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La conclusione dei conflitti nell’antichità

At foeda atque ignominiosa deditio est. Tito Livio, Ab Urbe Condita IX, IV, 15

1. La conclusione dei conflitti presso gli elleni

Gli usi e i costumi bellici delle popolazioni dell’Asia Minore, della Mesopotamia, del Vicino Oriente e dell’Egitto influenzarono notevolmente la pratica della guerra della Grecia classica, che a sua volta influenzò profondamente la storia bellica occidentale. Le popolazioni elleniche erano unite da un vincolo culturale, e non politico: erano infatti disseminate in oltre un migliaio di sta- terelli, in maggioranza di piccole dimensioni, che si estendevano dal Mar Nero al Mediterraneo occidentale. La cultura della civiltà ellenistica era generalmente molto maschilista – anzi, a tratti, ma- chista – e il tema della guerra permeava di fatto ogni ambito di vita, anche quello artistico1. Eraclito riteneva che la guerra fosse la madre di tutte le cose e Platone la considerava una condizione assolutamente naturale. In generale i greci pensavano che la forza e il dominio del più forte fossero leggi di natura assolutamente ovvie tanto per gli dei quanto per gli uomini. Ciò è perlomeno quel che suggerisce Tucidide nel celebre Dialogo dei Meli2, da cui emerge che i rapporti tra i diversi stati erano dominati dal timore reciproco, dall’onore e dalla sete di vittoria.

I greci hanno introdotto nella pratica bellica alcune inno- vazioni fondamentali per la storia europea successiva, al punto che alcuni studiosi – tra cui lo storico militare americano Victor Hanson – hanno visto proprio in questa civiltà la culla del «We- stern way of war»3. La guerra ideale dei greci era la lotta fino alla morte, il cui modello era stato incarnato da Leonida e dai suoi spartani nella Battaglia delle Termopili. In quella circostanza, gli

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spartani, seppur accerchiati dalla potenza superiore dei persiani, non presero affatto in considerazione l’idea di capitolare. Il loro atteggiamento venne celebrato come un ideale da molti poeti, storici e autori epici greci, da Callino e Tirteo4, e persino da Senofonte che descrisse gli ultimi istanti del combattimento a morte di Anassibio nel 389 a.C. Costui, rendendosi conto che la guerra era ormai persa, si rivolse ai suoi soldati in questo modo: «Uomini, il mio onore chiede che io muoia nella mia posizione, ma voi dovete mettervi al sicuro prima che il nemico vi raggiunga. Così dicendo, si tolse lo scudo e morì combatten- do dov’era»5. Victor Hanson rileva una simile risolutezza anche tra gli ateniesi che avevano combattuto contro gli spartani ad Anfipoli6. Ciò lascia presumere che la maggior parte dei greci credesse fermamente nell’ideale della lotta fino alla morte. Ma ogni ideale, in quanto tale, rimane necessariamente precluso alla maggioranza degli uomini. Difatti tra i greci era diffusa – quasi a complemento del loro ideale di potenza e di dominio – an- che una chiara consapevolezza del fatto che il vincitore doveva riservare al vinto un trattamento magnanimo, che precludeva il ricorso a qualsiasi forma di violenza spietata. Un ottimo esempio di questo atteggiamento che i greci adottavano nei confronti dei loro nemici sconfitti è rappresentato da Dionisio, il tiranno di Siracusa. Questi aveva catturato 10.000 uomini di un esercito d’assedio presso Caulonia, una città dell’Italia meridionale. I soldati capitolati temevano il peggio, ma Dionisio li trattò con magnanimità, rilasciandoli senza imporre alcuna condizione. Secondo la testimonianza di Diodoro, i contemporanei ritennero questo gesto del tiranno «l’azione migliore di tutta la sua vita»7.

