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La corsa ai porti e al rinnovamento infrastrutturale

I. Potenzialità, limiti e contraddizioni dello sviluppo economico nel Golfo di Guinea

I.2 La corsa ai porti e al rinnovamento infrastrutturale

Parallelamente al settore energetico, i Paesi del Golfo di Guinea e i loro partner internazionali guardano con attenzione al miglioramento delle infrastrutture portuali. La necessità di ampliare porti esistenti e di costruirne di nuovi è funzionale all’aumento del volume dei traffici commerciali tra Africa e resto del mondo e, non riguardando esclusivamente i Paesi rivieraschi, si sovrappone al bisogno di migliorare le reti viarie (ferrovie e autostrade) che collegano la fase costiere all’entroterra.

Negli ultimi 20 anni, prima della crisi economica legata alla pandemia, gli investimenti nel settore portuale erano motivati dalla impetuosa crescita regionale (5% medio annuo) e dalla bonanza del mercato idrocarburico. Gli Stati africani del Golfo necessitavano di strutture in grado di ospitare un numero sempre più alto di navi petroliere per supportare l’esportazione.

Tuttavia, a partire dal 2015, nonostante il flusso di idrocarburi abbia cominciato a diminuire, il traffico marittimo complessivo della regione ha continuato a crescere, del 1,4% tra il 2015 e il 2017 e del 4% tra il 2018 e il 2020, a testimonianza di come siano cambiate le tipologie di merci scambiate, con quote sempre più ampie di prodotti non energetici. Nel 2017, 285 navi portacontainer hanno navigato le sette rotte commerciali intercontinentali verso l'Africa occidentale, con una capacità media di 3.300 tonnellate9.

Ad oggi, lungo il Golfo di Guinea transita il 56% dei container di tutto il continente e le attuali proiezioni affermano che, qualora il trend di crescita dovesse proseguire, nel 2021 i volumi saliranno di un ulteriore 5%, raggiungendo i 4.3 milioni di tonnellate. Il prossimo anno, oltre 12 porti della regione saranno in grado di ospitare cargo da oltre 6.000 tonnellate. A trainare l’incremento del traffico è stato l’interscambio con l’Asia e, in particolare con la Cina. La cosiddetta rotta dell’Estremo Oriente, che collega il Golfo di Guinea ai porti asiatici, è quella che vede la percorrenza del maggior numero di navi sia in assoluto che per quanto riguarda quelle con carico superiore alle 10.000 tonnellate.

I tre principali porti del Golfo di Guinea sono Tema, in Ghana, Lagos, in Nigeria, Douala, in Camerun, e Lomé, in Togo, con quest’ultimo che si è affermato come hub infrastrutturale più importante grazie all’entrata in servizio del suo Container Terminal in grado di gestire annualmente 890.000 tonnellate sul totale del milione e 200.000 transitanti nella capitale togolese.

Tuttavia, il trend positivo dei dati sulla crescita degli scambi commerciali e del traffico navale deve confrontarsi con tre fattori di criticità. Il primo è che, nel 2021, i porti regionali raggiungeranno la

9 International Shipping news (2020). West Africa A vibrant but trouble trade.

https://www.hellenicshippingnews.com/west-africa-a-vibrant-but-trouble-trade/

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maturità e non riusciranno a gestire l’incremento nel numero delle navi transitanti10. Il secondo attiene alla scarsa governance portuale, dovuta alla corruzione, alla mancanza di personale qualificato e alla burocrazia elefantiaca delle autorità locali che aumenta a dismisura i tempi di carico e scarico delle merci, fino al 200% rispetto al resto del mondo. Infine, il terzo riguarda la mancanza di sicurezza nei porti e nelle strutture attigue, dove impera la criminalità organizzata.

