4.1
I nuovi spazi del veneziano
All’inizio del Seicento, gli spazi dell’italiano e del veneziano in città hanno raggiunto un’ormai stabile configurazione. La lin-gua letteraria, praticata usualmente nello scritto di livello più controllato dalla fascia più istruita della popolazione, condizio-na ormai anche taluni tipi di testi in precedenza refrattari all’in-flusso del toscano, come ad esempio le scritture giuridiche e paragiuridiche, nelle quali il registro della tradizione cancellere-sca locale resiste quasi solo in ambito lessicale, cioè nella con-servazione della terminologia tipica degl’istituti giuridici della Repubblica, e nel mantenimento della veste fonomorfologica veneziana per una limitata serie di forme ereditate dal passato. Ecco ad esempio il testo di una terminazione (‘decreto’) seicen-tesca, all’incirca coeva alle gride milanesi che colpirono il Man-zoni dei Promessi Sposi (la traggo da Brown, 1969, p. 263):
A dì 11 Marzo 1628. Terminate delli ClarmiSSri Prov. di Comun, in materia del prezo delli Libri nuovi che si stampano et che si sono fatto stampare da sei Mesi in qua.
Accioché li Librari et Stampatori di questa Città non si fanno leci-to di domandar ogni pretio eccessivo delli loro libri fu disposleci-to per parte del Eccmo Senato de dì 3 Genaro 1533 che ogn’un che farà stampar qual si voglia libro, inanzi che quello dii fuori, debba portar-lo al Magistrato nostro acciò, secondo che vien decretato in essa par-te, li sii deputato il pretio col quale doverà esser venduto; Et vedendo l’IllmiSignori Bernardo Dolfin et Andrea da Molin, Honorandi
Prove-ditori di Comun, absente il suo terzo Colega, che detti Librari et Stampatori cominciano metter in desuso l’esecutione di detta Parte, il che non dovendosi per publica dignità più sopportare, hanno con la presente loro terminatione statuito et ordinato, che nel termine di giorni otto prossimi venturi, il Prior dell’arte predetta debba redur Capo[‘convocare un capitolo, un’assemblea’] et in quello far publicar l’esecute d’essa parte.
L’antico linguaggio saturo di venezianismi anche fonomorfolo-gici e non solo occasionalmente lessicali permane poi nell’inin-terrotta tradizione a stampa del volgarizzamento quattrocente-sco degli Statuti del Tiepolo, fino all’ultima edizione del 1729, particolarmente scrupolosa nella riproduzione dell’antica veste linguistica veneziana illustre. Piuttosto conservativa è anche la scrittura consueta degli uffici in testi che, non essendo rivisti per la stampa, mostrano più consistenti tracce delle antiche abi-tudini di scrittura e più evidenti infiltrazioni degli usi dialettali. Coevo alla terminazione appena citata è questo verbale riporta-to nel registro dei Dieci Savi sopra le Decime, in cui il numero di venezianismi anche fonomorfologici (redutto ‘ridotto’, Libreri ‘librai’, Genero ‘gennaio’, ditta ‘detta’, aldido ‘udito’) è ben maggiore e non limitato alla terminologia tecnico-giuridica, per la quale pure s’osservino le voci e le locuzioni laudo ‘conferma’ e taglio ‘annullamento’ della sententia, conseg(e)r ‘consigliere’,
mette parte ‘decreta’ (ivi, p. 262):
MDCXXVII. a dì viii Marzo. Redutto l’EccmoCollegio di XSavii sopra le decime in Rialto al No di 7. Aldido Dno Lorenzo Magri per nome della Università di Libreri e Stampatori dimandando il taglio della sententia fatta per l’IllmiSSriProveditori di Comun sotto di 27 Gene-ro pGene-rossimo passato, come sentenza mal et indebitamente fatta a gra-ve danno et pregiuditio di ditta Unigra-versità per più ragion et cause, da una. Et dall’altra Aldido Dno Marco Genami Consegr [‘consigliere’] per nome suo et per nome della maggior parte della Banca et Uni-versità di Libreri et Stampatori, dimandante il laudo di ditta sentenza come bene et rettamente per più ragion et cause.
Mette parte l’Illmo Sigr Alessandro Marcello, ebdomadario, che ditta sentenza sii tagliata, cassata et annullata come è stato richiesto, et dato giuramento al Collegio.
Che una certa resistenza dei tratti encorici sia tipica di talune scritture non destinate alla pubblicazione, ma alla circolazione interna degli uffici si nota persino in un autore di pregevole ca-ratura culturale, come il servita Paolo Sarpi (1552-1623).