I primi documenti scritti relativi alla pratica bellica degli elleni risalgono al secolo VIII, l’epoca in cui vennero composte l’Iliade e l’Odissea. Le guerre che coinvolsero Troia nell’età del bronzo – descritte da Omero, ma risalenti a oltre quattro secoli prima – consistevano perlopiù in scontri episodici tra eroi greci e troiani. Ancorché disponessero di carri da guerra, costoro – come osserva John Keegan – non se ne servivano nei combattimenti (praticando piuttosto una guerra di fanteria), ma soltanto come mezzi per raggiungere il campo di battaglia8. Spesso il vinto cercava di salvarsi dandosi alla fuga, ma se non gli riusciva pa- gava la sconfitta con la vita. Sicché, per i vinti, quegli scontri si concludevano inevitabilmente con la morte e lo sterminio. Le descrizioni dei combattimenti fuori dalle mura di Troia non ci

La conclusione dei conflitti nell’antichità 31 informano soltanto del destino di chi soccombeva nel duello o sul campo di battaglia, ma anche di quello di quanti vivevano entro le mura della città prima assediata e poi conquistata. Dopo la presa Troia venne rasa al suolo, gli uomini furono uccisi e le donne ridotte in schiavitù.

I greci dell’età classica si ispiravano alle figure di questi eroi e a questi miti9, nonostante avessero elaborato una pratica bellica assai differente da quella dell’età del bronzo e dai conflitti precedenti la guerra di Troia10. Al singolo scontro tra eroi si sostituì la vera e propria battaglia tra eserciti, i cui soldati erano disposti in una formazione ben determinata, la falange, composta di fanti dotati di corazze pesanti (gli opliti). Questa nuova maniera di combat- tere era il prodotto di svariate innovazioni che riguardavano sia l’evoluzione della tecnologia bellica rispetto all’età del bronzo, sia la realtà culturale ed economica delle città-stato greche che si fronteggiavano. Per un verso, essa esprimeva il desiderio delle parti belligeranti di fare sfoggio della loro potenza, misurandola con quella dell’avversario11. Ma se fosse stato solo questo, gli scontri si sarebbero conclusi assai rapidamente, giacché i soldati erano perlopiù miliziani che volevano e dovevano tornare quanto prima alle loro occupazioni primarie, perlopiù al lavoro contadi- no12. Sulle ragioni che hanno determinato lo sviluppo di questa forma di combattimento gli studiosi non sono affatto concordi13. Per altro verso, essa rifletteva la struttura sociale degli eserciti che vi prendevano parte. Difatti, soltanto i cittadini relativamente agiati della classe media superiore potevano aspirare a diventare opliti, giacché soltanto loro potevano accollarsi i costi ingenti delle armature e disporre di uno schiavo da portarsi al seguito. Questa forma di combattimento richiedeva una buona dose di coraggio; di norma i soldati non erano adeguatamente preparati agli scontri, giacché nella loro condizione di miliziani-cittadini non potevano permettersi di sottrarre molto tempo alle loro occupazioni civili per le esercitazioni militari.

Ma come si svolgevano gli scontri tra gli eserciti degli opliti? La falange era composta da file di soldati armati di lancia e spa- da, e serrati gli uni accanto agli altri. Con il braccio sinistro ogni soldato sorreggeva un grande scudo a protezione di se stesso e del suo vicino. La falange era solitamente composta da otto file di soldati. Le file dei due eserciti nemici si avvicinavano fino a che i soldati si trovavano l’uno di fronte all’altro. La fila anteriore rimaneva compatta, coperta dagli scudi e pressata in avanti dalle

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file posteriori. Al contempo, poiché i soldati si pigiavano sotto la protezione degli scudi dei loro vicini, le falangi ruotavano verso destra14. Il massacro indicibilmente sanguinoso – come pare acca- desse in queste battaglie – obbligava di fatto i soldati al suicidio. La stessa costrizione fisica in cui si trovavano i soldati era un fat- tore determinante: lo spazio d’azione del singolo oplita era assai limitato, sia prima dello scontro, sia durante. Da un lato, egli era obbligato a scendere in campo dalla sua stessa posizione sociale; dall’altro, una volta che prendeva posto nelle file della falange e si trovava circondato dai suoi commilitoni, era fisicamente impossibilitato a intraprendere qualsiasi iniziativa personale. Le file dei soldati combattevano serratamente le une contro le altre, finché una delle due si rompeva. In questo caso, le parti non colpite della falange retrocedevano. Erano queste le regole della guerra degli opliti nell’epoca classica, tra il 700 e il 450 a.C., dove – perlomeno in teoria – non venivano impiegate armi da lancio e a lunga gittata, e dove non era uso inseguire e uccidere i nemici colpiti15. Queste limitazioni autoimposte rendevano l’atmosfera di quegli scontri simile a quella dei duelli. Tuttavia, nella pratica poteva anche accadere che lo schieramento della parte sconfitta si disfacesse completamente: l’opera di sfondamento (parrexis) da parte di uno schieramento portava al collasso (trope) dell’altro, i cui soldati, una volta sconfitti e colti dal panico, si disperdevano16. Qui l’istinto di sopravvivenza aveva la meglio. Fino all’epoca mo- derna, molto spesso i comandanti sul campo temevano a ragione, e ben più della sconfitta, che i loro soldati, in preda al panico, si disperdessero e si dessero alla fuga. La dispersione dei soldati procurava perdite immense: durante la fuga i singoli non pote- vano più contare sulla protezione dei compagni e, impediti nei movimenti delle pesanti armature, diventavano facili prede dei fanti, che portavano armature ben più leggere delle loro, o della cavalleria che riusciva abbastanza facilmente a catturarli e talvolta persino a ucciderli17. In qui frangenti conveniva piuttosto optare per una ritirata di gruppo; di scelta del genere, sobria e coraggiosa, ci parla ad esempio Socrate18. La sorte peggiore toccava invece a quelli che, sperando di salvarsi con la fuga, abbandonavano le armi e spesso anche l’armatura19.