Tutto questo comporta una costante congestione dei porti che, oltre a rallentare lo sviluppo regionale, costringe le navi ad ancorare a largo anziché ormeggiare nei moli, il che le rende bersagli più facili per i pirati. Le difficoltà logistiche e i rischi operativi incidono sui premi delle assicurazioni navali, alzando così il costo del trasporto e, in ultima istanza, quello delle merci in entrata e in uscita.

Per ovviare alle criticità logistiche e impedire alla crescita di imbottigliarsi nella carenza infrastrutturale, i governi della regione hanno lanciato un ambizioso piano di espansione dei porti.

Attualmente, il settore portuale regionale ha attratto 15 miliardi di dollari in investimenti privati e 70 miliardi in programmi di finanziamento pubblico. Con la maggior parte di questi progetti finanziata da livelli crescenti di indebitamento statale, la loro redditività appare cruciale sia per la sostenibilità di lungo periodo che per evitare ai Paesi del Golfo di Guinea di cadere nella succitata

“trappola del debito”.

Per gli Stati di questa fascia dell’Africa munirsi di hub portuali moderni e attrezzati appare fondamentale anche in un’ottica di concorrenza con i vicini. Infatti, oggi esistono solo 4 porti in Africa che hanno lo status di “polo di smistamento continentale”11 (Port Said in Sudan, Gibuti, Durban in Sud Africa e Tangeri in Marocco) che riforniscono le quattro sub-regioni dell’Africa occidentale, meridionale, sud-orientale e nord–orientale). A questo proposito, lo scopo dei Paesi del Golfo di Guinea è evitare che Tangeri monopolizzi i commerci in Africa occidentale e che Durban faccia lo stesso con l’Africa meridionale.

Diversi sono i progetti più rilevanti nella regione del Golfo di Guinea. L’apripista è stato il Togo, con la costruzione del Container Terminal di Lomè (costato 380 milioni di dollari) allo scopo di ospitare e gestire navi post-Panamax12 e fungere da hub di trasbordo. In soli sei anni il porto togolese ha ampliato la sua capacità di carico da 311.000 TEU [Twenty (feet) Equivalent Unit] nel 2013 a 1,2 milioni nel 2019, diventando il porto più trafficato dell'Africa occidentale. Tuttavia, traffico di centinaia di navi con carico superiore alle 10.000 tonnellate.

12 Con una capacità di carico superiore alle 5.000 tonnellate e un tonnellaggio superiore alle 52.000 tonnellate.

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infrastrutture di collegamento nazionale e internazionale impattano negativamente la competitività del porto a vantaggio degli altri Paesi attigui.

Con i suoi benefici e i suoi limiti strutturali, l’investimento togolese ha stimolato la risposta dei vicini: nel 2015, il governo ghanese ha avviato i lavori per l’espansione di Tema (1.5 miliardi di dollari), mentre la Nigeria ha velocizzato le operazioni per il trasferimento delle infrastrutture dal vecchio porto di Lagos al nuovo porto di Lekki. Quest’ultimo, costato anch’esso 1.5 miliardi di dollari, dovrebbe essere operativo nel 2023 e potrà ricevere navi con una capacità di carico superiore alle 18.000 tonnellate, ponendosi come principale antagonista di Tangeri.

Parallelamente, in Costa d'Avorio, il completamento del progetto di espansione del porto di Abidjan (930 milioni di dollari) ha migliorato la capacità di movimentazione delle merci. In Senegal, la costruzione di Port du Futur (capacità di un milione di tonnellate) sarà fondamentale per lo sviluppo della Dakar Integrate Special Economic Zone (DISEZ), l’area tax-free con cui il Paese vuole incentivare il proprio sviluppo industriale sul modello di Gibuti. In Angola, il governo ha annunciato i lavori per l’ampliamento del porto multifunzionale di Luanda per generare un incremento nei volumi di gestione pari a 700.000 tonnellate. Il fanalino di coda è il Camerun che, a causa di una situazione finanziaria meno florida dei concorrenti, ha deciso di avviare il progetto di rinnovamento del porto di Douala non prima del 203013.

