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2.6 “Prodotti ibridi”: quale paese di origine?

CARATTERISTICHE DEL PRODOTTO

4.1 Italianismi in Giappone

Anticipando il risultato positivo dell’indagine condotta dalla Camera di Commercio Italiana in Giappone sull’immagine dell’Italia,233

una domanda sorge spontanea: quale è il motivo che ha reso l’Italia popolare in Giappone? Quali sono state le tappe di questa escalation che continua tuttora? E soprattutto: dietro la percezione di alta qualità e eleganza dei prodotti Made in Italy, si potrebbero nascondere altre cause di carattere storico-culturali?

Miyake ha ripercorso le tappe principali che hanno reso popolare l’Italia e la sua cultura in Giappone individuandone le cause più significative. Il risultato è un curioso quadro storico che affonda le sue radici nell’epoca Meiji (1868).234

Innanzitutto va premesso che la posizione dell’Italia in Giappone rientra in un discorso di più ampio respiro: quello dell’occidentalismo. Già Gramsci alla fine degli anni ’20 individuò nei concetti di “occidente” e “oriente”, dei costrutti storici, convenzionali. Entrambi sono figli della visione eurocentrica che si andò affermandosi a partire dalla fine del XV sec. con l’inizio dell’era coloniale che divise idealmente il mondo in due blocchi: uno, quello “occidentale”, espressione di progresso, scienza, razionalità, individualismo, mascolinità e razza bianca e un altro, quello orientale, identificato come arretrato, tradizionalista, statico, emotivo, femminile. Un calderone, quest’ultimo nel quale finivano indistintamente tutte le altre etnie che venivano escluse dal primo gruppo. “Occidente” e “oriente” sono inoltre due concetti che si alimentano a vicenda: uno afferma l’esistenza dell’altro e in questo gioco di specchi si fa molto spesso fatica a distinguere il soggetto passivo da quello attivo, chi impone un ruolo e chi lo accetta finendovi per identificarsi.235

Quando il Giappone nel XIX sec. mise fine alla secolare politica di parziale isolamento dal contesto internazionale, si trovò immediatamente catapultato in un mondo che lo abituò ad identificarsi nell’“altro”, nel “diverso”, nell’ “orientale”, nel “sottosviluppato”. Questa sofferta reputazione ha così spinto il Giappone a svilupparsi dal punto di vista economico, politico, tecnologico e scientifico portandolo a diventare una tra le maggiori potenze mondiali. L’evoluzione non ha però riguardato il complesso identitario con il quale anche oggi il Paese si trova a dover fare i conti: idealmente distante dagli altri paesi asiatici, dai quali prese le distanze già alla fine del XIX sec., ma mai troppo vicino ai “paesi occidentali” per ovvie lontananze geografiche e storiche. Il Giappone si trova dunque a cavallo tra due mondi e la sua affermazione identitaria rimane fondamentalmente ancorata al non essere “occidentale”. Come riporta Miyake, rifacendosi alle parole del filosofo giapponese Sakai

What gives the majority of Japanese the characteristic image of Japanese culture, is still its distinction from the so-called West…The loss of the distinction between the West and Japan would result in the loss of Japanese identity in general.236

Accanto a quelle europee e americane si sono sviluppate nel tempo altre forme di “occidentalismi alternativi”, nei quali rientra anche quello italiano. L’Italia, diversamente da Gran Bretagna, Germania, Francia e Stati Uniti, non ha mai avuto rapporti diretti significativi con il Giappone fino al secondo dopoguerra. E fino agli anni ‘80, come era stato in passato, le notizie che arrivavano dell’Italia erano filtrate dall’intermediazione degli altri paesi europei e dagli Stati Uniti. Non stupisce dunque se l’immagine dell’Italia in Giappone sia sempre rimasta legata a quella di un Paese esotico, culla della temuta e allo stesso tempo riverita “civiltà occidentale”, scrigno di tesori artistici di ogni sorta e genitrice dei più famosi letterati e filosofi della storia. Ma il filtro dell’intermediazione si è dimostrata un’arma a doppio taglio: a questa

233AMBASCIATA D’ITALIA A TOKYO, “Insistere sulla promozione”, Viste dalla Camera, Camera di Commercio Italiana in Giappone (a cura di), 2006, p. 8.

234 MIYAKE, “Italy Made in Japan”, cit., pp. 195-213. 235 Ivi, pp. 196-199.

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visione idilliaca del “Bel Paese”, si è accompagnata anche l’immagine di una realtà fatta di instabilità politica, debolezza economica e arretratezza industriale. Queste caratteristiche in realtà hanno da sempre attirato le simpatie in Giappone da parte di coloro che non si sono mai rassegnati nel vedersi discriminati come “orientali”, operando come una sorta di effetto catartico, come la parte imperfetta dell’”occidente” che permette al Giappone di avvicinarsi e trovare anche lui un suo spazio.237

