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Questioni problematiche

3. Italiano standard e neo-standard

3.1 L’italiano standard

Tra le questioni problematiche quella dell’italiano standard è forse la più difficile da risolvere. Abbiamo annoverato l’italiano standard nel repertorio linguistico degli italiani, ma non siamo riusciti a descrivere con precisione cosa sia né quali siano le caratteristiche di questa varietà centrale. Il motivo è l’uso a volte contraddittorio dell’aggettivo standard.

Con ‘italiano standard’ indichiamo da una parte la varietà di riferimento, codificata e definita dalla norma linguistica, modello a cui si fa riferimento per decidere

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ciò che è giusto e ciò che è sbagliato; d’altra parte chiamiamo standard anche la varietà di lingua più largamente accettata dai parlanti, riconosciuta da loro come corretta.

Le due definizioni di italiano standard sono legate ma contrapposte, risulta difficile abbozzare i tratti di una varietà che viene simultaneamente forgiata da una norma imposta dall’alto (e lontana nel tempo) e dalla comunità parlante, primo motore del mutamento linguistico.

Innanzitutto una varietà si definisce standard quando presenta i sei attributi individuati da Ammon (1986)46: (a) codificato, (b) sovraregionale, (c) elaborato, (d) proprio dei ceti alti, (e) invariante, (f) scritto.

La codificazione è fondamentale perché vuol dire avere regole riconosciute e rispettate, tramandate dalle grammatiche e protette da istituzioni nazionali, senza questo genere di strumenti lo standard non potrebbe avere una funzione di modello. Deve essere sovraregionale ovvero rappresentare un modello unitario per tutto il territorio in cui vive la comunità parlante. Con elaborato intendiamo che la lingua standard deve avere tutte le risorse linguistiche per trattare qualsiasi argomento, soprattutto i più astratti. La condizione dell’essere proprio dei ceti alti, dei ceti più istruiti, è dovuta ad una ragione storica: lo standard nasce per essere usato dalle classi socio-culturalmente più agiate; da ciò deriva però un’aura di prestigio che rende la lingua standard il modello appetibile a cui ambire. L’invarianza deriva dalla codificazione, è la proprietà della lingua standard di essere stabile. Infine con scritta intendiamo sì l’essere una lingua con varietà scritte, ma soprattutto la caratteristica di possedere una tradizione scritta, generalmente letteraria.

L’italiano standard oggi possiede più o meno tutti questi requisiti, le uniche puntualizzazioni da fare sono a proposito punti (d), (e) e (f) di Ammon. Partendo dall’ultimo, la proprietà di essere scritta è quanto mai appropriata all’italiano standard. L’italiano è nato come un codice scritto e, anche ora che è ampiamente diffuso tra la popolazione, non esiste uno standard parlato, esistono delle tendenze come abbiamo visto in § 2.1, ma niente che possa essere codificato e considerato come modello di riferimento. Alla natura primariamente scritta si collega anche la riflessione relativa alla caratteristica dello standard di essere proprio dei ceti alti (d). Se è vero che al momento della prima

55 codificazione, l’italiano standard era usato esclusivamente dalle persone più istruite, è altrettanto vero che oggi solamente le varietà scritte usate dai parlanti più colti si avvicinano allo standard, gli stessi parlanti colti nelle loro produzioni orali usano delle varietà più basse, informali e diatopicamente marcate. Infine il punto (e): l’invarianza. Oggi l’italiano standard si presenta come un sistema stabile e compatto ma è una conquista relativamente recente. Fino all’intervento manzoniano e alla massiccia diffusione Novecentesca, l’italiano è stato ricco di oscillazioni e incertezze: allotropi come pronuncia e pronunzia, denuncia e denunzia; varianti grafiche come i plurali delle parole in -cia e -gia, ad esempio ciliege-ciliegie; forme più o meno arcaiche come lacrima e lagrima; e anche fenomeni di allomorfia come nelle coppie debbo-devo, offrì-offerse, diede-dette.