La corsa ai porti e la partita per il rinnovamento infrastrutturale non è solo un affare interno degli Stati del Golfo di Guinea e, soprattutto, non è soltanto una dinamica economica. Al contrario, esse hanno una forte dimensione internazionale e dei contorni politici molto netti.

Innanzitutto, al contrario del settore petrolifero, dove si assiste ad una presenza maggioritaria occidentale a nord e cinese a sud, nel settore infrastrutturale sono le società cinesi e arabe a farla da padrone. Ad esempio, la ristrutturazione dei porti in Nigeria e Ghana è stata affidata alla China Harbor Engineering, mentre le attività di espansione in Senegal e Angola alla emiratina DP World.

Tali attività straniere costituiscono i tasselli di un mosaico e di una strategia continentale più ampia da parte di Pechino (la famosa Belt and Road Initiative) e Abu Dhabi già osservabile in Africa orientale (Kenya, Gibuti per la Cina, Somalia per gli Emirati) e meridionale (Sudafrica per la Cina, Mozambico per gli Emirati). La Cina intende consolidare il proprio ruolo di principale partner economico e politico per i Paesi del continente africano e, attraverso il primato nel settore infrastrutturale, vuole rafforzare la propria influenza, controllare i commerci tra Asia e Africa e mettere un’ipoteca sul crescente domanda interna africana. Per Pechino, l’Africa non è solo il principale fornitore di materie prime per alimentare lo sviluppo economico nazionale, ma anche un

13 The Maritime Executive (2020). The Raging Hub War at West African Ports. https://www.maritime-executive.com/eitorials/the-raging-hub-war-at-west-african-ports

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mercato di prospettiva per i propri prodotti e per i propri progetti di delocalizzazione. Infatti, lo Stato asiatico è in una fase di transizione da economia industriale a basso livello tecnologico ad economia post-industriale basata sull’alta tecnologia e i servizi. Tale transizione implica due fattori:

la prima, la certezza nell’approvvigionamento di energia e materie prime, mentre la seconda è la costruzione di nuovi hub industriali dove delocalizzare le imprese per usufruire di manodopera a costi inferiori. In tale contesto, la realizzazione di infrastrutture portuali, viarie e ferroviarie nonché l’incentivazione di parchi industriali tax-free appare fondamentale. Inoltre, come avviene nel caso del settore petrolifero, anche in quello infrastrutturale la Cina utilizza la metodologia della “trappola del debito”, prestando ai governi africani il denaro con cui essi costruiranno porti, ferrovie e parchi industriali (affidandoli a società cinesi) e garantendosi, così, non solo il controllo dei nuovi hub logistici, ma anche una significativa influenza negli affari politici interni degli Stati africani.

Anche se meno capillare rispetto a quella cinese, anche l’azione degli Emirati Arabi Uniti appare possedere un profondo respiro strategico. Abu Dhabi, attraverso le attività di DP World, intende sostenere i propri piani di differenziazione economica, emancipandosi dai limiti dello spazio geografico mediorientale e creando anche partnership politiche alternative a quelle delle Monarchie del Golfo. In questo senso, l’aggressione del mercato infrastrutturale del Golfo di Guinea rappresenta l’ariete con cui penetrare altri settori, come quello della finanza (gli accordi con DP World spesso sono accompagnati dall’ingresso delle banche di Abu Dhabi nel panorama finanziario locale) e dell’agro-alimentare (la food security è una priorità per l’agenda emiratina e l’Africa rappresenta un bacino di forniture di prim’ordine).

I.3 Ricchezza e limiti del settore ittico

Il Golfo di Guinea ospita alcune delle specie ittiche più ricercate al mondo (tonno, gambero, sardina, cernia, polpo, ecc.) e l’attività di pesca rappresenta una voce di importanza strategica nel settore alimentare regionale sia per l’export degli Stati che per la sussistenza delle comunità locali. I pesci sono la principale fonte di proteine nell’alimentazione delle popolazioni costiere e rappresentano la pietra angolare per la sicurezza alimentare.

