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L’educazione tradizionale ebraica: dal cheder alla jeshivah

CAPITOLO 1: I RAPPORTI DI EUGENIO ZOLLI CON RAFFAELE PETTAZZONI

I. L’educazione tradizionale ebraica: dal cheder alla jeshivah

La formazione strettamente intesa

15

di Zolli iniziò, come per ogni altro bambino ebreo, al

compimento del quarto anno di età, quando venne mandato al cheder, la scuola ebraica. Qui, “dalla

mattina alla sera i fanciulli sedevano a gruppi davanti ai testi sacri. Imparavano a leggere la Bibbia,

a scrivere e a recitare preghiere in ebraico, ma anche apprendevano nozioni di aritmetica e i principi

prefazione di V. Lanternari, Editrice Ponte Nuovo, Bologna 1966, pp. 1-137. Per una valutazione del metodo storico- religioso di Pettazzoni da parte dei suoi allievi si vedano: A. Brelich, Storia delle Religioni: perché?, Liguori, Napoli 1979, pp. 129-130; V. Lanternari, Antropologia religiosa, Dedalo, Bari 1997, pp. 121-125; U. Bianchi, Storia

dell’etnologia, Edizioni Abete, Roma 1971, pp. 247-249; D. Sabbatucci, Sommario di storia delle religioni, Il Bagatto,

Roma 1991. Per un excursus sulla metodologia di ricerca storico-religiosa in Italia e sulla fondazione scientifica della Storia delle Religioni si veda la raccolta di saggi di Pestalozza, Pettazzoni, Brelich e Bianchi, curati da Pier Angelo Carozzi: Storia delle religioni: la metodologia della scuola italiana, Università degli Studi di Verona, Dipartimento di Filosofia, Verona 1996. Particolarmente interessante risulta infine la ponderata riflessione critica di Prandi sui limiti metodologici della scuola romana: C. Prandi, Note in margine al convegno per gli 80 anni di “SMSR”, SMSR, vol. 72, 2006, fasc. 1, pp. 165-169.

14 AST, Prefettura. Atti Generali, b. 521 (provvisoria), Comunità Israelitica di Trieste. Ruolo del personale dipendente

della Comunità e delle sue istituzioni secondo lo stato del 13 marzo 1939 – XVII, Comm. prof. Israele Zolli (riportato in G. Rigano, op. cit., p. 51, n. 111); AUCEI, fondo UCII dal 1934, b. 32E Funzionari delle comunità, fasc. 1938 Rabbini,

hazanim, maestri, sfasc. 1938 Roma, Domanda di discriminazione non presentata di Israele Zolli senza data [II metà di

maggio 1939], p. 1. Si rammenti che lo stesso Furlani, di cinque anni più giovane di Zolli, fu membro della commissione che gli attribuì la libera docenza nel 1926. Si vedano: «Capitolo 2», pp. 85-86; «Capitolo 5», pp. 327-328.

15 Ancor più di quanto non avvenga comunemente all’interno dei nuclei familiari, la famiglia rappresenta per gli ebrei il

cardine imprescindibile di ogni educazione. La famiglia non è solamente la primaria agenzia educativa di socializzazione, ma è il luogo in cui il bambino viene iniziato all’ebraismo. Alla madre spetta il compito di porre le fondamenta dell’educazione e di erigere i pilastri del rispetto della Legge e dei suoi precetti, dell’ubbidienza e della pietà. In ogni atto della vita quotidiana, padre e madre devono testimoniare altresì la saldezza della propria fede, il rispetto e l’osservanza delle tradizioni, per cui si può ben dire che la formazione, sia culturale che religiosa, di un ebreo inizi entro le mura domestiche. Su questo aspetto, oltre ai testi menzionati nell’«Introduzione», p. 5, n. 11, si veda: I. Zoller, Per la storia dell’educazione ebraica in Italia, «L’Idea Sionistica», anno II, nn. 9-10, gennaio-febbraio 1931, pp. 17-19; E. Zolli, L’educazione presso gli Ebrei, Viola, Milano 1952.

della morale. Durante le ore di studio non regnava affatto un silenzio di tomba nell’aula: i ragazzi

cantavano in coro o leggevano con voce cantilenante. Quella che – a chi si trovasse all’esterno –

sembrava una nenia era considerata un mezzo particolarmente adatto a favorire la concentrazione.

