2. Orientalismo, auto-orientalismo e alcuni casi rappresentativi
2.3 L’auto-orientalismo nella letteratura: il caso di Murakami Haruki
A tal proposito, si riporta l’esempio dello scrittore Murakami Haruki, di cui ha scritto Matthew Richard Chozick, che se pur non essendo direttamente legato al cinema, in una certa qual misura rientra nei medesimi schemi che adopera un regista nella realizzazione di un film come quelli sopracitati. La critica letteraria giapponese infatti, ha accusato Murakami di “essere americanizzato”60, avendo lo scrittore vissuto fuori dal Giappone per svariati anni, o quanto meno di aver adattato il suo stile e i contenuti delle sue opere ai canoni e al background culturale di un lettore americano.61 L’autore stesso non nega di aver negli anni perso contatto con la cultura giapponese. , invece, «American reviewers often treat the author’s fiction as inseparable from his cultural heritage».62 Eppure, per quanto queste due visioni possano apparire antitetiche, l’una non esclude necessariamente l’altra. Vero è che leggendo un romanzo di Murakami ci si accorge relativamente presto di quanto questo sia colmo di riferimenti a luoghi, canzoni, marche, personaggi politici o dello
60 Matthew Richard CHOZICK, “De-Exoticizing Haruki Murakami’s Reception”, in Comparative
Literature Studies, Vol. 45, No. 1, East-West Issue, Penn State University Press, 2008, p. 62.
61 CHOZICK, “De-Exoticizing Haruki Murakami’s Reception”, 2008.
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spettacolo americani, inglesi, o comunque “occidentali”. D’altro canto, ciò non vuol dire che non siano presenti elementi di rimando a usi e costumi giapponesi, essendo comunque le sue storie principalmente ambientate in Giappone. Con un po’ di accortezza, però, ci si renderà conto che Murakami fa raramente menzione della cultura giapponese contemporanea, rimanendo spesso sul generico, mentre tutto ciò che è americano/inglese viene descritto con maggiore cura. Questo perché un lettore ha bisogno di punti di riferimento più o meno saldi, per poter collocare i personaggi in un dato spazio, in un dato tempo, o in una data situazione che comunque abbia degli aspetti a lui familiari. Allo stesso tempo, la peculiarità di Murakami, dal punto di vista di un lettore per esempio americano, è proprio il fatto di essere giapponese, e quindi rinunciare alla componente “esotica” delle ambientazioni o dei personaggi, sarebbe come privarsi di un fondamentale punto di attrattiva. Quindi in un certo senso è vero che Murakami è inseparabile dal suo background culturale. E inoltre, tenendo comunque il Giappone al centro della narrazione, non viene intaccata l’accessibilità dell’opera da parte di un lettore nipponico. Particolare degno di nota è la scelta delle copertine dei romanzi, a seconda del Paese di pubblicazione: le copertine dei romanzi tradotti in lingua inglese – ma anche quelli in italiano – mostrano il più delle volte una modella, presumibilmente giapponese, che conferisce al libro una carica esotica, oltre che erotica, come nel caso di La ragazza dello Sputnik (Supūtoniku no Koibito, 1999); inversamente, le copertine dei romanzi in lingua originale mostrano, al posto delle modelle giapponesi, «non-Japanese art in the form of English language maps, Russian spacecrafts, Balinese contemporary painting, Italian sculpture, Czech text, and so forth».63 Inoltre, contenendo la maggior parte dei titoli parole in inglese, anche nella versione originale, queste devono essere scritte in katakana, ed è così che le opere di Murakami acquisiscono una sfumatura esotica anche agli occhi di un lettore giapponese. Allo stesso tempo, Murakami lascia generalmente ampio spazio all’interpretazione, non fornendo al lettore informazioni troppo dettagliate, come ad esempio nella descrizione fisica di un personaggio, in modo che questo possa apparire esotico o familiare nella mente del lettore, a sua discrezione. Per tutti gli aspetti sopracitati – e per altri ancora che richiederebbero troppo spazio per essere esaminati – Chozick definisce la narrativa di Murakami «as almost
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universally “foreign”, while at the same time universally accessible»64. Il successo di Murakami dipenderebbe quindi sia dalla sua capacità di rendere le proprie opere compatibili con qualsiasi lettore, indipendentemente dal suo bagaglio culturale, e dalla sua conoscenza del Giappone o di come esso venga percepito.
Tornando al mondo del cinema, si può vedere come cineasti del calibro di Sono Shion, Miike Takashi, e tutti gli altri registi che hanno realizzato film per la Sushi Typhoon, rientrino in un processo di auto-orientalismo più generale, che attraversa più aspetti della cultura e che si manifesta in diverse forme di arte. Nel caso di Sono Shion e Miike Takashi la questione è più complessa, in quanto entrambi i registi hanno spaziato su più generi e hanno affrontato tematiche differenti. Relativamente più semplice è il caso di tutti gli altri cineasti menzionati, in quanto il fine ultimo delle loro pellicole è dichiarato in partenza dal motto della Sushi Typhoon, e ne deriva quindi un tentativo, portato all’estremo, di accattivarsi il pubblico americano ed europeo, sfruttando gli elementi della cultura giapponese intorno ai quali l’orientalismo, nelle sue forme disparate, ha contribuito a creare un’aura di esotismo e magia. Più in generale, come sostiene Peter Lehman, si potrebbe dire che, con un processo analogo a quello che Edward Said aveva descritto come la creazione de “l’Oriente” da parte de “l’Occidente”, gli studiosi di cinema “occidentali” abbiano sostanzialmente creato il “cinema giapponese”. In parole semplici, la modalità con cui alcuni studiosi di cinema hanno descritto l’unicità, o comunque la peculiarità, di alcuni registi nipponici, ha fatto sì che si arrivasse a considerare l’intero cinema giapponese come qualcosa di separato dal cinema “classico”.65
Dal canto dei registi e degli scrittori giapponesi, invece, se alcuni hanno semplicemente preferito salire sulla nave dell’orientalismo e seguire la sua rotta senza obbiezioni, approfittando al contrario dei vantaggi che ciò comporta, altri, in maniera spesso più velata, hanno cercato di infiltrarsi nel sistema per sovvertirlo. Tuttavia, non esiste una linea di demarcazione precisa, e trattandosi di arte, e quindi di qualcosa che per definizione è oggetto di diverse interpretazioni, si capisce che un opera possa essere letta in entrambe le chiavi, e che a seconda di questo, essa assumerà un significato completamente diverso.
64 Ivi, cit., p.64.
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Peter LEHMAN, “The Mysterious Orient, the Crystal Clear Orient, the Non-existent Orient: Dilemmas of Western Scholars of Japanese Films”, in The Journal of Film and Video, Vol. 39, No. 1, Japanese Cinema, University of Illinois Press, 1987, p. 5.
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Ed è con queste premesse che si tenterà ora di analizzare l’opera del regista Tsukamoto Shin’ya, il cui caso è esemplificativo di quanto detto finora, come si vedrà nel prossimo capitolo.
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