Con-sultore in iure della Repubblica ai tempi dell’Interdetto
primo-seicentesco, che oppone Venezia alla Roma dei Papi, egli realiz-za nella sua Istoria del Concilio Tridentino (apparsa a stampa nel 1619) una prosa italiana in cui sono complessivamente rare – pur se non assenti del tutto – le tracce di una dialettalità che emerge più generosamente nello «stile sbrigliato e succoso, tut-to senso politico» (Cozzi, Cozzi, 1979, p. 461) dei suoi Consulti per la Signoria, rimasti manoscritti, o nelle sue scritture private ed epistolari (un esempio in Cortelazzo, Paccagnella, 1994, p. 288: «se ella vuol saper l’istesso di me, bisogna che le dica, che con nissuno son così solitario, che temo vivendo più al longo farmi melanconico»).
Indubbio che Sarpi parlasse abitualmente in veneziano an-che nello svolgimento della sua attività di consulente della Re-pubblica. A una certa consuetudine col dialetto della città era-no anzi indotti persiera-no gli ospiti toscani della Serenissima. Tra essi, una particolare curiosità e una creativa inclinazione per la letteratura dialettale locale mostra ad esempio il pisano Galileo Galilei (che risiede a Padova fra il 1592 e il 1610, si lega a una donna veneziana e frequenta spesso la città dei Dogi), del quale è certo che fu un appassionato cultore della poesia e del teatro pavani, e che non esita a inserire qualche dialettalismo venezia-no (gli ittionimi buovoli e pesci armai) nel suo Dialogo sopra i
due massimi sistemi (cfr. Tomasin, 2008).
Insomma, come osserva Cortelazzo (1983, p. 367), nell’ul-tima fase della Repubblica «lingua (toscana) e dialetto (vene-ziano) correvano [...] speditamente in parallelo senza intralci, se si escludono i reciproci scambi propri di tutte le lingue in contatto». Così, la «diglossia, che perdura fino ai nostri gior-ni» per cui «il dialetto è riservato al parlato, l’italiano allo scritto» (Cortelazzo, 1982, p. 71) porta con sé fenomeni d’in-terferenza continui, o addirittura vistose eccezioni. Nel corso del secolo XVIII, la generale ripresa dell’orgoglio linguistico
municipale induce taluni avvocati a riprodurre anche nella versione a stampa delle loro arringhe i tratti dialettali dell’elo-quio forense di solito confinati all’uso parlato. Ecco ad esem-pio il vibrante finale di una delle Orazioni criminali date alle stampe da Marco Barbaro nel 1786 (da Cortelazzo, Pacca-gnella, 1994, p. 295):
Sfortunà, nella tua più tenera gioventù qual scossa al tuo onor! una union rea coi maggiori scelerati a ti imputada, el tuo nome già sparso per le bocche del Popolo coll’alterazion dei fatti medesimi, una car-cere resa per tanto tempo la tua abitazion, ti condotto con marche d’ignominia in mezzo a una turba de popolo, che avendote credudo reo non può sentir le tue giustificazion, sedente su quella banca, orri-bile banca, la qual forma per secoli l’orror, l’obbrobrio de una Fame-glia [...]. Sta orribile banca abbandonila, ai piè del tuo Principe le tue innocenti lagrime lavi l’ignominia de cui la te ha coperto. Non ghè più memoria de Madre, non de Sorella, non de se stesso. L’onor l’onor [...] chi poderà restituirghelo? Ah! Sì giusto, e pietoso Conse-gio, Elle solo pol rimetterlo. Un giudizio, che l’assolve ghe dà la li-bertà, un giudizio che sia pien, concorde ed unisono ghe restituisce l’onor. Non le xé vindici dei diritti dei omeni, le lo xè anca della reputazion. Se non ghe la pol restituir, che una pienezza de giudizio; una pienezza de giudizio mi invoco. La vol la giustizia, la vol l’uma-nità, la implora le lagrime amare de sto infelice, alle quali non devo mi, non deve alcun arrossirse di unir le sue, quando le cade sull’inno-cenza. Ho detto.
