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L’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e la storia delle Accademie

LA REPUBBLICA DELLE LETTERE E LE ACCADEMIE

MARC FUMAROLI

Come Galileo, che pubblicava in italiano il Saggiatore nel 1623, e il Dialogo dei massimi sistemi nel 1632, così Cartesio, nel suo Dis-

corso sul metodo, scritto in francese e stampato a Leida nel 1637,

dopo aver enumerato gli ostacoli al progresso delle scienze della natura (la brevità della vita umana, la difficoltà e il costo della ricerca sperimentale), rivela al lettore:

giudicai che non ci fosse miglior rimedio contro questi due ostacoli che quello di comunicare fedelmente al pubblico tutto il poco che avrei scoperto, e di invitare gli uomini di ingegno a sforzarsi di andare avanti contribuendo ciascuno secondo l’inclinazione e le capacità sue agli espe- rimenti necessari, e comunicando anche loro al pubblico tutto quel che avrebbero appreso, affinché, partendo gli ultimi dal punto di arrivo di chi li precedeva, e unendosi così le vite e il lavoro di molti, andassimo tutti insieme molto più avanti di quanto ciascuno avrebbe potuto da solo.

Nella traduzione latina di Étienne de Courcelle, pubblicata nel 1644 con l’approvazione di Cartesio, il termine “public” è reso con l’espressione latina Respublica literaria.

Non si tratta di un sintagma ripreso dal latino antico. La sua prima occorrenza nel latino moderno degli umanisti italiani data al 1417, in una lettera del giovane letterato veneziano Francesco Bar- baro a Poggio Bracciolini, all’epoca membro della delegazione fio- rentina al Concilio di Costanza. Il contesto indica con chiarezza la differenza di senso tra il concetto di “public”, come lo intendeva Cartesio nel 1637, e quello di “repubblica letteraria” com’era com- preso da Barbaro e Bracciolini duecentoventi anni prima. Il

“public” di Cartesio, tradotto per analogia in latino con Respublica

literaria, è quello di tutti gli “uomini d’ingegno” dediti alla sco-

perta delle leggi e dei segreti della natura, all’analisi dei misteri che regolano la loro condizione umana, qualsiasi sia il loro stato ed ori- gine. Il filosofo esorta gli “uomini d’ingegno” a rendere tutti par- tecipi delle loro ricerche sia attraverso l’informazione reciproca dei risultati già acquisiti, soprattutto sotto forma di stampa, sia attraverso l’osservazione comune delle regole universali del metodo che egli propone loro per stabilire nuove verità.

Questo “public”, composto in concreto da privati individui ani- mati come lui dal solo disinteressato desiderio del sapere, è chia- mato a divenire, alle condizioni suggerite da Cartesio, il veicolo del progresso collettivo dei Moderni, trascendente le generazioni e la dispersione geografica, e capace d’affrancare sempre più la ragione umana tanto dall’ignoranza dei secoli oscuri, quanto dalla scienza primordiale trasmessa dagli Antichi.

Non siamo più nel mondo del Rinascimento.

Il civismo scientifico che esige la respublica literaria, il “bene comune” di tutta l’umanità, come lo definisce Cartesio, ovvero la nuova scienza della natura e i suoi benefici materiali promessi a tutti, si fonda su un impegno etico di natura personale e privata essenzialmente indipendente da un eventuale patrocinio pubblico e ufficiale della Chiesa o dello Stato.

L’accademia scientifica intrattenuta del padre Mersenne, amico e corrispondente di Cartesio, corrispondeva a questo carattere pri- vato. Lo stesso Cartesio si dimostrava molto geloso della sua indi- pendenza; non un protettore potente, ma un ambiente colto e socievole, era quello cercato da Cartesio a Stoccolma, alla corte della regina Cristina. Nulla è più affascinante, e merita oggi il nostro interesse retrospettivo, di questa distinzione, intuita dagli Stoici, descritta, teorizzata e vissuta da Cartesio, tra il civismo pri- vato – motore del progresso delle scienze naturali – posto al servi-

zio di un unico padrone, e i doveri pubblici ordinari ed esterni che ciascuno è tenuto ad osservare nei confronti della società politica e religiosa contemporanea in cui vive.