La sorveglianza era affidata al melamed, termine yiddish che designava «colui che stimola allo

studio»; in genere non era molto colto, a differenza del maestro, detto more, che insegnava invece

nelle classi del secondo ciclo. […]. Costretto ad avere successo a tutti i costi, il sorvegliante era

solitamente molto severo, ma a quel tempo era convinzione comune, anche nelle comunità ebraiche

dell’Europa dell’Est, che i bambini dovessero imparare sin dalla tenera età a capire quanto la vita

fosse dura per essere in grado di destreggiarsi meglio nelle immancabili traversie degli anni futuri.

La pigrizia e l’oziosità non venivano tollerate e non erano rare le punizioni corporali. I genitori più

poveri non avevano né il tempo né i mezzi per controllare le effettive capacità del melamed, sicché

spesso gli anni trascorsi nel cheder erano per molti piccoli ebrei un vero supplizio”

16

. Quanto

dovesse essere severa e rigida l’educazione impartita al cheder ci viene testimoniato dalle pagine

autobiografiche dello stesso Zolli

17

il quale ricorda come fosse costretto, insieme ai suoi compagni,

a “leggere e tradurre – spesso sotto un uragano di botte – i testi sacri: la Torah con commento di

Rabbi Shelomo Izchaqi (Rashì), i Salmi”

18

e come le punizioni fossero talvolta assolutamente

gratuite e avvilenti.

[…] un mattino il maestro, senza dirmi il motivo, mi denudò sino alla metà, mi mise una scopa in mano e mi obbligò a stare fermo per delle ore in un angolo vicino alla stufa. Lo scopo? Una punizione morale. […]. Non ebbi il coraggio di domandare spiegazioni. Il nostro maestro era, sotto taluni riguardi, almeno dal lato del metodo, un lontano precursore di Mussolini: il Duce ha sempre ragione19.

La severità dei rapporti educativi era una costante tanto a scuola che in famiglia: i bambini

ebrei venivano educati a portare “rispetto ai genitori, prima, ai maestri, ai capi della comunità, ai

sapienti e a qualunque altra persona di riguardo, più tardi. […]. I figli non potevano muovere ai

genitori alcun rimprovero o recare loro offese di sorta nemmeno nel caso in cui avessero subito un

toro da parte loro. Chiunque non si comportasse in questo modo dimostrava di possedere

un’educazione insufficiente e lacunosa”

20

.

16 H. Haumann, op. cit., pp. 147-148.

17 Sui ricordi di Zolli relativi alla propria infanzia, alle proprie esperienze al cheder e alle disavventure con il melamed,

si vedano: E. Zolli, Prima…, cit., p. 23-26, 62-64; Idem, Why…, cit., pp. 3-43.

18 E. Zolli, Prima…, cit., p. 23. Sul celeberrimo commentatore biblico e talmudico Rashì Solomon ben Isaac, più noto

come Rashì de Troyes (1040-1105), ci limitiamo a segnalare l’ampia voce dell’EJ, vol. 13, coll. 1558-1565.

19 E. Zolli, Prima…, cit., p. 24. 20 H. Haumann, op. cit., p. 146.

La donna doveva occuparsi della famiglia, e il suo compito iniziava con il rispettare le rigide regole della religione, che poi insegnava ai figli. I figli erano al centro dei suoi sforzi educativi, ma una madre non tollerava da parte loro la benché minima obiezione. Per gli ebrei orientali, infatti, l’adempimento dei doveri religiosi veniva prima di ogni altro obbligo che la vita quotidiana comportava. Allo stesso rigore erano improntati anche i rapporti tra genitori e figli, tanto che solo raramente potevano definirsi spontanei. Numerosi erano i figli che si rivolgevano al padre e alla madre usando il «lei»21.

Un aneddoto tratto dall’autobiografia di Zolli è per certi aspetti illuminante riguardo a

questo particolare rapporto tra genitori e figli, che iniziato nell’infanzia proseguiva anche negli anni

successivi. Il fatto, riferito a Stanislao, suo compagno di classe della seconda ginnasio, e alla madre

di lui, nella sua eccezionalità ci è testimone indiretto di una modalità educativa estremamente

severa.

