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L’organizzazione internazionale

Nel documento La filosofia cosmopolitica di Kant (pagine 159-200)

1. La polemica con Mendelssohn

In questa terza parte del corso, ci proponiamo di rispondere alla ter- za delle domande di Kant. Le prime due erano: «Che cosa posso sa- pere?» e «Che cosa debbo fare?». La terza è: «Che cosa posso spe- rare?». A tale domanda rispondono la Critica della ragion pratica e la

Critica del Giudizio. La Critica della ragion pratica, con la dottrina dei

postulati, afferma che noi possiamo sperare nella vita ultraterrena: immortalità dell’anima e Dio ci permettono di sperare nel sommo bene. Ma quello che è lecito sperare su questa terra ce lo dice la Cri-

tica del Giudizio, che afferma che nella storia umana, intesa come

parte della natura, c’è un finalismo, anche questo garantito da un en- te supremo, cioè Dio. C’è nella storia una finalità interna che porta verso una costituzione cosmopolitica. Questo può dircelo soltanto la

Critica del Giudizio, che afferma esservi un giudizio teleologico che

scorge, con una facoltà peculiare, il finalismo immanente nella natu- ra, ivi compresa la natura degli uomini, cioè la storia. In tal modo in questa terza parte del corso, che oggi iniziamo, noi considereremo il problema di una costituzione cosmopolitica che garantisca la pace perpetua. Quindi siamo indotti a considerare congiuntamente la dottrina morale, che ci impone di tendere verso una costituzione co- smopolitica, ed insieme la teleologia della natura, che ci mostra il fi- nalismo presente nella storia umana. In questo intreccio fra morale e teleologia consiste la specificità del nostro problema. Già l’opera sulla religione ci ha parlato della presenza di Dio, e della Chiesa co- me sede istituzionale in cui si manifesta la presenza di un popolo di Dio; quei passi erano un ponte fra la seconda e la terza parte del no- stro corso, ed introducevano il tema della presenza di Dio nelle vi- cende umane. Questa terza parte terrà appunto in conto l’azione morale degli uomini e la congiunta azione di Dio nella storia.

Noi procediamo in modo sistematico, non storico. Se avessimo proceduto in modo storico avremmo dovuto studiare prima lo scrit- to sull’illuminismo, poi il saggio sul rapporto fra teoria e pratica, poi la Pace perpetua, la Religione, la Metafisica dei costumi, lo scritto sul progresso; cioè avremmo seguito la genesi del pensiero di Kant; noi seguiamo invece un ordine diverso, per affinità tematiche, ed ora ci dedichiamo al problema dell’organizzazione internazionale e del senso della storia del mondo. Incominceremo dalla terza parte dello scritto del 1793 sul rapporto fra teoria e pratica, scritta in polemica col filosofo illuminista tedesco, Moses Mendelssohn. Domandiamo- ci innanzitutto il significato del lungo titolo, a cui corrisponde una nota in calce. L’umanità, che si dedica alle guerre, ci offre uno spet- tacolo che ce la fa apparire degna di odio; si è indotti a pensare che l’umanità non sia degna di amore, cioè di un atteggiamento filantro- pico1. Ma non è questa la conclusione di Kant: infatti possiamo pen-

sare che l’umanità diventi degna di amore, però questa sua qualità presuppone che siano tradotte in pratica le norme della ragione che ci impongono di arrivare ad una costituzione civile regolante i rap- porti fra i popoli della terra. Solo se noi pensiamo che il genere uma- no sia in progresso verso il meglio, potremo pensare che esso sia de- gno di amore.

Qui Kant cita, accanto a Mendelssohn, un altro grande illumini- sta tedesco, Gotthold Ephraim Lessing, amico di Mendelssohn, del quale era coetaneo (entrambi erano nati nel 1729). Di Lessing è men- zionata un’opera del 1777, L’educazione del genere umano; accanto a questa possiamo aggiungere, per l’affinità dell’argomento, un’ope- ra teatrale, Nathan il saggio (1779). Lessing era sostenitore di una re- ligiosità illuministica, secondo la quale Dio è presente e operante nelle coscienze degli uomini, che induce ad un miglioramento mo- rale, nel segno della virtù e della tolleranza. Nell’opera teatrale, Les- sing mostra la convergenza di tre spiriti religiosi, appartenenti alle tre grandi religioni monoteistiche, discendenti da Abramo: l’ebrai- smo, il cristianesimo, l’islamismo. In tali opere, l’umanità è mostra- ta evolversi verso una religione razionale nel segno della reciproca tolleranza e cooperazione. L’umanità, pertanto, era vista progredire verso il meglio. L’opera di Mendelssohn, Gerusalemme, ovvero la po-