Questa distinzione era già implicita nella lettera latina di Barbaro del 6 luglio 1417, nonostante la natura del bene comune al servizio del quale si dispongono i cittadini umanisti della Repubblica delle Lettere fosse differente da quella che indica nel 1637 il Discorso sul

metodo. Rallegrandosi con Poggio Bracciolini per le scoperte di

antichi testi manoscritti, da lui ritrovati nella biblioteca dell’abbazia di San Gallo, Barbaro si fa portavoce del debito di riconoscenza contratto dalla comunità universale dei letterati (eruditi homines

doctissimi homines ubicumque, legati fra loro dalla necessitudo litte- rarum), nei confronti del rivelatore-scopritore di quelle meraviglie, pro ommuni utilitate, fra le quali era il testo completo dell’ Institu- tio oratoria di Quintiliano. Questa comunità di cui ogni membro è

al servizio di un “bene comune”, Barbaro la chiama Respublica lite-

raria, creando un sintagma nuovo sul modello della formula medie-

vale, di origine agostiniana, respublica cristiana: ea respublica cujus

Christus conditor rectorque est (Civitas Dei, 11, 12; XIX, 21-26).

Essendo egli stesso discepolo di personaggi del calibro di Coluccio Salutati e Leonardo Bruni, eredi spirituali di Petrarca, all’epoca del suo soggiorno a Firenze, Barbaro identifica esplicitamente il “bene comune” pubblico, al quale privatamente si consacrano i cittadini della sua “Repubblica letteraria”, con la renovatio litterarum inau- gurata dal poeta dell’Africa. Nella sua corrispondenza privata, Pog- gio Bracciolini paragona le sue scoperte di testi latini sepolti dalla barbarie, o dimenticati dall’incuria del monaci, all’impresa di Enea che salva dall’incendio di Troia i Lari, divinità della patria, prepa- rando così la rinascita di una seconda Troia. La ricomparsa e la restituzione del patrimonio letterario antico sono il frutto, ma anche il seme, di un commercium litterarium che, rinnovando l’etica del legame sociale, opera per l’utilitas communis.

In se stessa, la lettera d’elogio di Francesco Barbaro a Poggio Bracciolini attesta il ruolo che il genere epistolare, inteso come comunicazione scritta tra amici lontani, detiene nella Repubblica delle Lettere, secondo l’archetipo costituito dall’Epistolario di Petrarca. Lo stile epidittico di questa lettera, vera e propria inco- ronazione poetica di Poggio, dimostra che uno dei più importanti riti di identificazione della comunità pacifica e amichevole delle lettere è già stabilito sotto forma di elogio glorificante (perlomeno ristretto ai suoi membri) dei suoi grandi servitori. Altri generi let- terari di celebrazione degli eroi della “Repubblica” già apparsi o vicini a fare la propria comparsa, come le Vitae litteratorum viro-

rum, i Tumuli, composti dai loro successori, creeranno di lì a breve

un repertorio di exempla che incitano i nuovi adepti ad emulare i loro eminenti predecessori.

Sullo sfondo di questa lettera entusiasta del Barbaro, si delinea un’idea di progresso: Poggio ha permesso di compiere un enorme passo avanti alla renovatio litterarum avviata nel secolo prece- dente. Si tratta del progresso / fioritura / rinascita dell’eredità pla- tonica, dell’espiazione di un lungo oblio, del recupero, dopo l’e- clisse, della fecondità del dialogo tra i Moderni e della saggezza eloquente degli Antichi. La Repubblica delle Lettere di Barbaro e di Bracciolini, all’epoca condivisa tanto dall’impegno filologico di Lorenzo Valla e di Erasmo, quanto dal concetto di conversazione elaborato da Pontano e Castiglione, si propone come una risco- perta creatrice dell’humanitas antica, delle sue arti e della sua socievolezza, sconvolte dopo le invasioni barbariche.

Cartesio elogia questa reinvenzione civilizzatrice, la ritiene acquisita, e la pone quale «bien commun» , bene comune, del contemporaneo progresso scientifico e tecnico sconosciuto agli Antichi à la fixe pour «bien commun» un progrès scientifique et

technique inconnu des Anciens. In primo luogo, questo progresso

e in secondo luogo, l’affrancamento del peso morto della memoria psittacista in tutte le discipline dello spirito, e d’altra parte l’ela- borazione di un metodo critico più esatto e maggiormente verifi- cabile rispetto a quello dei poeti, dei retori e degli oratori.

La disputa tra Antichi e Moderni metterà pienamente in luce tutta la distanza che separava – tacitamente fino a quel momento – le due successive concezioni della Repubblica delle Lettere. La

querelle non riuscirà tuttavia a spezzare l’unità della Repubblica

delle Lettere dell’Ancien régime.

