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L’analisi sofistico-retorica dei prologhi eschilei (Ran 1126 ss.)

Nel documento Aristofane e i presocratici (pagine 92-96)

2. La parodia delle teorie linguistiche

2.2. L’analisi sofistico-retorica dei prologhi eschilei (Ran 1126 ss.)

Nel Protagora Platone ritrae icasticamente i sofisti nel loro aspetto materiale, ne richiama le dottrine più note, dalla sinonimica di Prodico al conflitto fra nomos e physis menzionato da Ippia, e riproduce le tecniche e i metodi sofistici. Tra queste Platone illustra le tecniche di una forma embrionale di esegesi poetica promossa dai sofisti11 (340 a ss.). Socrate e l’omonimo protagonista si cimentano

nell’esegesi di un carme di Simonide (542 PMG). Ora, in questo brano larga parte della critica ha riconosciuto la presenza di elementi tecnici attendibili storicamente. Considerata la prossimità tra la situazione delle Rane, in cui Eschilo ed Euripide esaminano reciprocamente la correttezza dei loro prologhi, e quella del brano di Protagora, mi sembra utile riassumere brevemente le fasi dell’esegesi illustrate nel dialogo platonico12.

ἔνη καὶ νέα Fidippide afferma che il significato esatto della legge non viene colto: τὸν νόμον / ἴσασιν ὀρθῶς ὅ τι νοεῖ (Nub. 1185–1186).

11 In particolare, cf. Brancacci 2002). Cf. anche Giuliano 1991. Contra, esiste una tradizione di studi che ritiene questo passo un divertissement platonico volto a ridicolizzare i coevi interpreti della poesia – cf. Vlastos 1956.

12 Cf. Gianvittorio 2014, 448; Mayhew 2011, 246–247; Nieddu 2000, 100; Dover 1993, 29–35; Radermacher 1914.

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Nell’esordio del brano Protagora afferma che bisogna innanzitutto comprendere se le cose sono state dette correttamente oppure no (ἔστιν δὲ τοῦτο τὰ ὑπὸ τῶν ποιητῶν λεγόμενα οἷόν τ’εἶναι συνιέναι ἅ τε ὀρθῶς πεποίηται καὶ ἃ μή). In altre parole si deve verificare la presenza di eventuali contraddizioni. Quindi, prosegue Protagora, si deve essere in grado di analizzare quanto è stato detto (καὶ ἐπίστασθαι διελεῖν τε) e, infine, saper render conto della propria interpretazione se interrogati (καὶ ἐρωτώμενον λόγον δοῦναι)13.

Presentato il metodo, Protagora passa alla parte pratica. Egli domanda a Socrate se un carme è stato composto correttamente anche se il poeta si contraddice in modo palese. Alla risposta negativa di Socrate Protagora illustra la contraddizione in cui Simonide sarebbe caduto, affermando dapprima che «diventare uomo buono veramente è difficile» (ἄνδρ’ ἀγαθὸν μὲν ἀλαθέως γενέσθαι χαλεπόν) e successivamente disapprovando il detto di Pittaco «è difficile essere buono» (χαλεπὸν φάτ’ ἐσθλὸν ἔμμεναι). Dopo aver contrapposto le due affermazioni Protagora conclude: «poiché condanna chi dice le cose che dice lui, è chiaro che condanna anche se stesso, cosicché o prima o dopo non parla in modo logicamente coerente». Infatti se per Simonide è davvero difficile essere un uomo valente, come può biasimare il detto di Pittaco secondo il quale è difficile essere buoni? Le due proposizioni χαλεπὸν ἐσθλὸν ἔμμεναι e ἀγαθὸν γένεσθαι χαλεπόν sembrano inevitabilmente in contraddizione tra loro. A questo punto Socrate interviene, avvalendosi del sostegno e dell’arte sinonimica di Prodico: per risolvere la contraddizione individuata da Protagora, è possibile fare appello ad una differenza semantica tra γένεσθαι e ἔμμεναι, il primo dei quali vorrebbe dire, appunto, “diventare”, il secondo “essere”.

In considerazione di questa specificazione, la contraddizione di Simonide è cancellata: τὸν δέ γε Πιττακόν, ἦν δ’ ἐγώ, μέμφεται, οὐχ ὡς οἴεται Πρωταγόρας, ταὐτὸν ἑαυτῷ λέγοντα, ἀλλ’ ἄλλο (Prot. 340 c)14.

13 Per la divisione in tre fasi seguo Brancacci 2002.

14 Il confronto prosegue lungo questa stessa linea, poiché Protagora afferma che, se si accetta questa spiegazione, ne nasce un errore ancora più grande – τὸ ἐπανόρθωμά σοι, ἔφη, ὦ Σώκρατες, μεῖζον ἁμάρτημα ἔχει ἢ ὃ ἐπανορθοῖς Da notare che quest’espressione è simile alla battuta di Euripide: ἔτι μᾶλλον ἐξήμαρτεν ἢ ‘γὼ ‘βουλόμην (Aristoph. Ran. 1147).