Madre e figlio si scambiavano uno sguardo affettuoso. Erano ambedue parchi di parole. I rapporti fra i due erano improntati a un certo rispetto reciproco. Proprio così; avevo l’impressione che anche la madre rispettasse il figliolo… Quante volte non vedevo le madri dire insolenze o, peggio ancora, dare pugni ai ragazzi. Qui no, avevano poco da dirsi l’uno con l’altro. Si comprendevano senza parlare. […]. Perché la mamma tratta Stanislao senza rimproveri – è il caso di dirlo – senza pugni e spintoni?22

Parallelamente alla scuola elementare Zolli iniziò a frequentare la Bet ha-Midrash, la scuola

di studi religiosi della comunità, successiva al cheder, dove ogni ragazzo ebreo doveva recarsi fino

compimento dell’ottavo anno di età. Dopodiché proseguì lo studio della Torah e del Talmud

23

nelle

21 Ivi, p. 140.

22 E. Zolli, Prima…, cit., pp. 51-52. Si veda anche: E. Zolli, Why…, cit., pp. 23-24.

23 Il Talmud è il testo della tradizione orale (Legge Orale) costituito dalla Mishnah e dalla Ghemara; ne esistono due

versioni dette rispettivamente Babilonese e Palestinese, dal luogo in cui vennero composte. La Mishnah (shanah, ripetere, indicava l’insegnamento orale che si apprendeva con la ripetizione) venne messa per iscritta nel II sec. d.C. da Jeudah il Principe che raccolse e codificò le interpretazioni e le spiegazioni che i Tannaim (maestri) diedero nel corso dei secoli alla Torah (Legge Scritta) per adattarla alle mutevoli condizioni della vita e del tempo. La Mishnah si compone di sei Ordini (Sedarim) suddivisi a loro volta in Trattati (Massichtoth, in totale 63), capitoli (523, più il sesto capitolo di Aboth, che è un’aggiunta posteriore) e paragrafi. La Ghemara (Completamento) raccoglie invece i commenti sulla Mishnah compiuti dagli Amoraim (interpreti) nelle diverse scuole (Cesarea, Sepphoris, Tiberiade e Usha in Palestina; Nehardea, Sura, Pombeditha in Babilonia). I diversi contenuti che formano il Talmud possono essere distinti in due grandi categorie: Halakhah (cammino) e Haggadah (narrazione). La prima è la sezione più strettamente normativa e comprende la Mishanah e la parte della Ghemara che si occupa di questioni legali. Con la seconda si identifica invece la sezione non legale della letteratura rabbinica che tende a spiegare la Torah per mezzo di leggende, racconti, poemi, allegorie e riflessioni a carattere morale (la mole prodotta da questa modalità esegetica nel corso dei secoli, dal V al XII, ha dato origine a un’altra raccolta, il Midrash). Il Talmud giunto sino a noi è quello che venne pubblicato, per la prima volta, a Venezia da Daniel Bomberg (il babilonese nel 1520-23, il palestinese nel 1523-24), la cui impaginazione venne conservata in quasi tutte le edizioni successive. Il Talmud palestinese venne stampato su due colonne senza alcun commento, mentre quello babilonese venne stampato con la Ghemara al centro di ciascuna pagina, circondata da un lato dal commento di Rashì e dall’altro dalle note dei glossatori posteriori, detti Tosafisti (la Toseftà, supplemento, è un’opera analoga alla Mishnah, ma contente materiali supplementari, databile nel V-VI sec. d.C.). Per cui le citazioni tratte dal Talmud palestinese (indicato con p. prima del nome del trattato) sono rese con il numero del foglio più la colonna (es.: 6a, b, c, o d), mentre quelle prese dal Talmud babilonese hanno il numero del foglio più la facciata (es.: 6a, b). Sul Talmud e la tradizione orale si vedano: A. Cohen, Il Talmud, trad. ital. di Alfredo Toaff,

scuole religiose superiori in preparazione del Bar Mitzvah, la cerimonia religiosa che segna

l’ingresso di un ebreo nella comunità adulta. Nelle sue memorie Zolli ci ricorda come egli

frequentasse assiduamente la klaus

24

, la casa di studio annessa alla sinagoga, ma non ci dà notizie

precise circa una sua possibile prosecuzione degli studi alla jeshivah

25

, l’accademia talmudica, dato

che non viene mai apertamente nominata. Le jeshivoth si trovavano un po’ ovunque nelle comunità

