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La declinazione di competenze riconosciute alla famiglia

Nell’ambito della legislazione nazionale che si riferisce alle politiche sociali, cercando di evidenziare elementi di sussidiarietà familiare, si possono individuare due principali categorie di persone: i portatori di handicap e i minori, la cui cura e assistenza viene affidata principalmente alle famiglie.

La legge n. 104 del 1992, “Legge quadro per l’assistenza,

integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”, si pone

come obiettivo quello di garantire ai soggetti svantaggiati misure adeguate di assistenza sanitaria e sociale, il sostegno per una corretta integrazione scolastica e lavorativa, affinché i portatori di handicap possano avere una corretta socialità e una vita il più possibile

“normale”, per evitare che possano essere in un qualsiasi modo isolati e segregati.

Un ruolo fondamentale per la socializzazione, l’assistenza e la cura degli handicappati dovrebbe essere svolto dalle famiglie. La legge effettivamente prevede un coinvolgimento delle famiglie anche se nel complesso appare troppo limitato.

Per la realizzazione dell’integrazione sociale il compito proposto consiste nell’”assicurare nella scelta e nell’attuazione degli interventi socio-sanitari la collaborazione della famiglia, della comunità e della persona handicappata, attivandone le potenziali capacità” (art. 5, lett. e). In questo caso il ruolo riconosciuto alle famiglie è quello di soggetti compartecipi nell’adozione delle cure e dell’assistenza, ma anche nella realizzazione degli stessi. Viene anche definito, per agevolare l’integrazione sociale, un servizio di accoglienza presso nuclei familiari, o singoli individui (art. 8, lett. h).

Altre iniziative vengono adottate nei confronti di quei genitori i cui figli sono portatori di handicap; gli interventi si traducono soprattutto nella concessione di permessi e licenze particolari che diano la possibilità ai genitori di astenersi o assentarsi dal luogo di lavoro anche per lunghi periodi (fino a tre anni), per poter permettere loro di restare vicini ai propri figli, (art. 33, comma 1, 3, 5), per realizzare quegli interventi di cura e assistenza di cui all’art. 5.

La legge è stata modificata più volte: nel 1998 con legge 162, con la legge n. 17 del 1999, e ancora con la legge n. 53 del 2000, ed infine, con il decreto legislativo n. 151 del 2001. Nonostante le varie modifiche apportate, nonostante l’affermazione della sussidiarietà in diverse leggi nazionali, non vi è stato nessun cambiamento nel riparto di competenze che tendesse verso un maggior coinvolgimento delle famiglie.

Alcune leggi regionali individuano per le famiglie uno spazio d’azione rilevante, con la gestione e l’organizzazione di attività ludico- educative. Sarebbe molto importante prevedere questo tipo di attività, gestite da genitori con la consulenza e il sostegno di personale competente, anche per i ragazzi portatori di handicap, considerando anche il fatto che la maggior parte delle attività socio-assistenziali e ludiche vengono svolte da associazioni e organizzazioni di volontariato o da soggetti privati.

Nella legge n. 285 del 1997, “Disposizioni per la promozione di

diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza”, si trovano alcuni

elementi rilevanti. L’ art 1, afferma l’impegno nazionale “a favorire, la promozione dei diritti, la qualità della vita, lo sviluppo, la realizzazione individuale dell’infanzia e dell’adolescenza, privilegiando l’ambiente ad esse più confacente ovvero la famiglia naturale, adottiva o affidataria”. La legge quindi riconosce che il pieno sviluppo del ragazzo deve avvenire nell’ambiente più adeguato, la famiglia, o, nei casi in cui

questa non sia in grado di educare, assistere e prendersi cura dei propri figli, le funzioni educative e di cura devono essere demandate ad altre famiglie, attraverso l’affido e l’adozione. La legge non solo riconosce il ruolo insostituibile delle famiglie ma definisce anche le funzioni e gli obiettivi che dovrebbero essere posti per un giusto cammino di crescita dei propri figli.

Un altro importante servizio che la famiglia può svolgere è quello dell’accoglienza di genitori unici e dei loro figli, come riconosciuto dall’art. 4, g); in questo caso la famiglia ospite svolge un ruolo di sostegno nell’attività educativa del genitore unico, attraverso il confronto, la convivenza e una corresponsabilità nei confronti del bambino o del ragazzo, senza sostituirsi al genitore, ma contribuendo al benessere fisico e affettivo suo e del figlio o dei figli.

La legge n. 149 del 2001, modifica la legge 184 del 1983,

“Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori”, e parte del Titolo

VIII del libro I del codice civile, “Dell’adozione di persone di maggiore

età”. Il primo, e già indicativo cambiamento è la titolazione del Titolo I

della legge 184 che viene così modificato: “Diritto del minore alla

propria famiglia”.