Se la corrispondenza costituisce il tessuto connettivo di una universale Repubblica delle Lettere per definizione policentrica e dispersa, le accademie, denominate significamente dal giardino ateniese dove Platone insegnava per mezzo del dialogo socratico, sono stati i suoi organi locali visibili, e sempre esposti al rischio di diventare ufficiali. L’accademia in senso moderno è stata reinven- tata da Petrarca, che per tutta la sua vita viaggiò senza sosta in compagnia di collaboratori e amici, prima di trovare rifugio, ormai anziano, ad Arquà, nell’entroterra della Repubblica Veneziana. Anche se la denominazione esplicita di accademia nel suo senso metaforico non esisteva ancora, ovunque Petrarca fissasse la sua dimora provvisoria, si raccoglievano attorno a lui amici e discepoli, una piccola società scelta e cooptata, partecipe dell’otium studio-

sum e litterarum del poeta. Una sodalitas, un coetus, un convivium,

un contubernium analogo si formò a Firenze attorno a Coluccio Salutati, poi a Marsilio Ficino; a Roma attorno al cardinal Bessa- rione, poi a Pomponio Leto e Tommaso Inghirami; a Napoli attorno a Giovanni Pontano. I cultores humanitatum, uomini dediti all’amicizia e al dialogo, erano per definizione il contrario dei solitari e degli eremiti; sapevano benissimo che il loro patrono cristiano dell’Antichità, san Gerolamo, anche se nel “deserto”, era a capo di un gruppo di collaboratori e di discepoli. Il loro ideale d’humanitas mirava alla vittoria morale sulle passioni melanconi-

che o sulle inclinazioni volgari che dividono e lacerano. La mag- gior parte di questi grandi letterati ha lasciato una Corrispondenza che possiamo definire l’archivio della Repubblica letteraria o del- l’Accademia di cui erano il punto d’attrazione principale. Una delle prime sodalitates esplicitamente qualificate come accademia è stata l’Accademia pontaniana di Napoli, dove è nato il primo grande trattato moderno di conversazione civile, il De sermone. Un’altra, pressappoco contemporanea, era quella fondata da Pom- ponio Leto, che reinventava a Roma la scena antica secondo Vitru- vio e la rappresentazione all’antica delle commedie di Terenzio e di Seneca, in base alla ricostruzione della scansione degli esametri latini e all’arte quintifianiste delle attitidini espressive e dei gesti patetici. Questi sodalizi di filologi e antiquari erano allo tempo stesso scuole di comportamento, di educazione e di conversazione in società e non deve sorprendere che il termine di Academia sia stato spesso attribuito a scuole umanistiche private come quella di Vittorino da Feltre nella “Villa Gioiosa” di Mantova, che annove- rava tra i suoi allievi i figli di famiglie principesche: la “dolcezza”, del metodo di insegnamento ivi praticato e la raffinatezza dei tra- guardi che ci si prefiggeva di ottenere, contrastava sotto ogni punto di vista con l’“asperità” propria delle scuole “gotiche”, repulsiva per l’onore dei giovani di nobile nascita.

Al margine della corte aragonese che proteggeva Pontano e i suoi amici, o della corte pontificia, che cominciò con il persegui- tare crudelmente Pomponio Leto sotto Paolo II, prima di acco- glierlo sotto Sisto IV, le “Accademie” riuscirono a convertire l’ari- stocrazia a convenzioni verbali e regole di condotta sociale che troveranno la loro espressione in lingua volgare nel Cortegiano di Baldassarre Castiglione.

Quest’ultimo aveva frequentato l’Accademia romana, diretta da un allievo di Pomponio Leto, Tommaso Fedra Inghirami che la tenne in vita durante i regni di Giulio II e Leone X. Il teatro è il

luogo di convergenza di tutte le arti: in occasione delle feste del Senato romano, la seconda generazione dell’Accademia romana si trasformò in simposio capace di coordinare architettura, pittura, scultura, poesia, eloquenza, musica, danza, azione drammatica, secondo una retorica generale reinterpretata creativamente a partire dai testi e dalle testimonianze plastiche dell’Antichità greco-romana. La consonantia, la concordia, il concentus, il consensus, la conve-

nientia che questi sodalizi e queste scuole di civismo si propone-

vano di insegnare e praticare, invocando le Muse, non sono rima- ste a lungo esperimenti di laboratorio o appendici della biblioteca: sono stati incorporati dalla politica, e ciò non sorprende. La Firenze di Cosimo I de’ Medici, principe contestato e avido di con-