Il vinto riconosceva apertamente la sconfitta e implorava il vincitore di lasciargli radunare i caduti; la richiesta era confor- me agli usi bellici del tempo, e veniva rifiutata soltanto in casi eccezionali. Il vincitore, da parte sua, sanciva la propria vittoria

La conclusione dei conflitti nell’antichità 33 innalzando un vessillo sul luogo in cui si era deciso l’esito della battaglia. Talvolta i superstiti dell’esercito sconfitto dichiaravano la resa e venivano catturati – tra questi potevano esserci i soldati di un’ala della falange ancora intatta ma accerchiata dal nemico, o i soldati del treno, che sorvegliavano la zona e gli equipaggia- menti, oppure, ancora, i soldati feriti che giacevano sul campo. A quanto ammontavano le perdite di queste battaglie? Secondo le stime di Victor Hanson, il vincitore perdeva all’incirca il 5% dei soldati, mentre il vinto il 14% – laddove, però, le perdite del vincitore si realizzavano durante lo scontro e appena prima dello sfondamento dell’esercito nemico. Fino a quel punto vin- citore e vinto avevano grosso modo perdite di uguale entità; non appena iniziava la fuga dei soldati sconfitti, però, per il vinto il numero cresceva drammaticamente20. Tucidide descrive un caso estremo: quello della battaglia di Anfipoli del 421 a.C. in cui gli ateniesi, sorpresi dagli spartani quando ancora non erano pronti a combattere, vennero colti dal panico e persero all’incirca 600 uomini, contro le 7 vittime dei loro nemici21.

Questa forma di combattimento non mirava alla completa distruzione del nemico; essa funzionava piuttosto come un duello: veloce, sanguinario, risolutivo. Talvolta questi scontri conclude- vano guerre più grandi, ma poiché la civiltà greca, estremamente competitiva, era perennemente impegnata in conflitti, non era detto che le conclusioni dei combattimenti, per quanto indiscu- tibili, conducessero davvero a una pace duratura. Di certo però venivano sospese momentaneamente le ostilità, consentendo ai soldati di far ritorno alle loro occupazioni civili.

Questa forma di combattimento era però diversa da quella tra le altre civiltà dell’epoca? È legittimo ritenere, come fanno Hanson e Keegan, che essa segni l’inizio del «Western Way of War»?22 I due studiosi ritengono che i combattimenti dei greci fossero diversi da quelli dei grandi regni del Vicino Oriente per via dell’impressionante risolutezza e dello spirito suicida dei soldati opliti, i quali si affrontavano in lotte cruente, corpo a corpo, senza nessun riguardo per le loro stesse vite. Ma anche negli scontri tra gli antichi imperi orientali si poteva assistere a manifestazioni di analoga risolutezza da parte dei soldati, e a veri e propri massacri. Quegli eserciti disponevano di un ampio arsenale di archi, fionde, lance e spade, persino di una cavalleria – a differenza dei greci, infatti, non si servivano soltanto di una fanteria ben corazzata.