più numerose e nei centri chassidici; v’insegnavano esperti di letteratura talmudica e insigni rabbini:

esse rappresentavano il luogo di studio ebraico di più alto livello, dove gli studenti più zelanti

potevano conseguire il diploma di rabbino, traguardo quest’ultimo che era un onore per l’intera

famiglia, benché poco remunerativo dal punto di vista economico

26

. Nelle jeshivoth i futuri rabbini

oltre a divenire maestri nella Torah, nell’esegesi biblica e nel Talmud, diventavano esperti di

halakah, la normativa ebraica, quindi giudici con diritto di esprimere sentenze e di prendere

decisioni.

Zolli dovette quasi certamente frequentare la jeshivah; oltre all’alta probabilità determinata

dal fatto di essere un ebreo cresciuto in una famiglia osservante

27

, a convincerci di questa ipotesi

sono due fattori. Il primo è legato alle aspettative della madre riposte in lui, affinché proseguisse il

secolare lignaggio rabbinico

28

; il secondo dovuto al fatto che frequentò un corso per maestro di

religione. Mentre il primo fattore porge il fianco a interminabili discussioni circa la convinzione di

Laterza, Roma-Bari 20054; EJ, vol. 15, coll. 750-779. Su Jeudah il Principe (Judah ha-Nasi, II-III sec. d.C.), il redattore della Mishnah, si veda l’ampia voce sull’EJ, vol. 10, coll. 366-372. Sulla Mishnah si veda: EJ, vol. 12, coll. 92-109. Sul Midrash si veda: EJ, vol. 11, coll. 1507-1514. Sui Tannaim si veda: EJ, vol. 15, coll. 798-803. Sulla Toseftà si veda: EJ, vol. 15, coll. 1283-1285; sui Tosafisti si veda: EJ, vol. 15, coll. 1278-1283. Sulla Ghemara si veda: EJ, vol. 7, coll. 368- 369. Sugli Amoraim si veda: EJ, vol. 2, coll. 865-875. Sulla halakhah si veda. EJ, vol. 7, coll. 1156-1166. Sulla

haggadah si veda: EJ, s.v. «haggadah, passover», vol. 7, coll. 1079-1104. Su Daniel Bomberg (m. 1553 ca.) il celebre

stampatore cristiano di testi ebraici (Bibbia, Talmud, Tosefta), nativo di Anversa ma divenuto celebre a Venezia, si veda. EJ, vol. 4, coll. 1195-1196. Su Abraham Cohen (1887-1957) studente prima all’Università di Londra e in seguito a Cambridge, ministro dal 1933 in poi della Birmingham Hebrew Congregation e membro attivo del World Jewish Congress e del movimento sionista, si veda: EJ, vol. 5, coll. 663-664. Sui Pirqe Avot si veda: EJ, vol. 3, coll. 983-984; A. Mello (a cura di), Detti di rabbini – Pirqè Avot. Con i loro commenti tradizionali, Qiqajon, Magnano (Vc) 1993.

24 Klaus deriva dal latino medioevale clusa (recinto chiuso o cella), una piccola stanza accanto alla grande sinagoga, che

sta a indicare la scuola talmudica. Sulla klaus si vedano: E. Zolli, Prima…, cit. pp. 81-84; Idem, Why…, cit., pp. 49-51.

25 Sulle jeshivoth, le accademiche talmudiche e halakhiche, si vedano: EJ, vol. 16, coll. 762-773; EJ, s.v. «rabbi,

rabbinate», vol. 13, coll. 1445-1458; A. Milano, Storia degli ebrei in Italia, Einaudi, Torino 1963, pp. 440-442, 618- 621; M. Del Bianco Cotrozzi, Il Collegio Rabbinico di Padova. Un’istituzione religiosa dell’ebraismo sulla via

dell’emancipazione, Olschki, Firenze 1995, pp. 42-46; H. Haumann, op. cit., pp. 149-150. Vivide narrazioni di come si

svolgeva la vita nelle jeshivoth e nelle coorti rabbiniche della Polonia di fine Ottocento e inizio Novecento si possono trarre dalle pagine dei romanzi di Isaac Bashevis Singer, La famiglia Moskat e La proprietà. In particolare si vedano: I.B. Singer, La famiglia Moskat, Tea, Milano 2005, pp. 37-39, 86-93, 226-228, 432-438; Idem, La proprietà, Tea, Milano 2003, pp. 113-118, 243-248, 412-428, 440-445.