sensus, sarà per tutte le monarchie “assolute” d’Europa, un ter-

reno di sperimentazione dell’utilità politica delle Accademie uma- nistiche e di quello che si è soliti chiamare il governo attraverso le arti: arti del discorso, arti visive e musicali che le Accademie erano capaci di orchestrare armoniosamente attorno al Principe, corifeo delle Muse. In pochi anni, Cosimo e i suoi consiglieri, trai quali Vincenzo Borghini e Giorgio Vasari, seppero promuovere la crea- zione di un’Accademia fiorentina d’eloquenza dotata per la prima volta di statuti ufficiali, poi di un’Accademia del Disegno che rim- piazzava l’antica corporazione di San Luca; l’una e l’altra dimo- strarono di essere in grado di organizzare, insieme, nel 1564, attorno al feretro di Michelangelo, esequie sfarzose e di risonanza europea. La loro collaborazione non è estranea alla genesi delle

Vite di Vasari che presentarono le arti di Firenze e il loro tradizio-

nale mecenatismo da parte dei Medici, come una sorta di legitti- mazione genealogica del Granducato e della sua dinastia. La suc- cessiva apparizione a Firenze della Camerata Bardi, e l’invenzione al suo interno della “seconda pratica”, presto rivale vittoriosa della musica fiamminga, attribuì alle feste indette dalle corti fiorentine, mantovane e ferraresi, un potere di seduzione che non si limitava

ai soli cortigiani, ma che suggellava l’attaccamento di tutto il popolo ai suoi principi.

Galileo Galilei era il figlio di Vincenzo, uno dei principali teo- rici della nuova musica melodica, che si riteneva resurrezione della musica greca, così come la nuova pittura del Quattrocento si con- siderava resurrezione della pittura antica. Anche a Galileo capitò di dare lezioni di geometria e di ottica agli studenti dell’Accademia del Disegno. Le scienze della natura e le tecniche, sebbene non beneficiassero a Firenze di un’Accademia ufficiale o semi-ufficiale, come nel caso della Crusca per il sapere lessicologico, nel XVII secolo non erano tuttavia meno “avanzate” a Firenze e a Venezia rispetto alle capitali del Nord Europa. La brillante carriera dei Lincei durata quasi trent’anni nella capitale pontificia attesta il vigore della rete erudita e privata che legava tra loro le capitali ita- liane, Vincenzo Pinelli a Venezia e a Padova, Ulisse Aldovrandi a Bologna, Galileo a Firenze, il principe Federico Cesi e i suoi acco- liti a Roma e a Napoli: Ferrante Imperato, Giovambattista della Porta e Fabio Colonna. Legami tutti che attestano il carattere enci- clopedico del programma di ricerca linceo.

A seguito dei Lincei e dell’Accademia del Cimento, la sua erede fiorentina voluta dal principe Leopoldo de’ Medici (1657), fu tut- tavia a Parigi e a Londra, in stretta connessione con Amsterdam, che comparvero le prime Accademie propriamente scientifiche. Se la Royal Academy ha dovuto attendere la restaurazione di Carlo II per acquisire uno statuto ufficiale, nel 1662, nondimeno esisteva già con statuto privato da più di due decenni con il nome di Invi-

sible College. Nel programma dell’Advancement of Learning di

Francis Bacon (teorico e sperimentatore attentamente studiato dai Lincei), le ricerche di questo gruppo di filosofi della natura, spesso nobili, erano stimolate dall’interesse per lo sfruttamento razionale delle risorse naturali delle loro terre irlandesi.

La “nuova scienza” ha smesso di essere disinteressata. A Lon- dra come a Parigi, essa vuole fare dell’uomo il maestro e il padrone della natura. A Parigi, è nel clima neoplatonico delle Accademie dei Valois che si è formata l’Accademia privata del padre Mer- senne, assiduo corrispondente di Desargues e di Roberval, che ha trovato presso lo stesso Mersenne il suo primo punto di riferi- mento. L’Accademia delle scienze creata da Colbert, che riuscirà ad assicurarsi la collaborazione dell’olandese Christian Huyghens e dell’astronomo italiano Cassini, fondò ed espanse su basi ufficiali un’altra precedente Accademia scientifica privata, alla quale ave- vano prestato la loro collaborazione Pierre Gassendi e Blaise Pascal: ossia l’Accademia del magistrato Habert de Montmor.

