onorare i metodi tecnici non si sarebbero potute evidenziare.

Ci si baserà, invece, attraverso domande aperte di ampia portata, sull’interesse verso i rapporti contestuali delle conversazioni.

Sarà possibile notare, infatti, come l’esito delle domande dipenderà dal contesto lavorativo a seconda dell’appartenenza degli assistenti sociali all’area disabili,

piuttosto che all’area minori o altro.

Sarà sicuramente significativo anche il mio personale modo di porre i quesiti e la mia relazione con i temi trattati, nonché il mio personale modo di parlare, il mio modo di pensare ed il mio modo di interpretare.119

Le svariate implicazioni individuali e le numerose circostanze che intervengono nella conversazione non possono dare luogo ad osservazioni oggettive, ma ancora una volta, come è già stato accennato, a punti di vista in cui non si può sfuggire alla soggettività.

Le interviste, spesso usate dagli assistenti sociali quale mezzo di valutazione, si possono descrivere come strumenti atti a raccogliere storie; non si tratta, quindi, di una semplice raccolta di dati ma di un’indagine in cui la riflessività guida l’azione, collegandosi ai problemi interpretativi della conversazione ed alla conseguente provvisorietà dell’esito, che non sarà un risultato certo, definito ed imparziale ma qualcosa di ambiguo, che rivela solo una parte di realtà, lasciando il dubbio sulla correttezza delle scelte fatte dal ricercatore nel portare a termine il suo lavoro.

In sintesi, la riflessività, la relazione di fiducia tra intervistato ed intervistatore ed anche il coinvolgimento del ricercatore fungono da perno per l’indagine, dove chi pone le domande è parte attiva e modellante l’indagine tanto quanto l’intervistato.

Questo aspetto non va visto come dato per forza negativo: basti pensare all’importanza della reciproca

119

G. Chiaretti, M. Rampazi, C. Sebastiani, “Conversazioni, storie,

riflessione che ne scaturisce e all’arricchimento dei rispettivi punti vista.

Il raccontarsi, il conversare, l’intervistare si trova a confrontarsi con la complessità della metodologia utilizzata per analizzare quella costruzione di senso che ne deriva, quella costruzione di identità che non può prescindere da un contesto e dall’interazione con l’altro a cui ci si racconta.

La realtà che si vuole portare a galla parlandone si lega al concetto di “mappa” del narrare, che, come la definisce Marita Rampazi, è articolata in quattro modalità che descrivono essenzialmente il “cosa” si racconta:

“La prima consiste nel raccontare a noi stessi, per ricostruire la nostra identità, attraverso la ricostruzione di senso per la nostra azione; la seconda, nel raccontare di noi stessi, al fine di ottenere un riconoscimento dell’Altro con cui si interagisce; la terza, nel raccontare agli altri, identificando degli interlocutori per i quali la nostra narrazione sia significativa; la quarta, nel raccontare gli altri, costruendo un’immagine dei nostri interlocutori.”120

Tutto questo si fonde, si mescola in una complessa interazione tra soggetti connessi tra loro da una relazione che è implicita in qualsiasi comunicazione; essi creano immagini mentali che, se analizzate, possono fungere da oggetto di riflessione, la quale porterà i partecipanti all’intervista al raggiungimento di nuove conoscenze.

Ma venendo al testo delle nostre domande, queste verranno precedute dalla lettera D più un numero

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crescente per poterle ricondurre alle risposte, contrassegnate invece dalla lettera R ed il numero riferito alla relativa domanda. Questa è la traccia integrale dell’intervista:

D1. In quanto studente di un corso di studi abilitante

all’esercizio della professione di assistente sociale, quale crede sia il livello di coerenza della formazione teorica ed operativa che le è stata data e perché? Pensi alla sua esperienza di tirocinio come riferimento pratico ed ai suoi studi come riferimento teorico.

D2. Posto che ognuno di noi ha una personale

rappresentazione mentale per ogni cosa, sia essa un concetto, un valore, un oggetto ed anche una professione, qual è la sua rappresentazione, la sua idea della professionalità competente dell’assistente sociale?

D3. Ogni professionista deve avere delle competenze

chiave necessarie all’esercizio della propria professione, le quali possono essere date dalla formazione scolastica ma anche dalla propria formazione di vita. Quali ritiene che siano queste competenze chiave nel caso dei professionisti assistenti sociali?

D4. Oltre alle competenze chiave, un professionista deve

possedere anche delle competenze trasversali, ovvero conoscenze che vanno oltre il confine del proprio settore. Questo accade soprattutto quando si tratta di professioni immerse in contesti imprevedibili e mutevoli. Quali crede

siano le competenze trasversali di cui gli assistenti sociali devono essere in possesso?

D5. Nel percorso formativo degli assistenti sociali deve

avere luogo lo sviluppo di competenze fondamentali, necessarie all’esercizio della professione, competenze trasversali, ovvero competenze che vanno a toccare molteplici settori disciplinari, e competenze tecniche, ovvero specifiche e scientificamente fondate. Nel suo caso, in che modo ha potuto svilupparle?

D6. Facendo un confronto tra la propria formazione

iniziale, ovvero scolastico-universitaria, e la formazione continua che ha luogo nell’esercizio della professione nonché secondo quanto stabilito dal Regolamento del 2009, il suo livello di competenza è cambiato? Se sì, in cosa consiste questo cambiamento?

Le risposte verranno riportate per intero quando è stato possibile registrarle, ovvero nei casi in cui l’intervista si sia svolta di persona, mentre nel caso delle interviste telefoniche, dovute alla distanza o alla volontà stessa degli intervistati, verranno riferite solo alcune frasi originali completate da mie personali costruzioni lessicali necessarie per rielaborare il filo conduttore del discorso.