26 “In genere, la prospettiva di una vita interamente consacrata allo studio e il conseguente prestigio sociale imposero

sovente ai giovani più dotati di scegliere la carriere rabbinica, anziché tentare di migliorare le condizioni di vita delle proprie famiglie.” H. Haumann, op. cit., p. 149.

27 A questo proposito si vedano i ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza contenuti in: E. Zolli, Prima…, cit., pp. 23-91;

Idem, Why…, cit., pp. 3-58.

28 E. Zolli, Prima…, cit., p. 24: “Mia madre discendeva da una famiglia di dotti rabbini. Oltre due secoli

d’intellettualismo. Secondo mia madre, anch’io avrei dovuto fare il rabbino. Risparmiava ogni soldino sul magro bilancio domestico e ogni capo del mese ebraico mi dava la busta con il denaro per il maestro.” Si veda anche: E. Zolli,

Why…, cit., p. 9. Secondo la testimonianza del cardinal Dezza, la madre di Zolli discendeva da una famiglia con

Zolli di intraprendere la carriera rabbinica, sul suo particolare distacco nei rapporti dei fedeli, sul

suo scarso attaccamento ai precetti

29

e sulla sua radicata percezione di se stesso quale uomo di

scienza

30

, il secondo elemento ci offre in concreto alcuni spunti sui quali ricostruire le circostanze

che dapprima lo portarono in Italia e in seguito lo introdussero nel mondo accademico

31

.

A diciotto anni, nel 1899, Zolli conseguì la maturità magistrale al termine della quale si

iscrisse a un corso di studi religiosi per raggiungere il titolo di maestro di religione (maskil) e poter

così, attraverso l’insegnamento, contribuire al bilancio familiare. Il corso durò probabilmente tre

anni. Infatti Zolli sostiene che a 20 anni, nel 1901, durante il corso per maestro di religione studiò il

periodo maccabeico e che prima di iscriversi all’Università di Vienna nel 1904 (23 anni), per far

fronte alle difficoltà economiche della famiglia, insegnò religione per due anni

32

a Leopoli (oggi

Lvov in Ucraina)

33

, dove si era nel frattempo trasferito con la famiglia

34

. Inoltre, a seguito

dell’editto del 1820 di Francesco I e delle riforme didattiche elaborate dalla Scienza del

Giudaismo

35

, per il conseguimento del titolo rabbinico i collegi e i seminari rabbinici richiedevano

una preparazione anche in materie secolari. Molti, tra cui quello di Firenze – come si vedrà –

esigevano specificatamente la laurea in Lettere o in Filosofia. Dunque Zolli, per essere ammesso

all’Università, dovette conseguire anche la maturità classica e fu così che – parallelamente

all’insegnamento della religione ebraica – completò la propria preparazione con alcuni anni di

studio privato

36

. Pochi mesi dopo la morte della madre, Teresa Dora Jahr, avvenuta nel 1904, Zolli,

prima di compiere 23 anni, conseguì la maturità classica ottenendo perciò i requisiti necessari per

iscriversi all’Università di Vienna, dove rimase per un semestre; dopodiché si trasferì in Italia, a

Firenze, al Collegio Rabbinico Italiano e all’Università, allora Istituto di Studi Superiori

37

.

Giunti a questo punto, sorge spontaneo un interrogativo. Per quale ragione Zolli scelse

proprio l’Italia e in particolare Firenze per compiere i propri studi? Nelle sue memorie egli

rammenta semplicemente di aver avuto come obiettivo l’Università di Firenze

38

, ma non ne spiega

la ragione. Dare una risposta incontrovertibile a questa domanda perciò non è possibile, vista la

29 Si veda «Introduzione», p. 6, n. 13. 30 Si veda infra, p. 52, n. 129.

31 La ricostruzione, mancando prove documentabili incontrovertibili, si basa sui ricordi di Zolli raccolti nelle due

autobiografie, che non sempre combaciano perfettamente.