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Agli occhi dell’esercito specializzato dei persiani la condot- ta bellica dei greci appariva curiosa, e verosimilmente costoro guardavano ai loro nemici greci con il medesimo senso di stra- niamento dei soldati americani di fronte ai soldati giapponesi nella seconda guerra mondiale. Erodoto faceva pronunciare al generale persiano Mardonio queste parole:

Nel rimanente, sogliono i Greci, per quanto odo, regolare le loro guerre intestine con certe massime inconsultissime, dove l’inscienza gareggia colla stravaganza. Imperocché, dopo essersi reciprocamente dichiarata la guerra, vanno a cercare le più belle e distese pianure , nelle quali discendere ed affrontarsi a vicenda. Di guisa tale che gli stessi vincitori ne partono con gravissimi danni; e non mi occorre neppur parlare dei vinti , essendo chiaro che non ne deve restare uno vivo23.

A Mardonio appariva quantomeno insolito che i greci non cercassero ostinatamente di limitare i danni che poteva arrecare loro la guerra. Infatti, per quanto i persiani combattessero con l’obiettivo di danneggiare il nemico, erano sempre attenti a limitare quanto più possibile le loro perdite, ragion per cui incominciarono a servirsi di armi a lunga gittata. La maniera di combattere dei greci – simile al duello, e il cui vantaggio consisteva nel fatto che gli eserciti avevano tutto l’interesse a concludere rapidamente lo scontro – era sconosciuta ai persiani.

E che cosa succedeva ai vinti? Se non riuscivano a battere in ritirata in maniera ordinata o a fuggire, e se venivano colti dal panico, erano destinati a trovare la morte sul campo. I feriti venivano uccisi seduta stante – comunque, considerato lo stato della medicina del tempo, era assai difficile che chi veniva col- pito gravemente potesse sopravvivere alle ferite o alle infezioni che avrebbe di certo contratto24. Talvolta accadeva poi che le truppe cadessero in un’imboscata: in questo caso, a differenza di quanto accadeva sul campo, i soldati potevano scegliere se morire combattendo o capitolare. L’esempio più celebre è di nuovo, ovviamente, quello di Leonida e dei suoi proverbiali 300 spartani che resistettero contro i persiani alle Termopili e morirono combattendo, «come comandava la legge»25. Tuttavia questa risolutezza suicida non era affatto scontata, né per gli altri greci, né tantomeno per gli spartani. Durante la guerra del peloponneso del 425 a.C., ad esempio, sull’isola di Sfacteria vennero catturati 420 uomini tra spartani e altri loro alleati. Gli

La conclusione dei conflitti nell’antichità 35 ateniesi avevano evitato gli scontri corpo a corpo tipici degli opliti, ben sapendo che gli spartani erano invincibili in quella pratica; attaccarono invece gli spartani con i tiratori e gli arcieri26. Alla fine dello scontro gli spartani sopravvissuti furono soltanto 292, sfiancati e disperati. I superstiti decisero pertanto di rivolgersi agli araldi, le loro autorità supreme in terra, domandando loro che cosa avrebbero dovuto fare in quella situazione ormai senza speranza; la risposta che ottennero rimetteva la decisione nelle loro mani: potevano disporre della loro sorte fintantoché non avessero commesso alcun atto disonorevole. Costoro decisero pertanto di capitolare. Tucidide commentò l’accaduto con que- ste parole: «Nulla di ciò che accadde in quella guerra sorprese i greci quanto quella decisione»27. Ma ci fu di più: la capitolazione degli spartani fu incondizionata. Essi vennero condotti ad Atene, dove rimasero prigionieri per quattro anni, e vennero rilasciati soltanto con l’accordo di pace del 421 a.C. Una volta rimpa- triati i soldati capitolati vennero privati per un certo periodo di determinati diritti civili, al fine – questa era la motivazione – di evitare discordie all’interno della città.

Possiamo certo chiederci perché quella capitolazione sia ap- parsa tanto sorprendente – senza dimenticare che Tucidide colse l’occasione per sfatare il mito degli spartani, dei soldati che mai e poi mai sarebbero stati disposti a capitolare, indipendentemente dalla gravità della situazione. In realtà, nello scontro sull’isola di Sfacteria si affermò il meccanismo della moderazione. Que- sto episodio lascia intravvedere in maniera insolitamente chiara gli ingranaggi di tale meccanismo, alimentato dall’egoismo dei vincitori e dei vinti. Le fonti rivelano la presenza di due fattori determinanti: innanzitutto, la disperazione e il tenace istinto di sopravvivenza degli spartani sconfitti, che presero a desiderare la capitolazione come un sol uomo; in secondo luogo, le mire politiche degli ateniesi, ad esempio di Cleone, che si attendevano dalla cattura degli spartani vantaggi superiori rispetto a quelli che avrebbero avuto massacrandoli28. Qui mancava l’unico elemento che avrebbe potuto vanificare il funzionamento di un meccanismo di questo tipo: la presenza di un condottiero disposto a tutto, come Leonida, capace di trascinare con sé le proprie truppe e, in caso di necessità, persino di condurle alla morte. Invece, il comandante spartano Epitada era caduto; il suo successore, Ippagreta, era gravemente ferito e immobilizzato; Stifone, il comandante in terza, era pronto a capitolare.