tenza religiosa e l’ebraismo, è del 1783: e qui egli pensava, a diffe-

renza del suo amico Lessing, che dall’umanità non ci fosse da aspet- tarsi nulla, perché essa è e sarà sempre oscillante fra il bene e il ma- le, e ad ogni progresso seguirà un regresso, in una continua oscilla- zione. Se uomini singoli progrediscono, non si può pensare altret- tanto dell’umanità complessivamente considerata. È come la storia del macigno di Sisifo, di cui Kant parla. L’umanità si affatica senza mai progredire2. Quindi, se Lessing vedeva un progresso, Mendels-

sohn vedeva una stazionarietà del genere umano da un punto di vi- sta morale. Vedremo in seguito, nello scritto del 1798 sul progresso, due posizioni teoriche di questo tipo, accanto ad una terza posizio- ne che vede nell’umanità un regresso morale.

Il pensiero di Kant in proposito si collega ai princìpi generali del- la sua filosofia: qual è il fine dell’umanità? a che cosa essa tende? Kant richiama una distinzione tra due fini presenti nella storia dell’umanità: un fine naturale e un fine morale. Fine naturale è la cul- tura (Kultur), fine morale è la moralità. Con la nostra capacità giu- dicativa (il Giudizio, studiato nella terza Critica), e più in particola- re con il giudizio teleologico, noi possiamo scorgere nell’umanità questo fine immanente. L’umanità fa parte della natura organica, che è retta da fini, ed è quindi oggetto del giudizio teleologico. Ab- biamo quindi un tipo di giudizio riflettente (l’altro è il giudizio este- tico), e con esso noi scorgiamo nel particolare la presenza di un fine universale, che nel caso della storia umana è l’edificazione di un or- dinamento cosmopolitico. Le poche righe che Kant dedica al fine naturale e al fine morale non sarebbero comprensibili se non tenes- simo presenti due importanti paragrafi della Critica del Giudizio, il § 83 e il § 84. Il § 83 parla dello scopo ultimo (letzter Zweck) della natura in quanto sistema teleologico; il § 84 parla dello scopo finale (Endzweck) dell’esistenza della creazione. Si tratta di vedere nel pri- mo caso qual è lo scopo ultimo della natura, ovvero interno ad essa, e nel secondo caso lo scopo finale, conclusivo, che è stato presente al Creatore al momento della creazione stessa, come fine assoluto e incondizionato di tutta la creazione. Occorre quindi distinguere il

letzter Zweck, fine della natura, scopo ultimo di essa perché ad essa

interno. Questo fine è la cultura, di cui fanno parte tante cose belle e importanti per la vita dell’uomo, come le arti e le scienze, la tecni- ca ecc.; le quali, «se non fanno l’uomo moralmente migliore, lo ren-

dono però costumato, lo sottraggono alla tirannia delle esigenze fi- siche e lo preparano alla signoria della ragione»3. Ma questo fine non

è tutto; questa cultura che rende certamente più civili e più raffina- ti, che aiuta a vincere la tirannia delle forze naturali, ci fa peraltro av- vertire un’attitudine per fini più alti e ci prepara al raggiungimento di questi fini, quali può averne soltanto l’uomo come essere libero, noumenico, morale. Questo è lo scopo finale, Endzweck, del mon- do, «quello scopo o fine che non ne chiede alcun altro come condi- zione di se medesimo»4. Noi non abbiamo nel mondo se non un’uni-

ca specie di essere, la cui causalità sia teleologica, cioè proceda se- condo fini. «L’uomo soltanto in quanto essere morale può esser lo scopo finale della creazione»5. Noi teniamo un certo comportamen-

to perché liberamente ce lo proponiamo. Questo fa l’uomo in quan- to essere noumenico: come essere fenomenico egli soggiace alle in- clinazioni, agli impulsi naturali, quindi rientra nell’ordine meccani- cistico; però l’uomo come essere noumenico ha la capacità di vince- re queste tendenze.