Terreno d’incontro privilegiato fra lingua locale e lingua nazio-nale sono le scritture tecniche, artigianali, e marinaresche in particolare. Nell’arte della costruzione navale e della navigazio-ne, il veneziano esporta nell’italiano – oltre che in varie altre lingue europee – un’abbondante terminologia specialistica, per la quale lo stesso dialetto fa spesso anche da ponte tra l’italiano e le lingue straniere. Così, «del centinaio di vocaboli di schietto stampo settentrionale (spesso registrati assieme alla variante to-scana) presente nel Vocabolario de las dos lenguas toscana y
ca-stellana di Cristobal de las Casas, la maggior parte è di
voci appartenenti alle attività del mare, come i termini navali
peotta, o gli ittionimi schiraso, folpo, ostrega, sgombro. Nel
cam-po delle tecniche artigianali, cam-poi, l’abbondante discam-ponibilità di fonti scritte nell’età del Barocco e dell’Illuminismo consente di apprezzare «i linguaggi delle arti – muratori, carpentieri, taglia-pietra, calcineri, sabbioneri, fenestreri, fabbri, terrazzeri, ciascuno con un proprio livello di ricchezza e di articolazioni; il linguag-gio classicista del vitruvianesimo e le inflessioni dialettali che esso, inevitabilmente, venne ad assumere», come osserva Conci-na (1988, pp. 8-9). Ne glossario da lui dedicato ai termini ar-chitettonici veneziani di età moderna s’incontrano, accanto ai tipici nomi di professioni appena citati, voci come gatolo ‘con-dotto di scolo’, mezà ‘piano ammezzato’, sbianchizar ‘imbianca-re’, terazo ‘terrazzo, pavimento alla veneziana’, ancor vive nel dialetto e nello stesso italiano regionale d’oggi.
Se dalle scritture tecniche ci si rivolge a quelle private che più da vicino potrebbero ormeggiare l’immediatezza della par-lata quotidiana, ci s’imbatte, già nelle lettere familiari degli ari-stocratici, in un italiano caratterizzato da interferenze locali e da usi grafici riconducibili all’influsso del dialetto, come mo-strano ad esempio le missive scambiate dai membri del ramo Stampalia della nobile famiglia dei Querini, nel corso del secolo
XVIII. Eccone una di Elena Mocenigo Querini, inviata al marito Andrea, da Venezia, l’11 settembre 1773, in cui si osservino le incertezze nell’uso di consonanti scempie e doppie, oltre a un vistoso venezianismo lessicale: vovi ‘uova’ (ediz. Fancello, Gam-bier, 2008, p. 116):
Sig.r Con.te Stim.o,
Le notizie del vostro buon viaggio e l’arrivo a cotesta parte in sa-lute mi furono gratiss.me, e di vero cuore mi consolo. Mi è spiaciuto il sentire che il cameriere arrivò dopo di voi e che siete stato in ne-cessità di passarvela parcam.te Il Sig.r Cancelliere, ch’è uso per la sua salute a vivere sobriam.te il cibo, de’ vovi non li sarà stato disagrade-vole. Prego il cielo che continuano si belle giornate che così la vostra salute si aprofiterà. Tutti di vostra famiglia a voi si rassegnano, ed io mi protesto con vera cordialità
In una graduale discesa verso forme di scrittura meno control-late s’incontrano, ad esempio, le lettere di un’altra donna, di rango sociale inferiore a quello della Mocenigo Querini: l’attri-ce Teodora Ricci, cinque messaggi della quale, rivolti a Carlo Gozzi, si sono conservati, documentando un italiano assai mal-certo nell’assetto grafico e ancor più nettamente condizionato dal dialetto. Ecco un passaggio, significativo anche per il conte-nuto, di una missiva del 22 luglio 1774 (ediz. Gorla, 2006, p. 129, con ritocchi):
Dovevo studiare quando era tempo che così ora non sofrirei la morti-ficasione di sentir a dirmi ignorante. Non o mai dubitato che lei non mi sia stato un bon amico, avendolo sperimentato in molte ocasioni e se tale non lavesi creduto non mi sarei abandonata intieramente alla sua amicizia. Non comprendo per qual motivo lei sia così ansioso di ristuire [sic] a me le mie lettere: io non so certo da da [sic] vergle mai chieste onde questo non puo certo eser il motivo.
Ancor maggiore aderenza al parlato – il “color locale” si mani-festa qui nella grafia non meno che nella fonomorfologia e nel lessico – raggiungono poi le lettere inviate a Giacomo Casanova dalla popolana veneziana Francesca Buschini, sedotta dal liber-tino e rimasta in contatto epistolare con lui tra il 1779 e il 1786; trascelgo un passo da una lettera del settembre del 1783 (ediz. Pontini, 1993-94, p. 21, con ritocchi), in cui si notino, oltre ai soliti usi grafici venezianeggianti, la forma servisio, le voci verbali erimo ‘eravamo’ e balar ‘ballare’, l’uso del pronome personale femminile soggetto la, e il termine neza ‘nipote’:
Madama Bineti sapiate che io non vado più da ela, dopo che risevei una malagrazia tropo forte sentirete qual ragione la mi à usato sta ma-lagrazia. Pochi giorni fa sono andata da lei e la era in letto amalata e so[n]o stata tuto il giorno in sua conpagnia; vi era la sua n[e]za e la madre di quela regaza che la ge insegnia a balar la sera; adunque è venuto un altro signore, erimo adunque tuti in quela camera in sua conpagnia quando ela dise che andasimo tuti fori che ge occhoreva di far un servisio.
