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2. CONSEGUENZE DELLA MULTICULTURALITÀ IN CLASSE

2.1 DIFFICOLTÀ PER L’ALUNNO

2.1.4 L’identità personale

L’ingresso nella scuola, dovrebbe rappresentare un’occasione di accoglienza, di scambio, di comunione, purtroppo per molti bambini immigrati si rivela un luogo ricco sfide e ostacoli da superare. Il bambino straniero, infatti, si trova davanti l’ulteriore compito di costruire la propria identità, in balia di due culture differenti, cercando un punto d’incontro tra esse (Del Miglio et al., 2004 in Beltrame, 2011).

Il processo di acculturazione richiede lo scambio reciproco tra due distinte culture che entrano in contatto. A livello psicologico, comporta il cambiamento dei propri comportamenti, delle attitudini, dei valori e, in conseguenza, della propria identità. Per poter fare ciò, è necessario sviluppare un adattamento socioculturale individuale, ovvero la capacità di riorganizzare la propria routine quotidiana nel nuovo contesto, includendo aspetti linguistici e relazionali, tipici della nuova cultura (Beltrame, 2011).

Le modalità con cui le persone mettono in atto tale processo, dipendono da molteplici fattori, primo tra tutti la distanza tra le particolarità culturali del gruppo di origine e quelle del paese ospitante. È molto importante favorire l’attuazione di questo cambiamento in maniera consapevole e serena, poiché ha delle forti ricadute sul benessere delle persone appartenenti a minoranze etniche.

Berry (Berry, 1997), studiò la varietà di strategie che le persone mettono in atto nel momento dell’acculturazione. Elaborò un modello che illustrava quattro differenti strategie (Fig.2.13) sulla base di due dimensioni indipendenti: l’importanza di mantenere legami e tradizioni della cultura d’origine e l’apertura nei confronti della nuova società. Il primo gruppo è formato da coloro che vengono definiti “assimilati”, cioè mostrano un’elevata acquisizione

di aspetti culturali della nuova società, mantenendo solamente pochi elementi della cultura originaria. Si trovano, poi, gli “integrati”, coloro conservano molti elementi della cultura madre e contemporaneamente ne acquisiscono buona parte dalla nuova cultura. In opposizione, vi sono i “separati” che rifiutano la nuova cultura, mantenendo però salde radici con cultura d’origine. Infine, i “marginalizzati”, coloro che faticano o rifiutano di identificarsi in entrambe le culture.

Evidenze empiriche suggeriscono che i gruppi minoritari

solitamente preferiscono la strategia dell’integrazione e che questa modalità correli con livelli di stress più bassi. Anche gli individui che utilizzano la strategia di separazione mantengono una buona autostima e un’identità positiva, tuttavia sperimentano livelli di stress più alti. Al contrario, la strategia della marginalizzazione, è spesso accompagnata da elevati livelli di ansia, sentimenti d’alienazione, perdita d’identità e umore depresso. La strategia della separazione può sembrare inizialmente più semplice da attuare, ma a lungo andare può interferire con l’acquisire dei comportamenti ritenuti appropriati nella nuova cultura e inibire le relazioni

Fig. 2.13 Matrice bidimensionale dell’Acculturation Attitudes di Berry

sociali, rendendo difficoltosa la permanenza nel Paese (Beltrame, 2011). È quindi essenziale che una persona appartenente al gruppo minoritario si senta accettata dai membri della cultura ospitante perché si sviluppi una relazione fra i due. Una forte identità etnica, la disponibilità di risorse e un’alta stima di sé, influenzano il benessere dell’individuo tanto quanto l’accettazione da parte degli altri; il giusto connubio si esprime realizzando la completa e reale integrazione. Mantenere il sottile equilibrio tra la propria cultura e quella nuova, può essere cognitivamente molto dispendioso, soprattutto nei primi tempi. È necessario un periodo di adeguamento, in cui vengono eliminati i comportamenti legati alla cultura d’origine che in potrebbero interferire con quella nuova, studiare gli atteggiamenti considerati appropriati e acquisire i nuovi usi e costumi ritenuti desiderabili. Tutto ciò diviene ancora più complicato quando si parla di bambini. Un adulto, per quanto influenzato dall’atteggiamento del proprio gruppo di appartenenza e da quello del paese ospitante, è comunque in grado di scegliere le proprie strategie in autonomia, mentre un bambino risentirà in maniera maggiore di un’eventuale discrepanza tra i comportamenti manifestati dal proprio gruppo etnico, dalla propria famiglia, dalla società ospitante e, nel caso dei ragazzi più grandi, da loro stessi.

Sfortunatamente, ancora oggi l’educazione, così come viene concepita e insegnata nelle scuole, si focalizza esclusivamente su aspettative e valori tipici della tradizione occidentale, consolidando i suoi contenuti ed escludendo il patrimonio culturale del mondo non occidentale. Accade quindi che i curricula e i programmi didattici falliscano con i bambini di culture profondamente diverse dalla nostra, perché ignorano o minano i modelli educativi tipici di altri paesi. Gli alti tassi di abbandono e insuccesso scolastico degli immigrati risultano in relazione alle divergenze culturali e alle difficoltà di acquisizione della lingua, nonché all’integrazione e al comportamento sociale.

La questione diventa ancor più complessa in riferimento alle seconde generazioni. I bambini nati in Italia da genitori stranieri «vivono oggi una situazione assurda, stranieri nello stesso Paese in cui sono venuti al mondo o cresciuti» (Caferri, 2014, p.5). La ius sanguis, vigente nel nostro Paese, sancisce come stranieri tutti coloro nati da genitori con cittadinanza non italiana. Oltre a creare pesanti limitazioni a livello burocratico, tale legge aumenta la confusione identitaria nei ragazzi di seconda generazione: sono nati qui, parlano italiano ma non possono essere considerati italiani. Mostrano notevoli differenze sia dal gruppo di origine che da quello ospitante e ne sono consapevoli. Vengono definiti la “generazione ponte” e vivono sospesi in una “doppia identità”, con il rischio di non riuscire a riconoscersi in nessuna delle due e di non sentirsi veramente accolti da entrambe. «Cercano di colmare i vuoti, di tenere

vivi i ponti che collegano i mondi […] ma non sempre è facile, le differenze spesso bussano alla porta e trascinano con sé domande, dubbi e delusioni» spiega F. Caferri, dopo aver intervistato alcuni di loro (Caferri, 2014, p.28-29)

Tenere conto delle difficoltà dei neo arrivati è semplice, sono evidenti, ovvie, tipiche delle persone migranti. Ma altrettanto importanti sono quelle di coloro che il Paese non lo attraversano, ma lo compongono, dato che ormai costituiscono la maggioranza e sono per lo più intenzionati a rimanere.