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Di norma, nelle guerre dei greci i prigionieri venivano ridotti in schiavitù29. Platone riteneva la cosa assolutamente naturale. Un esempio celebre è quello dell’esercito ateniese impegnato in una campagna militare in Sicilia, alla fine della quale egli venne catturato dai nemici. Tucidide riferisce le circostanze concrete della capitolazione. Per prima cosa, i siracusani accerchiarono la retroguardia dell’esercito ateniese ormai in fuga: circa 6.000 uomini sotto il comando di Demostene. Agli ateniesi venne concesso di negoziare le condizioni della capitolazione: nessuno avrebbe dovuto venir ucciso «né sul momento, né a causa della prigionia, né per mancanza di viveri»30. La seconda parte dell’e- sercito, sotto la guida di Nicia, aveva tentato invano di mettersi in salvo marciando di gran lena ma, inseguita dai siracusani e soprattutto dalla loro cavalleria che li attaccava incessantemen- te, aveva riparato verso l’Assinaro. Una volta giunti al fiume gli ateniesi vennero colti dal panico, le truppe stremate e assetate persero l’ordine e il controllo. I soldati ateniesi si intralciavano a vicenda, calpestandosi fino ad ammazzarsi e lottando gli uni contro gli altri per raggiungere l’acqua che presero a bere avidamente, ancorché limacciosa e ormai sporca del loro sangue. Nei medesimi istanti il nemico, appostato sull’alto, continuava a bersagliarli. Nicia capitolò: non gli importava quale fosse il suo destino, ma implorò che si fermasse il massacro dei suoi soldati31. Le perdite subite all’Assinaro furono spaventosamente grandi, superiori a quelle di qualsiasi altra battaglia della guerra del peloponneso. Molti siracusani non riconsegnarono i prigionieri al nemico, ma li fecero immediatamente schiavi. Soltanto alcuni ateniesi fecero ritorno dal campo di battaglia o, successivamente, dalla prigionia. I circa 7.000 prigionieri ufficiali dovevano accamparsi all’addiaccio e non ricevevano cibo a sufficienza32; in un secondo momento vennero divisi: gli alleati e gli schiavi furono veduti; gli ateniesi stipati in cave di pietra. Nicia e Demostene, i comandanti dell’esercito, vennero giustiziati. Non fu questo il solo caso in cui i prigionieri vennero trattenuti come ostaggi, vuoi per estorcere al nemico determinate decisioni politiche, vuoi per ottenere un riscatto. Probabilmente alcuni ateniesi furono poi liberati dietro il pagamento del riscatto da parte dei loro congiunti.

Più tardi, nel corso di questa campagna, gli spartani paven- tarono l’idea che nessun greco avrebbe dovuto far schiavo un altro greco33. Ma la cosa non si confaceva ai costumi dell’epoca: al tempo era normale che i prigionieri di guerra venissero ridotti

La conclusione dei conflitti nell’antichità 37 in schiavitù. In Grecia le pratiche di mutilazione dell’avversa- rio sconfitto o gli stermini di massa rappresentavano piuttosto un’eccezione, sebbene talvolta accadesse anche questo. Nella fase conclusiva della guerra del peloponneso, l’ammiraglio spartano Lisandro arrivò a commettere atrocità di quel genere. Sulle ragioni di tale comportamento si è a lungo congetturato: un motivo poteva di certo essere la rapida crescita della disillusione e dell’imbarbarimento provocato da quella guerra infinita; un altro motivo era probabilmente che non si temeva la reciprocità di quelle azioni: dopo il fallimento della campagna militare in Sicilia, Atene si trovava infatti in una situazione davvero dispe- rata, e Lisandro non doveva pertanto preoccuparsi, perlomeno

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