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Ora, se guardiamo alle Rane sembra possibile rintracciare una certa affinità nello svolgimento dell’analisi dei prologhi. Innanzitutto Euripide contesta ad Eschilo la formulazione con cui Oreste si rivolge al dio Ermes nel prologo delle

Coefore, definendolo πατρῷ’ἐποπτεύων κράτη (“che vegli sulla casa paterna”): come poteva Oreste dire che Ermes vegliava sulla casa paterna, se il padre di Oreste è morto di morte violenta, per mano della moglie, vittima di inganni occulti? (πότερ’ οὖν τὸν Ἑρμῆν, ὡς ὁ πατὴρ ἀπώλετο / αὐτοῦ βιαίως ἐκ

γυναικείας χερὸς / δόλοις λαθραίοις, ταῦτ’ “ἐποπτεύειν” ἔφη, vv. 1141–1143). Essendo il nesso πατρῷ’ἐποπτεύων κράτη ambiguo (come già lo scoliaste rilevava15), Eschilo può ribattere, dichiarando che l’aggettivo πατρῷος va inteso

in relazione a Zeus, padre di Ermes, il quale è invocato in qualità di ministro e messaggero del padre: οὐ δῆτ’ ἐκεῖνος, ἀλλὰ τὸν Ἐριούνιον / Ἑρμῆν χθόνιον προσεῖπε, κἀδήλου λέγων / ὁτιὴ πατρῷον τοῦτο κέκτηται γέρας (vv. )16. In

sostanza, l’errore che Euripide imputa ad Eschilo consiste nella contraddizione tra la vicenda narrata e la qualifica di Ermes; in questo la situazione non sembra molto diversa dalla prima fase del metodo di Protagora, dove si valuta, come si è detto, «se le cose sono state dette dal poeta in modo corretto oppure no» (συνιέναι ἅ τε ὀρθῶς πεποίηται καὶ ἃ μή).

La seconda obiezione che Euripide muove ad Eschilo riguarda la ridondanza: in due prologhi Eschilo fa seguire all’interno di un medesimo verso due sinonimi (ἥκειν e κατέρχεσθαι, v. 1157; κλύειν e ἀκοῦσαι17): δὶς ταὐτόν ἡμῖν εἶπεν ὁ σοφὸς

Αἰσχύλος (v. 1154); τοῦτ’ ἕτερον αὖ δὶς λέγει / “κλύειν, ἀκοῦσαι”, ταὐτὸν ὂν σαφέστατα (vv. 1173–1174).

Il problema è risolto per mezzo di una precisazione lessicale: i verbi ἥκειν e κατέρχεσθαι, secondo Eschilo, non sono equivalenti, perché il secondo significa precisamente “tornare in patria come reduce”18. In questa distinzione è possibile

15 Schol. Ran. 1126 b: τὸ “πατρῷα” κεκίνηκε τὴν ἀμφιβολίαν ̇ ἤτοι γὰρ “τοῦ ἐμοῦ πατρὸς” Ὀρέστης φησίν, ἢ “τὰ καθ’Ἅιδου” λέγει “πατρῷα κράτη” τοῦ Ἑρμοῦ καθ’ὃ καὶ χθόνιοε ὁ Ἑρμῆς.

16 Eschilo: «Ma lui non dice questo: con “ctonio” si volgeva a Ermes “benefico” e lo chiariva dicendo che Ermes esercita questa funzione in quanto l’ha ereditata da suo padre».

17 Entrambi appartengono al prologo delle Coefore, perduto se non fosse per il riferimento di Aristofane.

18 In diversi luoghi il verbo κατέρχεσθαι copre questa specifica accezione: cf. Hdt. IV, 4; Aesch. Ag. 1647; Choeph. 3, Eum. 462, Soph. Oed. Col. 1, Plat. Ap. 21a.

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riscontrare la stessa tecnica sinonimica utilizzata da Socrate-Prodico nel

Protagora per risolvere la contraddizione rinvenuta nei versi di Simonide19.

Euripide obietta che Eschilo non si è attenuto alla realtà dei fatti: Oreste è tornato di nascosto, non in qualità di reduce (vv. 1167–1168). Qui si fermano le capacità di comprensione di Dioniso, che lamenta di non comprendere quest’ulteriore distinzione (ὅ τι λέγεις δ’ οὐ μανθάνω, v. 1169).

La stessa accusa di incongruenza fra espressione poetica e narrazione della vicenda viene imputata da Eschilo ad Euripide per il prologo della (perduta)

Antigone. Qui la persona loquens afferma che Edipo era felice all’inizio e che

successivamente cadde in disgrazia:

Αι. μὰ τὸν Δί’ οὐ δῆτ’, ἀλλὰ κακοδαίμων φύσει. ὅντινά γε πρὶν φῦναι μὲν Ἁπόλλων ἔφη ἀποκτενεῖν τὸν πατέρα, πρὶν καὶ γεγονέναι· πῶς οὗτος ἦν τὸ πρῶτον εὐτυχὴς ἀνήρ; Ευ. “εἶτ’ ἐγένετ’ αὖθις ἀθλιώτατος βροτῶν.” Αι. μὰ τὸν Δί’ οὐ δῆτ’, οὐ μὲν οὖν ἐπαύσατο.

Euripide: «“All’inizio Edipo era un uomo fortunato...”

Eschilo: «Ma niente affatto, per Zeus! Era sventurato di natura: tant’è che, prima della sua nascita – anzi, prima che fosse generato –, Apollo predisse che avrebbe ucciso il padre. Come si può dire che all’inizio costui era un uomo fortunato?» Euripide: «Ma poi divenne il più infelice dei mortali».

Eschilo: «Ma niente affatto, per Zeus! Piuttosto, non ha mai cessato di esserlo».

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Nel documento Aristofane e i presocratici (pagine 92-96)