Riconoscendo l’importanza dell’ambiente familiare per la crescita di bambini e ragazzi, quando la famiglia originaria sia impossibilitata o non adeguata a dare ai propri figli una giusta educazione, stabilità, e a soddisfare le esigenze materiali e affettive, allora vengono previsti

l’affidamento e l’adozione. Gli enti locali, al fine di aumentare la capacità di accoglienza dei genitori affidatari o adottivi e di garantire il giusto sostegno, organizzano corsi di formazione e occasioni di confronto.

Il Titolo II, che disciplina l’affidamento elenca i soggetti riconosciuti idonei per l‘affido e ne specifica gli obblighi nei confronti dell’affidato: “assicurargli il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui egli ha bisogno”. Il comma 2, dell’art. 2, Titolo II, sancisce il superamento del ricovero negli istituti di accoglienza, privilegiando innanzi tutto l’accoglienza in famiglia, e solo come opzione secondaria, quella nelle comunità-famiglia.

L’articolo 4, definisce i doveri che spettano ai genitori affidatari, sempre per il perseguimento del bene del bambino; la famiglia ospite deve sottoporsi a periodici controlli con i servizi sociali; inoltre deve permettere e facilitare i rapporti del minore con i propri genitori.

Il limite che si riscontra in questa normativa o percorso è proprio la mancanza di indicazioni per interventi più mirati e dettagliati dovuta all’assenza di leggi-delega e con specifico riguardo alla famiglia, la mancanza di un progetto che valorizzi pienamente le competenze alle stesse riconosciute e affidate. Perché questo possa realizzarsi è necessario a questo punto la collaborazione normativa effettiva degli enti territoriali per ovviare ai problemi di asimmetria informativa, organizzare un sistema di informazione/formazione, provvedere

all’identificazione di ruoli, ambiti e funzioni, organizzare corsi di formazioni, affinché, si possa costruire, attraverso l’applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale, un vero sistema di Welfare a rete basato sulla collaborarazione e corresponsabilizzazione dei diversi soggetti sociali.

Il D.lgs. n. 155, 2006, introduce nel nostro ordinamento una nuova forma giuridica: l’impresa sociale. Questo nuovo soggetto va ad arricchire il numero delle realtà che compongono il terzo settore, offrendo nuovi spazi, scenari e una nuova forma costitutiva ad associazioni, organizzazioni di volontariato e ad altri sogetti già esistenti. La legge, infatti, afferma che “possono acquisire la qualifica di impresa sociale tutte le organizzazioni private, ivi compresi gli enti di cui al libro V del codice civile, che esercitano in via stabile e principale un’attività economica organizzata al afine della produzione e dello scambio di beni o servizi di utlità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale”.

Coloro che svolgono attività sociali possono scegliere la forma giuridica della Spa o della Srl. Le imprese sociali hanno un’attività commerciale prevalente, a differenza delle Onlus, ma vengono accomunate a quest’ultime dall’abbligatoria assenza di scopo di lucro, e, pertanto, l’obbligo di non distribuire tra soci, amministratori e lavoratori eventuali utili di gestione.

La legge include nei serivizi sociali l’assistenza sociale e l’assistenza sanitaria, tutela dell’ambiente e nel campo formativo: educazione, istruzione, ricerca, servizi culturali e formazione extra scolastica. Lo spazio inquadrato per l’attività delle imprese sociali è molto ampio, genera quindi enormi possibilità d’azione. La famiglia, in forma associata, potrebbe trovare, grazie alla legge, un ambito d’azione privilegiato nella reallizzazione dei serivizi pubblici alla persona, utlizzando la norma per inserire in un contesto legislativo ed economico, numerose realtà già esistenti inquadrate come associazioni familiari o organizzazioni di volotnariato.

La denomizione impresa sociale non comporta nessun benificio economico o finanziario, questo elemento viene considerato un degli aspetti maggiormente critici e limitanti del decreto legislativo. Ulteriori elementi che appaiono deboli e denotano genericità e inderminatezza sono la mancanza di precise regole per predisposizione del bilancio sociale, reso obbligatorio dalla legge, e la mancanza di verifiche e accertamenti della reale finalità sociale dell’impresa. Inoltre decreto prevede un forte conivolgimento degli stakeholders nella governance dell’impresa, ma non vengono definite le modalità della partecipazione; la realizzazione di quest’obbligo rimane quindi vaga.

I soggetti che compongono il terzo settore trovano nel decreto uno strumento che aiuta a portare avanti le finalità di promozione umana e sociali che motivano l’agire delle singole cooperative,

organizzazioni non governative e associazioni attraverso l’inseriemento lavorativo e sociali di soggetti svantaggiati.

La legge, nonostante dimostri alcune lacune o punti nebulosi, risulta un ulteriore passo in avanti per la realizzazione e l’applicazione del principio di sussidiarietà.

3. Il ruolo della famiglia nello svolgimento dei servizi

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