Alcuni dei Paesi nella regione sono tra i primi 10 per la produzione di pesce in Africa e tra i primi 50 a livello globale. La pesca nel Golfo di Guinea è tra le più produttive al mondo e contribuisce al 4% della produzione ittica mondiale.

Nonostante questa ricchezza naturale, lo sviluppo presente e futuro del settore sono minacciati da notevoli criticità legate all’inquinamento, alla precarietà della filiera di trasformazione, alla logistica della pesca e al ruolo dei pescherecci stranieri.

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Innanzitutto, i Paesi rivieraschi non dispongono di flotte moderne e numericamente consistenti di pescherecci. I piccoli pescatori locali dominano la produzione nazionale Nigeria (80% del totale), Camerun (71%), Ghana (70%) e Angola (50%). Il pescato viene immediatamente immesso sul mercato, dove dev’essere consumato in tempi rapidi a causa della mancanza di adeguate strutture di refrigerazione, conservazione o trasformazione del cibo. Questo obbliga i pescatori a limitare le proprie attività, li costringe ad operare sui piccoli mercati cittadini e impedisce lo sviluppo di un’industria ittica nazionale.

In secondo luogo, i pescatori locali devono affrontare la concorrenza delle società straniere che battono le acque regionali con mezzi decisamente superiori ai loro e che sono in grado di conservare e processare il pesce a bordo prima di venderlo sul mercato internazionale, evitando così di doversi appoggiare a strutture locali sulla terraferma. La maggior parte degli Stati costieri della regione non ha la capacità di pesca d’altura e, di conseguenza, di sfruttare le proprie Zone Economiche Esclusive. Per questo motivo, essi vendono licenze di pesca a navi di proprietà di compagnie straniere o stipulano accordi con nazioni che pescano in acque lontane dalla costa.

Come nel caso del petrolio, anche in quello del settore ittico si crea un paradosso economico. I Paesi africani sono produttori di pesce di alta qualità ma si trovano costretti ad importare grandi quantitativi di pesce di bassa qualità per soddisfare la crescita della domanda alimentare interna.

Come se non bastasse, l’attività ittica nel Golfo di Guinea è flagellata dalla pratica della pesca illegale (soprattutto cinese) che coinvolge sia i pescatori locali che, su scala molto più ampia, i pescherecci di Paesi stranieri. Si stima che circa il 60% del pescato regionale venga prodotto in maniera irregolare e in violazione alle norme vigenti.

Le forme di pesca illegale sono molto differenziate e includono attività straniere non autorizzate (assenza di licenza), attività in zone proibite (aree protette o acque costiere), uso di tecniche lesive come esplosivi o trasbordo di pesce non autorizzato14. I pescatori illegali effettuano trasbordi non autorizzati per evitare i controlli portuali e massimizzare i profitti. A rendere ancora più complessa la questione della pesca illegale è il fatto che i Paesi rivieraschi non dispongono di mezzi e capacità militari e di polizia adeguate per contrastare il fenomeno e che, in molti casi, le autorità deputate al controllo delle attività ittiche preferiscono scendere a patti con i pescatori illegali in cambio di una parte del pescato o del pagamento di una tangente.

La pesca illegale rappresenta una preoccupazione contingente per i governi e le comunità locali del Golfo di Guinea. Parallelamente, una criticità ben più profonda potrebbe compromettere la sicurezza del settore ittico e la sicurezza alimentare della regione, vale a dire l’erosione degli stock

14 Vale a dire il trasferimento di pesce da un peschereccio privo di licenza ad uno regolarmente autorizzato.

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dovuta all’inquinamento, agli impatti del cambiamento climatico e alla pesca intensiva. Secondo le stime attualmente disponibili, le riserve di pesce del Golfo di Guinea sarebbero sovra-sfruttate del 50%, mentre il riscaldamento dei mari avrebbe già causato una incidenza negativa nel tasso di riproduzione dei pesci e nei loro trend migratori. Infine, l’inquinamento dovuto all’industria petrolifera e all’incremento del commercio navale ha aumentato del 30% il tasso di mortalità ittico regionale. Sulla base di questi fattori, sussiste il rischio che, nei prossimi 10 anni, le risorse ittiche del Golfo di Guinea diminuiscano del 35%.