Per riuscire a capire come si presenta l’italiano standard oggi dobbiamo ripercorrere ancora una volta il sentiero della sua codificazione dalla nascita. L’idioma nazionale, come è noto, è stato codificato dal Bembo nel 1525 con la pubblicazione delle “Prose della volgar lingua”. L’opera era l’esito di accese discussioni su quale lingua fosse la più adatta a diventare un buon modello. Alla fine prevalse appunto la proposta di Pietro Bembo: venne codificato come ‘italiano’ «il toscano urbano della classe colta di Firenze» (Galli de’ Paratesi 1984: 60), una varietà letteraria basata sulla lingua delle Tre corone (Dante, Petrarca e Boccaccio) con influssi latineggianti ed esclusivamente scritta.

Dalle Prose in poi con la redazione del primo Vocabolario della Crusca (1612) e delle innumerevoli grammatiche47, il modello bembiano si affermò definitivamente come italiano standard. La diffusione della stampa aiutò la stabilizzazione e la codificazione grafica, ma la vera svolta avvenne nell’Ottocento grazie a due eventi: la “risciacquatura in Arno” del Manzoni e la diffusione della scuola. Grazie al primo, si iniziò a preferire una linea unica, eliminando pian piano il polimorfismo che era stato tipico dell’italiano fino a quel momento; cominciò così la lenta sostituzione del locativo ci a vi, di pronuncia a pronunzia, di visto a veduto. L’insegnamento della grammatica nelle scuole contribuì in modo parallelo alla normativizzazione, “l’italiano delle maestre”48 ha tramandato una serie di regole, soprattutto ortografiche, che ha finito per imporsi largamente. Ne sono

47 Cfr. Patota (1993), Robustelli (2006).

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esempi l’accentazione dei monosillabi con funzione distintiva e l’attribuzione del genere femminile a tutti i nomi di città, il pronome io in seconda posizione in presenza di altri soggetti (non io e i miei amici ma i miei amici ed io), la convinzione che le congiunzioni ma e infatti o anche e non possano trovarsi all’inizio del periodo.49

La scuola è stata e rimane il principale luogo di sopravvivenza dell’italiano standard, fino agli anni ’70 del Novecento fu insegnata una lingua artificiale con forte impronta toscaneggiante e frequenti rimandi ai modelli aulici e letterari. Negli anni ’70 una fase di fermento e appassionata riflessione investì il campo dell’insegnamento linguistico. A partire da “Lettera ad una professoressa”50, linguisti e insegnanti si opposero fermamente al vecchio modello di lingua proponendo invece di insegnare un italiano più aderente alla realtà, meno aulico e lontano, disponibile a tutti i bambini senza discriminanti sociali. Ci fu un generale rinnovamento dei contenuti e dei modi, largamente rivisti l’insegnamento tradizionale della grammatica e l’insegnamento della scrittura basato temi e pensierini su argomenti astratti e filosofici51. La stagione culminata le “Dieci Tesi per l’educazione linguistica democratica”52 fu senza dubbio una tappa importante, ma già negli anni ’80 si tornò ad un pacato atteggiamento normativo. L’italiano standard insegnato oggi nelle scuole è ormai depurato di molti tratti spiccatamente fiorentini53, è sicuramente più aperto al parlato e alle altre varietà dell’italiano, ma rimane lontano dall’uso reale della lingua. In Serianni (2007) e Serianni – Benedetti (20152:139-144) possiamo osservare una serie di correzioni tendenti a definire come standard quello che Antonelli (2007:49) definisce “scolastichese”: una lingua ricca di egli e di passati remoti, in cui non si dice andare ma recarsi, non fare ma compiere o realizzare e in cui è inaccettabile ogni genere di ripetizione

49 Cfr. Benincà et al. (1974) e Ainardi (1983) per altri esempi di correzioni delle maestre; Cortelazzo (2000) per la definizione e l’evoluzione dell’italiano scolastico.

50 Cfr. Scuola di Barbiana (1967).

51 Cfr. Lo Duca (20132) per uno sguardo generale e per la bibliografia; Simone (1973), Berretta (1977); Serianni-Benedetti (20152:11-33) per una panoramica sull’evoluzione del tema.

52 Cfr. GISCEL (1975)

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