Siamo ora in grado, dopo questa lunga digressione, di compren- dere che cosa ha voluto dire Kant quando ha scritto: «Io potrò per- tanto assumere come principio che, come la specie umana è in con- tinuo progresso nel campo della cultura, che è il fine naturale dell’umanità (leggi: scopo ultimo, letzter Zweck, di cui al § 83 della

Critica del Giudizio), così essa deve anche progredire in meglio ri-

spetto al fine morale (leggi: scopo finale, Endzweck, di cui al § 84)»6.

Dunque: la natura produce questo fine ultimo che è la cultura, e nel mezzo della cultura l’uomo sente il bisogno di affermarsi come esse- re morale, noumenico. Sappiamo che Kant pensa la morale sotto due aspetti: esteriore, relativo al diritto; interiore, relativo alla virtù. Qui noi dobbiamo pensare a entrambi gli aspetti. Non a caso questa cor- nice giuridica (o politica), che fa sì che l’uomo possa essere anche virtuoso, deve esser vista in connessione a questa situazione. E al § 83 noi troviamo trattata, accanto al fine ultimo della natura, che è la cultura, anche la società cosmopolitica come cornice necessaria per completare l’edificio della cultura e per permetterne il massimo svi-

3KU, B 395 (Ak. V, 433). 4Ibid., B 396 (Ak. V, 434). 5Ibid., B 400 (Ak. V, 436).

luppo, come pure quale cornice in cui l’uomo possa edificare il mon- do morale.

Leggiamo il passo kantiano: «La condizione formale sotto cui sol- tanto la natura può raggiungere lo scopo finale è una costituzione nei rapporti degli uomini fra loro che in un intero che si chiama società

civile oppone un potere legittimo alle infrazioni reciproche, perché

solo in tale condizione si può effettuare il massimo sviluppo delle in- clinazioni morali»7. Ma Kant prosegue dicendo che non solo la so-

cietà civile è necessaria, questa condizione formale, ma è necessaria una società civile universale, cosmopolitica. Qui, in questa sede si- stematicamente così importante, che è la Critica del Giudizio, tro- viamo un’affermazione tanto significativa. In questo paragrafo è sta- to visto da uno studioso, il francese Eric Weil, il nucleo del pensie- ro politico di Kant. Credo però che questo passo debba stare accan- to, per l’importanza che riveste, all’altro passo più volte citato, della

Critica della ragion pura, che parla della necessità di giungere pro-

gressivamente ad una repubblica sempre più perfetta8. Da simili te-

sti, dedicati ad altre mete sistematiche, non ci si può attendere di più di questi importanti cenni; ma essi sono da tener sempre presenti nell’interpretare i testi più specificamente politici, purtroppo più oc- casionali e meno sistematici.

Torniamo al nostro scritto politico. Noi abbiamo quindi il dove- re di agire per il progresso morale dell’umanità, per il bene della no- stra discendenza, e quindi per l’instaurazione di una costituzione co- smopolitica che eviti le guerre e ci metta in grado di amare la nostra specie. Questo è un dovere morale, e noi sappiamo che per Kant il dovere morale ha una sua evidenza, come ha ricordato contro Gar- ve. Esprimendosi con linguaggio giuridico, Kant afferma che questo dovere è qualcosa di liquidum (chiaro). I doveri delle coscienze so- no qualcosa di chiaro e chiaramente vincolante per noi; e noi non ab- biamo l’onere della prova contro chi pensa altrimenti. Ad altri, se ci riescono, spetta quell’onere. E il fatto che tale risultato non sia stato raggiunto, questo attestato dell’esperienza, non prova nulla; come non prova nulla – scrive Kant subito dopo – la circostanza che non si sia arrivati, per quanto riguarda un problema tecnico, non mora- le, alla costruzione di apparecchi per volare. Si tratti di problemi tec- nici o di problemi morali, l’esperienza fin qui attestata non prova

7KU, B 393 (Ak. V, 432) [trad. lievemente modificata da G.M.]. 8KRV, A 317 B 374 (Ak. III, 248).

nulla contro la realizzabilità dei relativi progetti9. Noi dobbiamo agi-

re tenendo conto di ciò che è liquidum – qui l’imperativo della co- scienza morale – e non secondo le regole di prudenza ricavate dall’esperienza di come gli uomini si comportano fenomenicamen- te, quelle regole che sono per definizione qualcosa di illiquidum (non chiaro). La nostra sapienza (non la nostra prudenza) deriva da ciò che è incondizionato, cioè dagli imperativi categorici della ragion pura nel suo uso pratico.