Nel complesso, questi fattori di vulnerabilità contingenti e strutturali colpiscono in particolare i pescatori e le comunità costiere, erodendo i loro mezzi di sussistenza e contribuendo al loro impoverimento.

Il peggioramento delle condizioni di sviluppo e della sicurezza sociale, economica e alimentare rappresenta la base per la radicalizzazione delle agende politiche delle comunità locali e costruisce un incentivo all’adozione di forme di mobilitazione violenta sia a livello orizzontale (conflitti tra gruppi di pescatori) che verticale (conflitto contro le istituzioni centrali) e con i pescherecci stranieri.

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II. I fattori di vulnerabilità politico-sociale e i principali focolai di conflitto

Il modello di sviluppo economico promosso dai governi del Golfo di Guinea ha una natura fortemente contraddittoria. Infatti, gli investimenti nel settore petrolifero, nel comparto infrastrutturale e nell’export ittico riescono a produrre moderati vantaggi macroeconomici (flusso di valuta pregiata, ingresso di capitali stranieri) ma risultano avere profonde esternalità negative a livello sociale.

Tra queste, le più rilevanti sono le scarse ricadute sul mercato del lavoro nazionale e gli impatti ambientali. Infatti, mentre il comparto ittico sente la concorrenza dei pescherecci stranieri, quello energetico e quello infrastrutturale non sono in grado di assorbire in maniera soddisfacente l’offerta di manodopera. Come se non bastasse, i mega-progetti per la costruzione di porti e piattaforme di estrazione idrocarburica hanno generato elevatissimi livelli di inquinamento e di degradazione del suolo che hanno colpito direttamente le fonti di sostentamento delle comunità di pescatori, allevatori e agricoltori della costa. Queste categorie sociali non hanno ricevuto compensazioni pecuniarie sufficienti né sono state incluse in programmi di reinserimento lavorativo efficienti e efficaci.

In molti dei Paesi del Golfo di Guinea, tali contraddizioni economiche si inseriscono in contesti politici polarizzati e disfunzionali, dominati dalla corruzione, dal nepotismo, dall’autoreferenzialità delle classi dirigenti e dal settarismo etnico-religioso. Il basso livello nella tutela dello Stato di diritto e gli abusi delle Forze Armate e di polizia contribuiscono a completare un quadro in cui spiccano la discriminazione e l’alienazione delle categorie più fragili.

La combinazione dei fattori economici e politici alimenta la percezione, da parte delle popolazioni più colpite dalle esternalità negative del piano di sviluppo regionale, di essere vittima di una sorta di regime coloniale interno in cui lo Stato centrale si appropria delle risorse del territorio senza garantire diritti, sicurezza, rappresentanza istituzionale e condizioni di vita dignitose. Tale malcontento può assumere forme di protesta più o meno radicali e, in alcuni casi addirittura violenta, contro l’establishment di potere nazionale

In questa cornice di criticità generali e condivise, gli esempi più eclatanti di mobilitazione antigovernativa sono attualmente osservabili in Nigeria, Camerun e Angola.