In apparenza, la costellazione delle Accademie reali create o riformate da Colbert a partire dal 1661-1663 radunava attorno all’amministrazione del Regno francese il complesso delle disci- pline dell’Encyclopédie. L’Académie française, specializzata nella

retorica e nell’eloquenza francese, era addetta agli elogi del re, in

versi e in prosa, nella lingua più pura del suo regno. L’Accademia di Pittura e Scultura, e l’Accademia d’Architettura erano incari- cate dell’ideazione e della decorazione degli edifici reali. L’Acca- demia della musica e la Comédie francese avevano il compito di curare gli spettacoli e i concerti intonati al “grand goût”, di cui il re fungeva in qualche modo da diapason. L’Accademia delle Scienze apportava il suo contributo alla tecnologia militare e marittima, alla cartografia del reame e alle sue statistiche. Alla fine del regno, si delineò un’Accademia diplomatica a Versailles, ma non ebbe forma duratura. Ognuna di queste Accademie, arruolate principalmente per cooptazione, riuniva i migliori talenti del regno. La loro fedeltà al re tuttavia non le rendeva servili. È in seno all’Accademia di Pittura e Scultura che scoppiò, quando ancora Colbert era in vita, la Querelle sul disegno e sul colore, la quale riproponeva la disputa cinquecentesca che aveva contrapposto in

Italia Ludovico Dolce, ammiratore di Tiziano e dei Veneziani, a Giorgio Vasari, incensatore di Michelangelo e dei Fiorentini. È in seno all’Académie française che nel 1687 esplose la Querelle degli Antichi e dei Moderni. Nel 1701, per equilibrare i due partiti, il re contribuì alla creazione da parte dell’abate Bignon dell’Accademia

des Inscriptions et Belles Lettres, roccaforte per circa un secolo

della filologia, dell’erudizione, dell’antiquaria e degli studi orien- talistici.

La monarchia francese aveva dunque creato a Parigi, e ospitato al Louvre, un vero e proprio teatro ufficiale della Repubblica delle Lettere, sul quale l’Europa teneva fisso lo sguardo. Sono tuttavia gli eruditi giornalisti calvinisti esiliati in Olanda, come Bayle, Basnage, de Beauval, Jean Leclerc, che hanno messo in circola- zione presso il pubblico europeo l’espressione francese di “Répu- blique des Lettres”, imprimendole un carattere critico e restituen- dole il senso di indipendenza privata che Cartesio aveva attribuito al concetto di “pubblico” nel suo Discorso sul metodo. Sono non- dimeno la filosofia sensista di Locke e la scienza newtoniana, fatta propria da Voltaire, che sconvolsero, diffondendosi da Londra, la gnoseologia e la scienza cartesiana che regnava in Francia all’Ac- cademia delle scienze. Sono infine la filologia e l’antiquaria italiane che fornirono le loro armi erudite al partito francese degli “Anti- chi”, permettendogli nel corso del XVIII secolo di riconquistare sul terreno delle arti ciò che aveva perso su quello delle scienze e della tecnica. La sostanziale pluralità, il lato agonistico come quello inevitabilmente comunicativo e critico della Repubblica delle Lettere europea, avevano in tal modo evitato che il sistema delle Accademie reali costituito da Luigi XIV si irrigidisse in una qualsivoglia ortodossia. Ma ad ogni buon conto il pubblico pari- gino, frondista per natura, la sua brama di leggere in traduzione libri stranieri o censurati, e lo stesso margine di libertà lasciato in Francia alle Accademie reali, non avrebbero consentito di tollerare

ciò che era possibile in Prussia: ossia l’Accademia come semplice appendice e ornamento del potere principesco.

Se il secolo XVIII è tanto intelligente quanto critico, è perché la corrispondenza, la circolazione di libri e opuscoli, le traduzioni, i viaggi, la conversazione in ambito privato, e una indomabile curiosità “public” hanno immensamente amplificato l’attenzione per la Repubblica europea delle Lettere, e allo stesso tempo con- tenuto, e respinto, tutti i tentativi del potere di riservare alle sole Accademie ufficiali l’autorità di parola, l’impero degli spettacoli e il monopolio del sapere.

In conclusione, vorrei suggerire una tesi eretica: la fortuna della Repubblica degli umanisti e dei filosofi della natura, da Petrarca a Cartesio, è quella d’aver avuto per “public” in Italia e in Francia, dei nobili, nel senso che Aristotele, nel libro secondo della sua

Retorica, attribuisce a questa classe di uomini fieri e indocili, e

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