Il veneziano del Settecento, beninteso, non è solo quello mal-destramente riprodotto nelle sue lettere da questa ragazza di umilissima condizione: che, come già nei secoli anteriori, esso potesse contare su un’ampiezza e su una varietà d’usi social-mente assai differenziati è indirettasocial-mente assicurato anche dal-la corale esaltazione del dialetto che si leva daldal-la cultura vene-ziana del secolo dei Lumi e ne rappresenta una sorta di topos letterario.
A prender parte al generale sussulto di patriottismo lingui-stico nell’età che precede la fine della Repubblica sono intellet-tuali tra loro diversissimi, come il doge-letterato Marco Fosca-rini (autore di una Letteratura veneziana in cui egli discorre della «nobiltà del dialetto veneziano, come quello che avanza per lungo tratto in copia di scritture qualunque altro d’Italia»); il commediografo Carlo Goldoni (che all’amore per il venezia-no dedica varie pagine nei suoi Mémoires, cfr. Tomasin, 2009, p. 196); il raffinato intellettuale Apostolo Zeno (che nell’anno-tare la Biblioteca dell’Eloquenza italiana di Giusto Fontanini auspica la redazione di un vocabolario dialettale veneziano); il nobile barnaboto (cioè ‘decaduto’) Francesco Zorzi Muazzo, che durante una reclusione in manicomio riempie, tra il 1771 e il 1775, un ponderoso volume con una Raccolta de’ proverbii,
detti, sentenze, parole e frasi veneziani, arricchita d’alcuni esem-pii ed istorielle. Si tratta d’una sorta di disordinata summa
del-la cultura veneziana del tempo, descritta attraverso i modi di dire, le parole caratteristiche e i detti proverbiali comuni alle classi più elevate e al popolo minuto, dei quali si dà conto, in-solitamente, in dialetto anziché nella lingua comune normal-mente impiegata, già all’epoca, dai primi e pionieristici lessico-grafi dialettali italiani. Non, dunque, propriamente un diziona-rio: ma non è un caso se la Raccolta risale agli stessi anni in cui viene compilato uno dei primi lessici dialettali d’Italia, il
Voca-bolario veneziano e padovano di Gasparo Patriarchi, apparso
nel 1775, di cui diremo sotto (PAR. 4.5). Ecco dunque la voce
bastion della Raccolta di Muazzo, in cui la denominazione di
aprire uno squarcio di vivace cronaca cittadina (ediz. Crevatin, 2008, p. 90):
Bastion.
Magazzen da vini. Do principalmente zè i caporioni che fa andar sti bastioni in Venezia: uno zè un tal Zuane Coa, villan da Bovolenta, veggio [‘vecchio’] avaro e sordido che solamente el veder la figura fa ricavar cosa che da baronae, ladrarie, e struzio [‘inganno’] della po-vertà vien fatte dai so omeni nei so bastioni che va a conto soo e che i par tante spelonche de ladri e sassini quei so bastioni; l’altra zè la fameggia dei Coletti, onesti e onorati galantomeni, amai dal so Prenci-pe, dalla nobiltà e dalla povertà massime e che procura che a tutti ghe vegna dà el so giusto.
Dove si notino le grafie di zè ‘è’ e struzio (corrispondente all’i-taliano struscio), con z rispettivamente per la sibilante sonora e sorda, indizio di un fenomeno – la perdita dell’elemento denta-le di [ts] e [dz] – di cui diremo oltre (PAR. 5.5).