In Nigeria, il focolaio di conflitto più complesso è quello della regione geografica sud-occidentale del Delta del fiume Niger15 (70.000 km², pari al 7.5% della superficie territoriale nazionale),

15 Essendo questo approfondimento dedicato alla regione del Golfo di Guinea, si è deciso di enfatizzare le dinamiche politiche, economiche e securitarie connesse alla dimensione geopolitica costiera, tralasciando volutamente i fenomeni tipici dell’entroterra. Per questa ragione, il conflitto del Delta del Niger viene definito come il più complesso del Paese

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all’interno della quale si trovano ben 9 Stati federali (Delta, Edo, Cross River, Bayelsa, Abia, Akwa Ibom, Imo, Ondo, Rivers). Il Delta del Niger è uno dei principali motori dell’economia nigeriana e il fulcro del settore petrolifero, visto che garantisce quasi la totalità della produzione di petrolio e gas di Abuja e che dispone di riserve accertate pari a 34 miliardi di barili di greggio. All’interno della regione vivono oltre 31 milioni di persone appartenenti a 40 gruppi etnici, in marcata prevalenza di religione cristiana, tra i quali spiccano gli Igbo (14% della popolazione totale nigeriana), gli Ibibio (2.5%) e gli Ijaw (2%).

Sin dalla nascita della Nigeria indipendente (1960) i rapporti tra le comunità del Delta del Niger e il resto del Paese sono state difficoltose. Infatti, in quanto realtà artificiale creata dal colonialismo britannico, la Nigeria è sempre stata una entità politica multietnica e multiconfessionale sbilanciata e abitata da popoli che non condividevano alcuna storia e cultura comuni. Come se non bastasse, il nuovo Stato nigeriano è stato costruito sulla base di un accordo politico di spartizione del potere tra i due principali gruppi etnici, gli Hausa musulmani del nord (28% della popolazione) e gli Yoruba cristiani del sud (21%), che inevitabilmente discriminava le minoranze. Tale disparità è divenuta sempre più evidente con l’avvio dell’esplorazione petrolifera nel sud e con la decisione governativa di attuare un modello di gestione fortemente centralizzato e lesivo per le popolazioni del Delta del Niger.

La contestazione della popolazione sud-orientale nei confronti del governo centrale, guidata dai movimenti nazionalisti Igbo, è subito esplosa violentemente sotto forma di conflitto armato per l’autodeterminazione e l’indipendenza: la guerra del Biafra (1967 – 1970).

La vittoria delle Forze Armate nigeriane contro i separatisti del Biafra non ha assolutamente affievolito il sentimento nazionalista e l’agenda indipendentista del Delta del Niger e, al contrario, ha ulteriormente alienato la popolazione locale da Abuja a causa delle operazioni di pulizia etnica perpetrate dai militari durante la guerra e negli anni immediatamente successivi.

Da allora, il conflitto del Delta del Niger non ha trovato ancora una soluzione stabile basata su un accordo condiviso e ritenuto conveniente da entrambe le parti. Anche se i livelli di violenza non hanno più raggiunto l’intensità del 1967 - 1970, i separatisti nigeriani hanno continuato l’attività di proselitismo e non hanno mai abbandonato il loro sogno secessionista.

Tuttavia, negli ultimi 20 anni, si è assistito ad una divisione all’interno del fronte politico indipendentista. Una parte dei movimenti Igbo e Ijaw han deciso di perseguire modalità di lotta sostanzialmente pacifica, nel tentativo di raggiungere i propri obbiettivi attraverso percorsi

per quanto riguarda le aree costiere e non nel tentativo di sminuire la gravità di altre crisi attualmente in corso in Nigeria, come quella relativa alla violenza tra agricoltori e pastori nella Middle Belt e l’insorgenza jihadista di Boko Haram nel nord-est.

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istituzionali e di negoziato con le autorità centrali (referendum popolare). Al contrario, l’ala più radicale ha continuato con l’insurrezione armata, impiegando tattiche di guerriglia e adottando modalità di azione terroristiche e criminali, inclusa la pirateria.

istituzionali e di negoziato con le autorità centrali (referendum popolare). Al contrario, l’ala più radicale ha continuato con l’insurrezione armata, impiegando tattiche di guerriglia e adottando modalità di azione terroristiche e criminali, inclusa la pirateria.