32 E. Zolli, Why…, pp. 44-49; Idem, Prima…, cit., pp. 75-78.

33 Sulla città di Lvov (in tedesco Lemberg), centro ebraico di primaria importanza della Galizia, si veda: EJ, vol. 11,

coll. 608-616.

34 Zolli ricorda che all’incirca nel 1887 si era trasferito con la famiglia da Brody a Stanislavia (Ivano-Frankovsk, in

Ucraina); infine da lì, attorno al 1899, a Leopoli. Su Stanislavia si veda: EJ, vol. 15, coll. 337-340.

35 Si veda infra, p. 30, n. 44.

36 “Rimasi incatenato a un orario di lavoro gravoso. Dovevo fare l’insegnante e lo studente in pari tempo. […]. La via

verso i portoni delle Università passava attraverso la licenza classica; quella magistrale non era sufficiente. Bisognava dare lezioni per poter pagare le lezioni private da parte di professori specializzati. E bisognava anche aiutare in casa.” E. Zolli, Prima…, cit., p. 89; Idem, Why…, cit., p. 55.

37 E. Zolli, Prima…, cit., p. 92; Idem, Why…, cit., p. 61. 38 E. Zolli, Why…, cit., p. 44.

mancanza di materiale documentario; tuttavia, sulla base dei documenti in nostro possesso, si

possono formulare alcune ipotesi.

Nel corso di tutto il medioevo e dell’età moderna l’istituzione cardine per la formazione di

un rabbino era la jeshivah. Tuttavia le diverse jeshivoth sparse per l’Europa, in particolare orientale,

non erano accomunate, almeno per quanto concerneva nello specifico la preparazione dei rabbini,

da un programma definito di studi. Compito precipuo della jeshivah era infatti la trasmissione del

sapere, il mantenimento della tradizione e, funzionalmente a ciò, la formazione dei rabbini. Nelle

jeshivoth lo studio della Torah era lishmah, cioè fine a se stesso, e non necessariamente era legato al

conseguimento di un titolo

39

. I rabbini formatisi nelle jeshivoth dovevano ovviamente essere

profondi conoscitori della Torah, del Talmud, dell’esegesi omiletica e normativa, ma secondo un

piano di studi che, se da un lato seguiva la millenaria tradizione dello studio e del commento della

Torah, del Talmud e dei testi qabbalistici, delle domande e della discussione con il maestro (il

cosiddetto pilpul), dall’altro non era in alcun modo uniformato ed esplicitato da alcun ente

comunitario di controllo, e trascurava quasi interamente, per non dire ignorava totalmente, le

materie secolari

40

. Tant’è che spesse volte accadeva che un aspirante rabbino studiasse

privatamente presso un rabbino conseguendo da lui un titolo che ne certificava non solo la

preparazione e la sapienza, ma anche e soprattutto le doti umane e morali, e lo autorizzava a

esercitare le funzioni di rabbino. Spettava poi alle consulte delle comunità ebraiche operare la scelta

del rabbino più confacente alle proprie esigenze.

Nel corso dell’800 sulla scia della progressiva emancipazione inaugurata a livello culturale

dall’illuminismo ebraico, la Haskhalah

41

, e operata a livello socio-politico dagli ideali della

39 Si veda: R. Di Segni, I programmi di studio della scuola rabbinica italiana (1829-1999), RMI, vol. 65, n. 3,

settembre-dicembre 1999, pp. 15-40; ivi, p. 35.

40 “La tradizione degli studi rabbinici differenziava le varie scuole della diaspora ebraica. Gli studi nelle yešivot

ashkenazite vertevano principalmente sulla legge orale interpretata nel Talmud e sui suoi commenti, allo scopo principale di curare la pratica religiosa. Poco spazio vi trovava la trattazione della Bibbia, mentre nella tradizione delle

yešivot sefardite Bibbia e Haggadah avevano un’importanza basilare. […]. Altra importante differenza tra gli studi delle

accademie ashkenazite e di quelle italiane e levantine fu lo spazio concesso agli studi cabalistici, molto più considerati nel secondo contesto. Inoltre, mentre gli studi secolari non venivano affrontati in ambiente ashkenazita, trovarono posto in Italia accanto agli studi tradizionali sin dal Rinascimento.” M. Del Bianco Cotrozzi, Il collegio rabbinico di Padova,

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