I veri contatti diretti tra Giappone e Italia si ebbero solo a partire dagli anni ’80. Nel 1986 fu pubblicata sulla rivista giapponese Dime un sondaggio dove si classificavano gli italiani come le persone più stupide al mondo. Come motivazione a questo secco giudizio, la rivista si richiamava all’ormai affermata idea che gli italiani fossero troppo euforici, sempre intenti a scioperare e a perdere tempo dietro alle donne e ai piaceri della tavola, sottraendo tempo ed energie al lavoro.238

Fortunatamente questo tipo di indagini pseudoscientifico-sociologiche, nelle quali era ancora ben evidente il segno lasciato da secoli di supremazia culturale da parte delle vecchie potenze “occidentali”, finì lasciando posto ad un nuovo periodo di scoperta graduale dell’Italia. Questo cambiamento, fu il risultato di due importanti avvenimenti che interessarono la società e l’economia giapponese:

- l’apprezzamento dello yen rispetto alla lira

- l’emancipazione e l’affermazione delle donne nel mondo del lavoro che portò ad una loro maggiore libertà, disponibilità economica e consapevolezza del ruolo sociale da esse rivestito.239

Tutto ciò consentì in primo luogo un maggior potere di acquisto di prestigiosi prodotti italiani di alta qualità che si tradusse in un boom del Made in Italy. In particolare furono appunto le donne ad approfittare di questa favorevole convergenza dei cambiamenti economici e sociali: non a caso il Made in Italy in Giappone nacque proprio come fenomeno urbano femminile. Le donne, desiderose di una maggiore affermazione a livello sociale e di nuovi stili di vita alternativi agli schemi sociali giapponesi, percepiti come troppo oppressivi, si interessarono sempre di più ai prodotti della moda italiani che di fatto funsero da apripista a tutti gli altri settori del Made in Italy oggi presenti in Giappone.240

Lo yen forte, inoltre, permise ad un numero sempre maggiore di persone di potersi recare in Italia grazie a pacchetti turistici abbordabili: soprattutto quest’ultimo cambiamento consentì a molti di entrare in contatto diretto con la vera realtà italiana e scoprire non solo il lato economico del Paese ma anche quello culturale e sociale. Numerosi programmi televisivi, giornali e riviste aumentarono i loro servizi riguardanti l’Italia; si diffusero ristoranti italiani sempre più attenti a fornire piatti il più possibile fedeli agli originali (in netta controtendenza all’americanizzata cucina italiana che giunse in Giappone per prima dagli Stati Uniti)241

e aumentò la percentuale delle persone desiderose di studiare la lingua italiana.242

Tutto ciò però non portò ad un reale cambiamento nella percezione stereotipata dell’Italia ma solo ad una sua rielaborazione. In questo giocò un ruolo fondamentale il lavoro della scrittrice Shiono Nanami, i cui libri sulla storia e sulla cultura italiani rappresentavano il must di quanti volessero intraprendere un viaggio in Italia. In particolare furono i suoi studi sull’Impero Romano quelli che lasciarono il segno più significativo nell’immaginario collettivo e che contribuirono all’accettazione dell’immagine italiana. Shiono infatti esaltò il ruolo della religione politeista dell’antica Roma, attribuendo a questa la funzione di garantire lo sviluppo di uno spirito libero, razionale e realista della persona, tracciando così un’implicita linea di collegamento con la religione shintoista e il Giappone. A questa visione “illuminista” contrappose l’irrazionalità del monoteismo cristiano, al quale venivano associati paesi come l’America, con la quale il Giappone ha sempre avuto un rapporto complesso e a tratti tormentato. Questa interpretazione velatamente nostalgica, permise all’Italia di mantenere e rafforzare il suo primato culturale sugli altri paesi e allo stesso tempo essere ben

237

MIYAKE, “Italy Made in Japan”, cit., pp. 200-201. 238 Ivi, p. 202.

239 Ivi, pp. 202-203. 240 Ibid.

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La cucina italiana che si andò affermando in questo primo periodo in Giappone non era altro che la rivisitazione americana dei piatti più rappresentativi dell’Italia, quali pizza e pasta. Questi infatti furono importati per la prima volta in Giappone dai soldati italo-americani durante l’occupazione alleata alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Per approfondimenti vedi MIYAKE, Italy Made in Japan, cit., p. 206-207.

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accettata in Giappone in quanto non compromessa da difficili rapporti storici e politici con quest’ultimo Paese. Inoltre, lo stereotipo degli italiani di simpatici perditempo, amanti del buon vivere e delle donne, regala tuttora l’idea di una vita più rilassata, godibile e frenetica rispetto a quella giapponese. E soprattutto l’immagine di Paese ancora poco sviluppato lo rende, a livello irrazionale, potenzialmente innocuo sia dal punto di vista bellico che economico, diversamente da quanto accade invece nei confronti di Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania.243 Per usare le parole di Miyake

“Italy” is seductive because it allows Japan’s cultural identity to put itself in a strategically favorable position with regard to the difficult and deep rooted tensions of pro-Westernism and anti-Westernism. […] “Italy” as an orientalized “West” proves to be at present the most suited cultural other in order to satisfy self-assuring identification and mediation drives in the face of the so much loved/feared hegemonic “West”.244