Se noi invece ci regolassimo secondo prudenza, inseriremmo l’uomo nella serie di cause ed effetti, della quale fanno parte gli uo- mini come esseri fenomenici. Questo problema della prudenza è molto importante, perché è lo spazio della politica in Kant. Il con- cetto ha una storia antica: è la phronesis dei greci, la prudentia dei la- tini e della filosofia scolastica, la Klugheit di Kant. È una delle quat- tro virtù cardinali della morale cristiana, accanto alla fortezza, alla giustizia, alla temperanza. In Kant, la prudenza insegna come biso- gna comportarci in un mondo che ha i suoi caratteri derivanti dalla natura fenomenica degli uomini; ma non dobbiamo ridurre tutto a prudenza, perché questa dev’essere subordinata alla sapienza, che si riferisce non a ciò che gli uomini fanno in quanto esseri fenomeni- ci, ma a ciò che essi devono fare secondo la ragion pura pratica. E noi sappiamo, dalla prima Critica, che non possiamo dominare il meccanicismo universale, e quindi non possiamo dire, per esempio, che dobbiamo fare una guerra perché prevediamo che da questa guerra derivi la pace. Non possiamo sapere, infatti, che cosa pro- durrà la nostra azione immettendosi nel meccanicismo universale, che la prima Critica dice indominabile dalla nostra intelligenza fini- ta. Ma non possiamo dire che il mondo sia tutto e soltanto mecca- nicismo; tali analisi producono soltanto qualcosa di illiquidum: co- me potremmo noi stabilire quello che non possiamo conoscere? Su queste considerazioni si chiude quello che possiamo dire il primo nucleo ideale di questo scritto in polemica con Mendelssohn: si è af- fermato quindi che noi dobbiamo agire per il miglioramento mora- le dell’umanità.

In una seconda parte ideale di questo denso scritto, Kant intro- duce il tema del concorso tra l’azione morale degli uomini e l’azione della Provvidenza. Talvolta Kant usa il termine Provvidenza, talvol-

ta il termine natura; ma aggiunge che sono sinonimi, e che il termi- ne natura è più modesto di Provvidenza, perché si riferisce all’azio- ne di Dio, per noi inconoscibile. Kant pone a confronto l’azione de- gli uomini e l’azione della Provvidenza. La prima muove dalle parti al tutto; gli uomini agiscono con un fine limitato. La Provvidenza in- vece procede dal tutto alle parti. Kant preferisce parlare di Provvi- denza, perché trattiamo di un’azione che deriva da un’intelligenza infinita; altrove (nella Pace perpetua, al «Primo Supplemento») par- la più volentieri di natura, che è termine meno temerario per la no- stra ragione finita10.

Qui giungiamo al problema di come proceda la Provvidenza nel- la storia. Essa procede facendo leva sulla natura fenomenica degli uomini, cioè facendo leva sul loro antagonismo. Questo tema dell’antagonismo è già presente nel saggio kantiano del 1784 dal ti- tolo Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico. [In questo saggio] era affermata la tesi che la storia universale ha una tendenza cosmopolitica, a cui si perviene grazie all’antagonismo de- gli uomini e degli stati11. Gli uomini sono esseri morali perché esse-

ri liberi, ma commettono anche il male; però hanno interesse a ga- rantirsi dall’avversione altrui, e si tratta di un interesse proprio del- la loro natura fenomenica, egoistica. Ora, la Provvidenza fa uso del- la loro natura fenomenica per spingerli al risultato che essa vuol rag- giunto (Hegel parlerà di un’astuzia della ragione). Quindi la Provvi- denza si serve dell’egoismo degli uomini per raggiungere il fine da essa voluto. Afferma Kant parlando della repubblica: «È stato detto che la repubblica è adatta soltanto ad un popolo di angeli; ma inve- ce la repubblica è adatta anche ad un popolo di diavoli, purché in- telligenti»12; questi infatti capiscono che una forma repubblicana,

dove ognuno è rispettato e garantito nella sua libertà esterna, con- viene a tutti; e i grandi criminali traggono vantaggio dal vivere in un sistema repubblicano anziché in un sistema dispotico.