Del resto, il «patriotico zelo de’ veneziani» nel tener viva la propria tradizione dialettale e l’eccellenza di quest’ultima nel panorama nazionale non sfuggivano, in quegli anni, agl’intellet-tuali del resto d’Italia: così, se il napoletano Ferdinando Galiani additava quello «zelo» ai suoi concittadini come un esempio da seguire (1779), il piemontese Giovanni Francesco Galeani Na-pione nel 1791 riconosceva al veneziano di essere «troppo bello [...] per un dialetto semplice, non abbastanza per formare una lingua», e il suo conterraneo Carlo Denina nel Discorso sopra le
vicende della letteratura (1788) ammetteva che solo il declino
politico di Venezia dopo l’età delle guerre primocinquecente-sche aveva precluso «la via di rendere universale per l’Italia, e nei lidi dell’Adriatico, e del Mediterraneo il dialetto Venezia-no». Quest’ultimo, insomma, si avvia nel corso del Settecento a diventare uno dei tratti culturalmente e socialmente più caratte-rizzanti della città, partecipando di fatto alla formazione del-l’immaginario letterario e poetico di Venezia che tanta fortuna avrà nei tempi che seguirono la caduta della Repubblica. Come già ai tempi dei Belando, degli Andreini e dei Caloiro, ancora
nell’Otto e nel Novecento il veneziano sarà, in effetti, uno dei pochi dialetti italiani ad essere impiegati, con fini espressivi, da scrittori di altra provenienza, che vi ricorreranno talora per ca-ratterizzare l’atmosfera della città: così sarà, ad esempio, per gl’inserti dialettali nel Fuoco di Gabriele D’Annunzio, o per quelli di Ezra Pound nei suoi componimenti di ambientazione veneziana o veneta.
4.2
Traduzioni letterarie in veneziano
L’uso di tradurre in veneziano i capolavori della letteratura ita-liana, o addirittura quelli dell’antichità classica, si afferma a Ve-nezia già nel Rinascimento: al 1554 risale la versione in veVe-nezia- venezia-no del primo canto del Furioso pubblicata da Benedetto Clario («Le giorle [‘donnacce’], i drudi, le zufe e i martei [‘amorazzi’] / I favori d’Amor, le berte canto / Ch’acascò al tempo che quei martorei [‘meschini’] / Dei Mori in Franza fè cussì gran pianto [...]»). Vi si manifesta, ma senza raggiungere risultati convin-centi, la cifra di tali operazioni, cioè l’abbassamento parodico, che si otteneva più facilmente, in quegli anni, trasportando le medesime materie in varietà dialettali più chiaramente subalter-ne, come ad esempio il bergamasco (cfr. D’Onghia, in stampa). Dopo un ulteriore tentativo compiuto, ancora con l’Ariosto, nella raccolta poetica anonima La Caravana (1565, attribuibile al Caravia), e una parziale traduzione della Liberata da parte di Giovanni Battista Perazzo nel 1678, il camuffamento dialettale perviene a risultati apprezzabili con El Goffredo del Tasso cantà
alla barcariola, pubblicato tra il 1691 e il 1693 da Tomaso
Mondini. Non si tratta, ovviamente, di una semplice versione, ma di una trasposizione della materia cavalleresca nei modi propri del canto in gondola, cioè di un genere popolare in cui la produzione ariostesca e quella tassiana avevano conosciuto ampia fortuna. «La metaforizzazione barcariola delle strutture di elocuzione è il tratto certo più diffuso e profondo del testo mondiniano, dove simili formule sono costantemente sparse – o
sparpagnàe, per impiegare un termine prediletto dall’autore –
lungo l’intero poema» (Vescovo, 2002, p. XXIII). Ecco dunque il rifacimento mondiniano dell’ottava esordiale:
L’arme pietose de cantar ghò vogia, E de Goffredo la immortal braura, Che al fin l’hà liberà con stutia e dogia Del nostro bon Giesù la Sepoltura; De mezo Mondo unito, e de quel Bogia Misser Pluton no l’hà bù mai paura; Dio l’hà agiutà, e i Compagni Sparpagnai Tutti l’gh’i hà messi insieme i dì del Dai.
Come una prosecuzione della medesima linea, o meglio una sua rivisitazione nel clima del classicismo settecentesco, può es-sere riguardata la traduzione dell’Iliade in veneziano, in ottava rima, di Giacomo Casanova, iniziata durante gli ultimi anni della sua vita, nel castello boemo di Dux, e lasciata incompiuta (otto canti su ventiquattro) e manoscritta. Essa fa seguito a un’altra parziale versione, in italiano, che egli stesso aveva mandato alle stampe in tre tomi tra il 1775 e il 1778, e si rial-laccia probabilmente a un esperimento di Iliade giocosa (tosca-namente burlesca) tentata già nel secolo precedente (1654) dal romanziere e poeta veneziano Giovan Francesco Loredan. Nel caso di quella in dialetto, la trasposizione (la cui fedeltà è mi-nata già in partenza dal fatto che Casanova conosceva solo