Il termine antagonismo, che troviamo nel nostro testo, è parola fondamentale nel pensiero e nel lessico di Kant. Dall’antagonismo sorge il bene della specie, sorge anche la forma repubblicana; e que- sto è un tema che ritorna anche per quanto riguarda il problema co- smopolitico.

10Ibid., A 278 (Ak. VIII, 310); ZeF, AB 47 (Ak. VIII, 360). 11Idee, A 392, A 398 ss (Ak. VIII, 20, 24 ss).

L’antagonismo nasce dalla libertà e produce libertà: se si toglie l’antagonismo si mette a rischio la libertà. È per questo che Kant ha tanto meditato, e oscillando fra soluzioni diverse, a riguardo del pro- blema cosmopolitico: se preferire una confederazione di stati, con organi in comune ma con la possibilità di recedere, oppure uno sta- to unitario di tutti i popoli della terra, ove il nostro pianeta sarebbe uno stato unico, però con la possibilità di perdere la libertà e di ca- dere nel dispotismo. Noi cogliamo in queste pagine kantiane la preoccupazione per il dispotismo, anche se soltanto accennata. Par- la di mali che potrebbero generare il più orribile dispotismo. Di fronte a questo, potrebbe essere preferibile la soluzione confedera- le, dove gli stati metterebbero in comune alcuni organi ma conser- verebbero la loro sovranità e il loro diritto di recedere. Occorre no- tare che Kant parla di Bund, con la quale parola egli intende ciò che noi oggi chiamiamo confederazione, e non ciò che noi oggi chiamia- mo federazione o stato federale, per il quale il suo tempo non aveva un termine adeguato.

Kant ha esitato fra queste due soluzioni, ed anche in questo te- sto, come già nel testo citato del 1784 sulla storia universale, ha pre- sente il rischio del dispotismo, anche se con un periodare ipotetico che non è molto significativo per la sua argomentazione13. Occorre

ricordare che Kant adopera due termini: 1) civitas gentium, o Völker-

staat o stato di popoli; 2) foedus amphyctionum14, o Völkerbund o con-

federazione di popoli. È vero che in questo scritto15Kant (come già

nella Critica del Giudizio al § 83) parla genericamente di un orizzonte cosmopolitico (senza addentrarsi in problemi e in particolari istitu- zionali); e ciò al fine di evitare (o ridurre) i pericoli di guerra. In que- sto stesso senso si conclude anche l’Antropologia pragmatica, che fu pubblicata nel 1798. Qui, nel nostro testo, vediamo Kant accennare alla prospettiva che i mali derivanti dalle guerre dovranno da ultimo portare i popoli, anche loro malgrado, ad entrare in una costituzio- ne cosmopolitica; e aggiunge a tale alternativa un’altra (o-o; entwe-

der-oder), con queste parole un po’ sorprendenti perché parlano in

modo ipotetico: «O, se un tale stato di pace universale (come è av-

13Gemeinspruch, A 279 (Ak. VIII, 311); cfr. Idee, A 402 (Ak. VIII, 26). 14Il termine usato da Kant nella Pace perpetua è «foedus pacificum», mentre

«foedus amphictyonum» [sic] ricorre nella Idee: ZeF, AB 35 (Ak. VIII, 356); Idee, A 399 (Ak. VIII, 24) [N.d.C.].

venuto più volte tra gli stati assai grandi) è per un altro aspetto an- cor più pericoloso per la libertà, originando il più orribile dispoti- smo, ‘quei mali derivanti dalle guerre’ (inseriamo qui il soggetto non ripetuto) dovranno portarli non ad una comunità cosmopolitica sot- to un unico sovrano, ma a una condizione giuridica di confedera- zione (Föderation; ma intendi confederazione), sulla base di un dirit- to internazionale stabilito in comune»16.

È anche da notare che Kant accenna subito dopo al pregio di una costituzione statuale in cui «il popolo, che ne fa le spese, abbia il vo- to di decidere se la guerra deve o non deve farsi»17: con parole che

preludono alla scelta repubblicana chiaramente affermata nel «Pri- mo articolo definitivo» della Pace perpetua, come di una forma regi-

minis sfavorevole alla guerra perché in essa, essendo i sudditi anche

Nel documento La filosofia cosmopolitica di Kant (pagine 159-200)

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